«E così sei tornato, farabutto, ficcanaso che
non sei altro? Vuoi tornare ad affliggerci e tormentarci, desideri
ancora esporre i nostri corpi ai pericoli e costringere i nostri
cuori a prendere sempre nuove decisioni? Com'ero felice; potevo
sguazzare nel fango e crogiolarmi al sole; potevo trangugiare e
ingozzarmi, grugnire e stridere, ed ero libero da pensieri e dubbi:
“Che devo fare, questo o quello?”. Perché sei tornato? Per
rigettarmi nell'odiosa vita che conducevo prima?»
[Elpenoro si rivolge a Ulisse dopo la sua liberazione
dall'incantesimo di Circe]
Spesso, nei miei scritti, utilizzo molte volte il
termine “postmodernità”, un nome “totalizzante” che di fatto
serve ad etichettare l'assetto sociale tipico del mondo occidentale,
soggetto al modello capitalistico e consumistico esportato dagli
Stati Uniti in (quasi) tutto in mondo industrializzato. Ma che cos'è
precisamente questa “postmodernità”? Che caratteristiche ha?
Questo dossier ha lo scopo di chiarire ai miei lettori e alle mie
lettrici cosa effettivamente essa sia, sperando che questi ultimi,
dopo averlo letto, non soltanto comprenderanno meglio cosa intendo
dire quando parlo di “bambini vecchio”, “animalizzazione”,
“simulacri” et similia, ma che si facciano altresì un'idea ben
più chiara del mondo in cui vivono e della sua confusionarietà ed
insensatezza, sperando che, nel loro piccolo, possano migliorare il
loro stile di vita grazie ad una certa presa di coscienza, rendendolo meno disumano. Fatta questa premessa, ho reso la bibliografia del dossier molto corposa al fine di fornire numerosi strumenti di comprensione e
approfondimento a chi legge: in essa troverete tutti i testi
che vi servono per acquisire consapevolezza della famigerata
condizione postmoderna nella
quale siete vostro malgrado
invischiati. Buona lettura.
Definizione di postmodernità
Prima di iniziare la dissertazione è bene
specificare, come fa notare Zygmunt Bauman, che la postmodernità non
trascende la modernità fordiana (il cosiddetto “modello
capitalistico pesante” che ispirò la distopia del romanzo “Brave
New World” di Huxley, per intenderci). Per questo motivo,
l'utilizzo di questo termine è impreciso (Bauman infatti parla di
“modernità liquida”, ovvero di una “liquefazione” della
modernità pesante e dei suoi punti di riferimento fissi);
ciononostante, in modo da essere coerente con tutti gli altri miei
scritti, da qui in poi chiamerò la “modernità liquida” nel modo
in cui è più conosciuta, ovvero “postmodernità” (definizione
dovuta al filosofo Jean-François Lyotard).
Innanzitutto, è bene definire cosa si intende per
postmodernità: associandomi a Lyotard, che ne ha fornito una
definizione semplice e sostanziale, la definirei come l'incredulità
nei confronti delle metanarrazioni. Cosa vuol dire ciò? Per
comprendere il concetto, è opportuno far notare che l'umanità ha
sempre avuto bisogno di legittimare in qualche modo il suo
operato (almeno, prima che entrasse nella sua fase postmoderna, ma su
questo punto insisterò più avanti). I grandi ideali (come ad
esempio il comunismo, la libertà, l'uguaglianza e così via), i
rituali religiosi, la disposizione della chiesa e del municipio
(istituzioni di potere centrali nella gerarchia sociale) nelle piazze
dei paesi agricoli... insomma, è tutta una questione di attribuire
un senso alle cose, in particolare a determinati assetti
sociali. Nell'antico Egitto, ad esempio, l'autorità del Faraone era
legittimata dal suo essere un Dio in terra; nella Chiesa, invece,
l'autorità del Papa è legittimata dal fatto che egli sarebbe il
rappresentante di Gesù Cristo (e pertanto, di nuovo, di Dio) in
persona. Considerando questi due esempi, la metanarrazione che li
caratterizza sarebbe la presunta divinità delle due figure
istituzionali sopracitate, che ovviamente è giustificata da un
insieme di norme, usi e consuetudini radicati nei rispettivi contesti
di appartenenza. Nel comunismo, facendo un altro esempio, la
metanarrazione sarebbe la superiorità del proletariato rispetto alla
borghesia, altra concezione intrinseca di un determinato contesto
storico giustificata da un insieme di norme e disposizioni
politico-sociali (il marxismo, il leninismo e la degenerazione dello
stalinismo). Anche la famiglia, nucleo centrale delle società
patriarcali, è giustificata dal matrimonio, il quale è disciplinato
da un insieme di regole ben precise. Volendo, anche in questo caso si
può parlare di metanarrazione (il matrimonio, di nuovo, viene
approvato direttamente da Dio, o meglio, dai suoi rappresentanti in
carne ed ossa, oppure viene celebrato in municipio). Ciò detto, è
bene far notare che il “bisogno di legittimazione” di cui parlo
viene spesso esternato in rituali: ci sono rituali per accedere al
partner, rituali religiosi, i rituali della massoneria, i rituali
dell'alta società - che la tengono ben a distanza dal mondo degli
indigenti e dei barboni delle strade, aiutando a demarcare il confine
tra “alto” e basso”, tra “sopra” e “sotto”, tra “Dio”
e “uomo”. Quando c'è una metanarrazione a fare da pilastro, si
può pertanto parlare di una concezione verticale delle
strutture sociali, in una netta divisione tra ciò che è “nobile”
e ciò che non lo è. I valori, sopratutto, sono altre cose che
rendono l'uomo “nobile”: l'amore per la famiglia, la fedeltà, le
leggi della cavalleria... ma anche i valori politici, la netta
divisione tra “destra” e “sinistra”, tra “stato” e
“popolo”, l'amore che nutrivano i giapponesi dell'immediato
dopoguerra per il loro imperatore... e via dicendo.
Fatti tutti questi esempi, capire la definizione di
postmodernità diventa abbastanza semplice: essa è la
de-legittimazione di quanto scritto sopra. Alla luce di ciò,
Dio viene ucciso (come aveva predetto Nietzsche) e la Chiesa si
indebolisce; il comunismo viene distrutto dalla “borghesizzazione”
della classe operaia, dacché l'assetto verticale con in cima il
proletariato e in basso la borghesia diventa orizzontale (si pensi ai
film di Michelangelo Antonioni, nei quali l'operaio nutre le stesse
ambizioni del borghese: comprarsi beni di consumo per soddisfare
effimeri desideri); la famiglia si sgretola; la propria patria
diventa una terra di nessuno; si combatte per il piacere effimero e
non per gli ideali della piazza; l'imperatore si sottomette alla
democrazia forzata degli americani; i rituali vengono indeboliti e
cresce la diseducazione, la sfiducia nei confronti delle autorità
ecc.
Ma a che cosa è dovuta questa de-legittimazione?
Per rispondere a questa domanda in modo comprensibile, mi occorre
stendere alcuni paragrafi a parte.
La Seconda Guerra Mondiale, il progetto
Manhattan, ARPANET e il sessantotto
«Zitto e calcola!»
[David Mermin]
«I've seen two world wars
I've seen men send rockets out into space
I foresee a holocaust
An angel of death descending to destroy the human race» [Thin Lizzy, “Angel of Death”]
I've seen men send rockets out into space
I foresee a holocaust
An angel of death descending to destroy the human race» [Thin Lizzy, “Angel of Death”]
La WWII è stata indubbiamente una delle più grandi
tragedie della storia dell'umanità. Il motivo di ciò non rientra
più di tanto nella naturale bellicosità ed aggressività degli
esseri umani (le guerre sono sempre esistite e sempre esisteranno),
ma nel ruolo che la tecnica ha avuto come entità a sé stante nella
messa in atto delle più raccapriccianti mostruosità. Con il secondo
conflitto mondiale, in tutti gli schieramenti opposti, fu aumentata
ai massimi livelli la separazione tra “uomo che uccide” e
“uomo che viene ucciso”, e l'efficientismo diventò il
paradigma fondamentale per stroncare le vite altrui – faccio notare
che nella sua teoria della postmodernità Lyotard parla di
«subordinazione del sapere ai criteri di efficienza»;
di mio, aggiungerei altresì i termini “coscienza” e
“consapevolezza” alle cose subordinate all'efficientismo, e, più
in generale, alla tecnica fine a sé stessa (che come suggerisce
Heidegger, priva l'uomo del suo essere, sottraendogli uno scopo e
declassandolo a mero operatore di uno strumento indipendente dal suo
volere che priva le cose della loro vera natura, oggettivandole
asetticamente e rendendole meri simulacri da classificare e
calcolare).
Come fa notare Fromm nel suo "Essere o Avere?", quando i criminali di
guerra nazisti venivano processati, ribadivano a più riprese, come
degli automi, che loro eseguivano soltanto gli ordini, e che i loro
sforzi erano mirati a uccidere più ebrei possibili nei campi di
concentramento, ottimizzando la resa finale dello sterminio tramite
numerosi espedienti di natura puramente tecnico-logistica. Allo
stesso modo, i piloti che sganciarono il “Little Boy” e il “Fat
Man” (da notare la stupidità dei nomi dei due ordigni di morte) su
Hiroshima e Nagasaki, dissero che loro avevano semplicemente “fatto
il loro lavoro”: se non ci fossero state quelle due persone, se ne
sarebbero trovate altre due pronte ad adempiere la stessa mansione –
componenti intercambiabili, insomma. Ma anche gli scienziati del
progetto Manhattan non scherzavano in quanto ad alienazione:
«Dopo che la bomba fu esplosa, Los Alamos fu
travolta da una grande eccitazione. Tutti festeggiavamo, correvamo in
giro. Io mi sedetti su una jeep a suonare i bongos, e così via.
Solo un uomo, ricordo, Bob Wilson, se ne stava
seduto con aria affranta.
Gli chiesi “Perché sei cosi avvilito?”.
Lui rispose “È una cosa terribile quella che
abbiamo fatto”.
Gli dissi “Ma sei stato tu ad iniziarla. Ci hai
coinvolto tu”.
Vedete, quello che mi era successo – quello che
era successo a tutti noi – è che avevamo cominciato
per una buona ragione, ma poi si inizia a lavorare duramente per
realizzare qualcosa e diventa un piacere, eccitazione. E si smette di
pensare, no? Si smette e basta. Bob Wilson era l’unico che stesse
ancora pensando, in quel momento.»
[Richard Feynman]
Il progresso tecnologico alla fine della WWII era
cresciuto a dismisura: grazie al perfezionamento del radar, fu
realizzato un esperimento epocale, quello del Lamb Shift (1947),
che permise agli scienziati di elaborare complessi modelli teorici di
fisica delle particelle (grazie ad esso, Feynman, Swinger e Tomonaga
poterono elaborare in modo indipendente la teoria
dell'elettrodinamica quantistica con tre approcci diversi che davano
gli stessi risultati). Già durante la costruzione della bomba
atomica venivano impiegati calcolatori grandi come stanze al fine di
risolvere complessi algoritmi di fisica nucleare, e durante la Guerra
Fredda tale tecnologia si perfezionò ulteriormente; nel 1969, il
dipartimento di difesa degli USA creò ARPANET, il più lontano
parente di internet, uno dei capisaldi della postmodernità attuale
(ARPANET di fatto diventerà internet nel 1974, con l'avvento del
protocollo TCP/IP).
La seconda guerra mondiale, con la sua modernità
pesante figlia del fordismo perfezionata al massimo
dell'efficientismo, e la Guerra Fredda, con il suo scontro tra
modello americano e modello sovietico (che crollerà come un castello
di carte lasciando dietro di sé un forte vuoto ideologico quando il
comunismo perderà il suo primato tecnologico rispetto
all'America), contenevano in sé già tutte le premesse per la
nascita del postmoderno, e avevano “resettato” il terreno sul
quale ricostruire tutto partendo da zero con la nuova tecnologia
sviluppata durante la guerra (il boom economico settantino e
l'iperproduttività statunitense ottantina). La potenza vincitrice
della WWII, l'America, era diventata il “grande padre putativo”
di tutto il mondo, e il suo modello di vita veniva esportato come
quello “vero e giusto”, volendo l'unico possibile. Si afferma
così il modello della globalizzazione: la democrazia è la forma più
elevata di governo e tutte le varie etnie che non si uniformano ad
essa e al modello americano vanno “rieducate”, magari con
bombardamenti o colpi di stato pilotati dai servizi segreti;
l'occidente, con in testa l'America – il cui simbolo è l'aquila,
il predatore in cima alla catena alimentare -, consolida il suo
status di egemone facendo leva sul suo apparato industriale,
economico e tecnologico (anche se questa cosa nell'oggidì è
soltanto un'illusione, dacché le potenze industriali dell'oriente,
in primis la Cina, hanno scalzato yankee e soci dal loro primato
economico: oggigiorno l'occidente è decadente e in crisi, proprio
come lo era l'Impero Romano prima delle invasioni barbariche).
«E'
difficile
Resistere al mercato, amore mio.
Di conseguenza andiamo in cerca di
Rivoluzioni e vena artistica.
Per questo le avanguardie erano ok,
Almeno fino al '66
Ma ormai la fine va da sé.
Quando nasce effettivamente la postmodernità?
Quando si “liquefa” la rigidissima modernità pesante? A parer
mio, l'anno che fa da spartiacque è il 1968: se durante la fase
fordiana del moderno l'occhio della tecno-scienza aveva
de-legittimato le precedenti metanarrazioni rendendo l'uomo un suo
mero subordinato/automa privo della sensatezza che usava attribuirsi
in passato, nel '68 viene fatto crollare l'assetto sociale verticale
precostituito, che diventa orizzontale; usando le parole di
Galimberti: «A partire dal Sessantotto si è registrato un
passaggio dalla "società della disciplina" dove ci si
dibatteva nel conflitto tra permesso e proibito alla "società
dell’efficienza e della performance spinta" dove ci si dibatte
tra il possibile e l’impossibile, senza nessun riguardo e forse
nessuna percezione del concetto di "limite". […]
La parola d’ordine dell’intero continente giovanile era
"emancipazione" all’insegna del "tutto è
possibile", per cui la famiglia era una camera a gas, la scuola
una caserma, il lavoro un’alienazione, il consumismo un
aberrazione, e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si
doveva liberare. La parola d’ordine era: "vietato vietare".
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il Sessantotto
aveva pensato in termini "sociali", si impianta, per uno
strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa logica di
impostazione americana, giocata però a livello "individuale",
dove ancora una volta tutto è possibile, ma in termini di
iniziativa, di performance spinta, di efficienza, di successo al di
là di ogni limite, anzi con il concetto di limite spinto
all’infinito [...]»
Ebraismo, modello americano e self-made man
«Look
at me now, a shadow of the man I used to be
Look through my eyes and through the years of loneliness you'll see
To the times in my life when I could not stand to lose, a simple game
And the least of it all was the fortune and the fame
But the dream seemed to end just as soon as it had begun, was I to know?
For the least thing of all that was on my mind, was the close at the
end of the show
The shadow of a lonely man, feels nobody else
In the shadow of a lonely, lonely man
Look through my eyes and through the years of loneliness you'll see
To the times in my life when I could not stand to lose, a simple game
And the least of it all was the fortune and the fame
But the dream seemed to end just as soon as it had begun, was I to know?
For the least thing of all that was on my mind, was the close at the
end of the show
The shadow of a lonely man, feels nobody else
In the shadow of a lonely, lonely man
«This
is the car at the edge of the road,
There's nothing disturbed, all the windows are closed,
I guess you were right, when we talked in the heat,
There's no room for the weak, no room for the weak.» [Joy Division, “Day of the Lords”]
There's nothing disturbed, all the windows are closed,
I guess you were right, when we talked in the heat,
There's no room for the weak, no room for the weak.» [Joy Division, “Day of the Lords”]
Se la scienza moderna, l'industrialismo e il
riduzionismo scientifico hanno distrutto le metanarrazioni e
trasformato l'uomo in un automa che non è più in grado di
definirsi, dacché i punti di riferimento fissi di cui per sua natura
abbisogna sono venuti meno, è lecito chiedersi da dove provengano
queste tendenze. Andando a guardare la religione ebraica, si scopre
che il suo potentissimo Dio separato dalla Terra possiede il
potere di creare da nulla l'intero universo - che può lasciar
espandere all'infinito (cosa confermata dalla cosmologia
moderna) – e non concede alcun paradiso ai suoi seguaci (che
pertanto dovranno impegnarsi ad ottenerlo con le loro forze,
nel mondo reale, data l'assenza di una premiazione oltrevita:
l'ebraismo pertanto non è una religione di salvezza come il
cristianesimo, ma una religione estremamente pragmatica).
Capitalismo, banche, efficientismo et similia a parer mio sono il
frutto del pragmatismo ebraico; e, ironia della sorte, l'unico Dio
della postmodernità, ovvero il denaro, ormai è anch'esso diventato
un'entità astratta separata dalla terra, proprio come YHWH:
oggigiorno, i soldi sono diventati dati, e le banche sono gli
archivi di dati che producono la base effimera e fluttuante
sulla quale si basa un sistema completamente alienato basato sulle
reminiscenze della dottrina ebraica (in fondo, la separazione
dalla terra per un animale come l'uomo implica la separazione da
una sua condizione naturale, e pertanto, in ultima sintesi,
dissociazione; in altre parole, come fa notare Feuerbach, l'idea di
una divinità tutta soggettività – il famoso Dio/Io unico – è
indissolubilmente legata all'alienazione delle qualità tipiche
dell'essere umano, che vengono oggettivate in un'entità a lui
contrapposta). Ciò detto, dato che la natura umana rimane invariata
nel corso delle epoche, nella postmodernità l'uomo possiede pur
sempre la volontà di legittimare qualcosa. Legittimando il denaro (e
pertanto l'economia) a unica metanarrazione possibile, di fatto
diventa immediato ottenere l'equazione essere=avere, il
paradigma fondamentale del consumismo. In fondo, il denaro è immune
alla de-legittimazione operata dalla tecno-scienza, dacché è il
combustibile che la alimenta (e la tecno-scienza ha per unico fine il
suo auto-potenziamento, che di per sé, visto da un punto di vista
esterno alla postmodernità, è una cosa completamente insensata nel
momento in cui l'uomo ne diventa succube).
Quasi come se volesse rimediare alla mancanza di un
messia divino nell'immaginario collettivo ebraico, il modello
americano crea la figura del self-made man, una sorta di
superuomo capitalistico che da solo può realizzare il suo
sogno (ovviamente guadagnare di più, produrre di più, arrivare più
in alto nella gerarchia sociale/aziendale ecc.)
Il self-made man esercita la sua divinità comprando la
macchina più veloce e potente in circolazione, sposando la donna più
bella (ovviamente secondo gli standard estetici imposti dalla moda
del momento o dal senso comune, dacché fortunatamente non esiste una
bellezza oggettiva) e vestendola con i vestiti più costosi, facendo
più figli possibili, gestendo il potere nel migliore dei modi
spingendo il suo ego – ovviamente privato di ogni forma di
spiritualità, dacché essa non si confà ai famosi criteri di
efficienza imposti dalla supremazia della tecnica –
all'estremo, espandendolo all'infinito in un mondo in cui bisogna
produrre sempre più, crescere sempre più, andare sempre più
veloci, perché altrimenti questa grande illusione verrebbe meno. Ma
cosa succede a chi non riesce a diventare self-made man?
Ovviamente maturerà un marcato senso d'inadeguatezza nei
confronti di chi, diversamente da lui, ce l'ha fatta. Non c'è
proprio spazio per i deboli nel modello americano. Eppure, sia
perdenti che vincitori sono succubi della loro solitudine ed
alienazione.
Lo studente con i voti più alti (anche i voti
dopotutto vengono monetizzati), l'imprenditore di successo, lo
scienziato più brillante ecc. sono tutte forme di self-made man.
Nella postmodernità, l'individualismo è tutto, e se un individuo
non è abbastanza forte, nonché poco avvezzo ai cambiamenti
repentini ed insensati che caratterizzano tale assetto sociale, va
escluso o mandato dallo psichiatra, che lo sederà mediante gli
opportuni psicofarmaci. Il sentirsi inadeguati, sentimento tipico dei
giovani postmoderni, li porta a fuggire da una realtà troppo caotica
e mutevole, e la sedazione – o reclusione volontaria, si pensi al
sempre più crescente numero di hikikomori occidentali - diventa un
modo per annegare nella “liquidità” senza rendersi conto di star
per soffocare. In fondo, una volta entrati nel mondo lavorativo,
diventerebbero tutti componenti di ricambio di un sistema cinico e
insensato in cui, mediante il loro lavoro, il self-made man
della situazione potrà comprarsi l'ennesima Ferrari con la quale
sfrecciare ai trecento all'ora sull'autostrada, senza scopo alcuno,
magari con la radio accesa in modo tale da cancellare quel silenzio
che opprime, che mette faccia a faccia con un vuoto interiore
terribile, un tipo di solitudine che è meglio nascondere o far finta
di non vedere, altrimenti si scoprirebbe di essere in balia della
depressione.
Dal punto di vista lavorativo, le fluttuazioni
continue del mondo postmoderno impongono un sempre più marcato
antiprofessionalismo: dato che il mondo deve cambiare in
continuazione, al massimo della velocità, non serve saper eccellere
in un determinato mestiere che assicurerà il mantenimento della
famiglia – istituzione ormai in crisi - per tutta la vita del
lavoratore (questa era una prerogativa del modello capitalistico
pesante, nel quale non raramente l'operaio aveva la garanzia di
rimanere vincolato alla sua mansione vita natural durante). Il
lavoratore postmoderno modello è un essere fluttuante senza alcuna
radice, che si adatta ad ogni nuovo contesto immagazzinando dati
sempre diversi, in un continuo divenire. Non saper correre dietro
al flusso dei dati diventa un fallimento, un'obsolescenza, dacché la
crescita – anche se in sostanza non si va da nessuna parte - è
virtualmente infinita, proprio come la produzione. “Crescita” è
infatti la parola preferita dei banchieri, dei politici, degli imprenditori, ma
anche degli psicologi – nella postmodernità, la psicologia, come fa
notare Fromm nel suo “La crisi della psicanalisi”, diventa
psicologia dell'adattamento,
una specifica tipologia di conformismo necessaria a forzare chi non
riesce ad adattarsi al sistema a divenire tutt'uno con esso.
La società postmoderna
«La
società non esiste.» [Margaret Tatcher]
Se nella modernità pesante il controllo sociale
veniva esercitato dall'alto verso il basso, da dopo il sessantotto la
completa libertà dell'individuo diventa il paradigma fondante della
società. L'autorità precostituita viene vista come il male
assoluto, come un muro da abbattere, e il tessuto sociale si sfalda,
diventando simile ad un gas in cui ogni persona corrisponde ad un
atomo spinto ad alta velocità verso il nulla, che interagisce con le
pareti fisse della scatola/società mediante urti altamente
energetici. Ci sono tante persone, troppe persone - guardacaso YHWH
diceva «Andate e
moltiplicatevi»
-, e ognuno vuole diventare un self-made man,
prevaricare il prossimo per il proprio successo, e la sua
individualità non va messa in discussione, per nessun motivo. Anche
quando risulta invadente, inconsistente e insensata. L'unica misura
delle cose diventa il proprio ego, e pertanto il contesto reale
oggettivo dei fatti/eventi e delle correlazioni che li legano tra
loro perde di significato; ed ecco che negli individui postmoderni
viene a mancare la capacità fondamentale di contestualizzare.
Le persone adulte nelle società postmoderne spesso esibiscono quel
narcisismo infantile tipico degli otaku; pensano che tutto sia
dovuto, si credono al centro dell'universo quando invero ne sono
soltanto una parte infinitesimale. Eppure, paradossalmente, un
eccesso di libertà conduce al suo opposto, ovvero ad una nuova forma
di schiavitù, in parte imposta dal conformismo e in parte
dall'incapacità di comunicare e di buttar giù le barriere del
proprio ego. Ovviamente, l'establishment approfitta di questa
situazione, si nasconde nell'ombra ed esercita il controllo facendo
leva sul narcisismo e sull'ottusità dell'uomo postmoderno,
manipolandolo con strategie molto subdole, capziose e sottili,
dandogli la sensazione di essere libero quando invero non lo è,
dacché non ha neanche avuto la possibilità di crearsi un proprio
mondo interiore, di acquisire consapevolezza, di fermarsi a pensare,
di dare un senso alla propria vita. Il conformismo (già messo a
punto nell'era fordiana) nella postmodernità diventa una sorta di
spettro che nessuno riesce a percepire pienamente, ma che tuttavia si
assume l'onere di fare ciò che in passato facevano le squadracce dei
regimi con i loro manganelli, evitando tuttavia qualsiasi forma di
violenza fisica e prediligendo lo svuotamento psicologico di tanti
individui lasciati al loro vuoto interiore; individui i quali,
illudendosi di avere una propria volontà, si lasciano trascinare
dalle strategie di marketing, dalle mode, dagli imprinting aziendali,
dal settarismo, da quello che vedono in televisione o su internet. Si
crea quindi un paradossale “individualismo conformista” in cui le
arcaiche strategie per “scannarsi per un pezzo di pane” diventano
delle commediole molto elaborate giocate da attori dalle molteplici
maschere manipolati da pochi burattinai insensati come loro, ma che a
loro differenza detengono la maggiorparte del patrimonio economico
mondiale. Sconfiggerli è impossibile, dacché sono parte integrante
di un sistema dal quale è impossibile emanciparsi completamente, a
meno di diventare dei barboni delle strade.
Aveva quindi ragione la Tatcher quando diceva che la
società non esiste: in un certo senso non esiste neanche più la
famiglia, l'istituzione centrale delle società del passato. Famiglia
significa sacrificio per l'altro, coesione sociale, amore. Tutte cose
poco efficienti e “libere”. Le famiglie postmoderne sono precari
aggregati di cinismo e discomunicazione, nelle quali il figlio unico
è favorito rispetto a molteplici fratelli (quest'ultimo assetto a
parer mio è il più sensato, dacché spesso il figlio unico tende ad
essere viziato e a isolarsi). D'altro canto, i bambini vengono
lasciati a loro stessi fin da piccoli, ed esposti ad un sovraccarico
di informazioni che sopprime la loro sensibilità ed emotività,
rendendoli fin da subito dei piccoli simulacri accumula-dati egoisti,
incapaci di rapportarsi col mondo in cui vivono e di costruirsi una
storia personale che vada al di là del virtuale. Il famoso assetto
sociale verticale in un certo senso viene rotto pure all'interno
della famiglia: il genitore non è più l'autorità da temere e
riverire, ma un compagno di giochi ancora più infantile del bambino
che – almeno in teoria - dovrebbe allevare. “Il contrattacco dell'impero degli adulti” di Hara in fondo non è una cosa molto
distante dalla realtà.
Luoghi e non-luoghi
«Se un luogo può
definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non
può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un
nonluogo. L'ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è
produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla
modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi,
repertoriati, classificati e promossi a “luoghi della memoria”,
vi occupano un posto circoscritto e specifico. Un mondo in cui si
nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con
modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni
provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club
vacanza e i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o a una
perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di
trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini,
distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un
commercio “muto”, un mondo promosso alla individualità
solitaria, al passaggio, al provvisorio e all'effimero propone
all'antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del
quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di
quale sguardo sia passabile. […]
Luogo e non-luogo
sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai
completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente;
palinsesti in cui si reinscrive incessantemente il gioco misto
dell'identità e della relazione.»
[Marc Augé, “nonluoghi”, pag 77]
Nel contesto postmoderno, nel quale la
de-legittimazione operata dalla tecno-scienza svuota ogni cosa di
significato umanistico e finalistico, è naturale che prendano piede
delle terre di nessuno prive di significato antropologico. I luoghi
in perenne transizione, ovvero metropolitane, aeroporti,
autostrade, supermercati ecc. di fatto annullano – allo stesso modo
di internet – le distanze tra un posto e l'altro, rendendo la
percezione del mondo omogenea e priva delle sue differenze
intrinseche. In un non-luogo non sorgono chiese e municipi:
l'orizzontalità senza meta è l'unica realtà antropologica
possibile di questi spazi privi di storia (e pertanto identità) in
cui molteplici persone transitano senza mai fermarsi, magari con lo
smartphone in mano e le cuffie nelle orecchie, dando l'idea che, se
nei luoghi “storici” la disposizione degli edifici era
subordinata alla preservazione dell'assetto sociale radicato nel
territorio, nei non-luoghi (ovvero nei luoghi a-storici) ogni singolo
particolare strutturale è caratteristico di un'etologia basata sulla
solitudine.
Il principe dei non-luoghi, manco a dirlo, è
internet, l'archivio di dati fluttuante che collega il mondo
intero e che varia in continuazione, repentinamente, trattandosi di
un vero e proprio mare artificiale dalla natura ontologicamente
transitoria in cui vagano miliardi di individui ridotti a meri avatar
(avatar che transiscono pure loro, indefinitamente, anche se la
persona che li indossa è sempre la stessa, fenomeno che rimarca la
fluttuazione postmoderna dell'identità). L'hikikomori che decide di
chiudersi in casa trasferendo la sua vita su internet, magari per
mezzo di qualche videogioco online o social network, di fatto abita
in un non-luogo, e la sua transizione è perenne, anche se,
paradossalmente, rimane pur sempre confinato all'interno delle sue
quattro mura.
La globalizzazione
«Who are these men of lust, greed, and glory?
Rip off the masks and let see.
But that's no right - oh no, what's the story?
There's you and there's me
That can't be right.» [Supertramp, "Crime of the Century"]
«Il
Sessantotto è stato il primo esplicito
anticipo della
globalizzazione.»
[Marco Revelli]
«Da qualche
parte c’è qualcuno, per il quale nessuno ha votato, che spinge
perché il mondo giri sempre più alla svelta, perché gli uomini
diventino sempre più uguali in nome di una roba chiamata
“globalizzazione” di cui pochi conoscono il significato e ancor
meno hanno detto di volere.»
[Tiziano Terzani]
«La
globalizzazione è stata per il capitalismo una tappa decisiva sulla
strada della scomparsa di ogni limite. Infatti permette di investire
e disinvestire dove si vuole e quando si vuole, in spregio degli
uomini e della biosfera.»
[Serge Latouche]
Nel postmoderno
fluttuante si viene a creare un neo-nomadismo tanto solitario quanto
precario in cui chi rimane troppo attaccato ad un determinato luogo e
ai suoi usi e consuetudini va controcorrente, apparendo
all'establishment politico/industriale occidentale come un
“populista” e/o “selvaggio” che si nega le “infinite”
possibilità della vita (intesa esclusivamente come “progresso”,
una definizione molto astratta che invero non fa altro che creare
ulteriore confusione e frammentazione presso i vari popoli del
globo). Globalizzazione vuol dire delocalizzazione di industrie e
aziende (e pertanto disoccupazione, disagio, precarietà,
antiprofessionalismo) e delle usanze locali (ed ergo perdita
d'identità culturale e “postmodernizzazione” forzata di
individui di culture agli antipodi rispetto a quella occidentale),
nonché rinuncia al sacrosanto relativismo politico
(dopotutto, ogni popolo ha il governo che si merita e va lasciato
politicamente libero, senza alcuna intrusione da parte di popoli che
si sentono moralmente/economicamente/politicamente superiori). Dice
infatti J. Baudrillard: «E'
inaccettabile per l'Occidente che la modernità possa essere
rinnegata nella sua pretesa universale. Che non appaia come
l'evidenza del Bene e come l'ideale naturale della specie, che sia
messa in dubbio l'universalità dei nostri costumi e dei nostri
valori – sia pure da certi personaggi bollati come fanatici -,
tutto questo è un crimine contro il pensiero unico e contro
l'orizzonte consensuale dell'Occidente.» Ciò
detto, sempre nel suo “Power Inferno” (pag 57), il
filosofo ammette: «La globalizzazione degli scambi pone fine
all'universalità dei valori. E' il trionfo del pensiero unico sul
pensiero universale. […]
Alla fine del processo non si ha più differenza tra il globale e
l'universale. Anche l'universale viene globalizzato, la democrazia e
i diritti dell'uomo circolano esattamente come qualsiasi prodotto
globale, come il petrolio o come i capitali.»
Infatti, libertà, democrazia e
performance spinta all'estremo, tutte illusioni sessantottine
fondate, come ogni altra ideologia, sul primato tecnologico,
industriale ed economico di una determinata area del globo, alla luce
della globalizzazione diventano l'unica verità possibile per ogni
popolo sulla faccia della terra, dei beni di consumo da vendere a
buon prezzo distruggendo la precaria stabilità di molteplici paesi
sottosviluppati, nei quali ovviamente verranno impiantate industrie
occidentali per contenere i costi di produzione e speculare sulla
finanza, sempre in virtù del famigerato principio del “villaggio
globale progressista”.
«Il
processo di globalizzazione ha ridotto drasticamente la capacità
degli Stati di mantenere sotto il proprio controllo l’organizzazione,
la dislocazione e la distribuzione delle forze produttive; ha
concentrato contemporaneamente enormi poteri nelle mani di ristrette
oligarchie industriali e finanziarie internazionali, le quali hanno
preso ad agire senza sottostare al potere sovrano di alcun parlamento
e corpo elettorale e senza disporre di alcuna legittimazione
democratica, e a dotarsi di possenti mezzi di informazione al fine di
orientare l’opinione pubblica a favore dei loro
interessi.»
[Massimo L. Salvadori]
[Massimo L. Salvadori]
«La
globalizzazione non è un processo che ha luogo da qualche parte
lontana, in qualche spazio esotico. La globalizzazione sta avvenendo
a Leeds così come a Varsavia, a New York e in ogni piccola città in
Polonia. E’ proprio fuori dalle nostre finestre, ma anche dentro.
E’ sufficiente camminare per le strade per vederla. Gli spazi
globali e locali possono essere separati solo con un’astrazione,
nella realtà essi sono interconnessi. Il vero problema è che la
globalizzazione che stiamo oggi affrontando è principalmente
negativa. E’ basata sulla rottura delle barriere, per permettere la
globalizzazione dei capitali, il trasferimento dei beni,
dell’informazione, del crimine e del terrorismo, ma non delle
istituzioni politiche e giuridiche, le cui basi risiedono sulla
sovranità nazionale. Questo aspetto negativo della globalizzazione
non è stato accompagnato da altrettanti aspetti positivi e gli
strumenti per la regolazione dei processi economici e sociali
non sono stati sufficientemente consolidati per affrontare le
conseguenze della globalizzazione.»
[Zygmunt Bauman]
“Rottura delle
barriere” significa anche mancanza di delimitazione, e come l'Io
dell'uomo postmoderno viene lasciato espandere all'infinito lasciando
spazio a nevrosi e fluttuazione dell'identità, anche la
postmodernità in sé stessa necessita di espandersi illimitatamente,
rompendo i vincoli che la costringono all'interno di certezze e
canoni prefissati, tutte cose obsolete da eliminare in virtù della
velocità, della frenesia e dei simulacri; ma questa volta la
“malattia” che ne consegue è di ben più larga portata, e
consiste in innumerevoli guerre-satellite, in atti terroristici,
nella violazione dei diritti umani (roba tanto decantata dal famoso
establishment “progressista” più nelle parole che nei fatti).
Manco a dirlo, le popolazioni radicate nel loro territorio,
alle loro usanze, tradizioni e metodi di governo, infelici della
globalizzazione e della delocalizzazione che ne deriva, reagiscono
come ragazzini frustrati che si ribellano contro il grande padre
occidente, magari attaccando direttamente i suoi non-luoghi mediante
efferati atti di terrorismo (metropolitane, ponti, stazioni,
supermercati, aeroporti... guardacaso tutte ricorrenze nell'agenda
del terrore). In fondo, il grande prototipo di tutte le sette
terroristiche postmoderne, l'Aum Shinrikyo, rigettava l'americanismo,
l'ebraismo e i mutamenti sociali da essi introdotti nel Giappone del
dopoguerra, e guardacaso attaccò la metropolitana di Tokyo, il
non-luogo più celebre della città. Il terrorismo islamico, quello
diventato famoso in occidente dopo l'undici settembre, sembra quasi
essere mosso dalle stesse ragioni; ma in fondo, anche se così non
fosse, quando tutto diventa globale anche il terrorismo diventa un
“bene” d'importazione, un terrorismo che vede nel non-luogo
postmoderno il simbolo di quella perenne fluttuazione senza alcun
appiglio consolidato, che mette in pericolo quelle poche certezze che
garantivano un minimo di stabilità, sia psicologica che politica. A
tal proposito, è esemplare ciò che dichiarò il presidente egiziano
Mubarak durante una sua visita in Italia nel 2004: «Non
si può imporre agli arabi la democrazia a tutti i costi, perché
questo può spalancare le porte dell'inferno e farci piombare in un
vortice di violenza e di anarchia che non risucchierà soltanto noi,
ma anche chi ci è vicino. E allora addio a ogni barlume di
democrazia nel mondo arabo. E questo perché da un lato il Medio
Oriente allargato è un mosaico di popoli, di tradizioni, di modi di
vita, di economie, dove non si può imporre un'unica soluzione
preconfezionata ad un'area sconfinata che va dalla Mesopotamia al
Pakistan, e dall'altro lato perché l'introduzione della democrazia
non si fa con la bacchetta magica. Servono tempo e il rispetto delle
tradizioni e della cultura che si modificano gradualmente. Altrimenti
si finisce per rafforzare gli elementi più radicali, come è
successo in Algeria e cime può succedere ovunque se al parlamento
vincesse una maggioranza estremista.»
Dopotutto,
la globalizzazione è anch'essa una manifestazione di quel
conformismo “spettrale” di cui parlavo nel paragrafo sulla
società postmoderna. Di fatto, ne è l'esportazione forzata verso
altre società che non lo vogliono, dacché una nazione è tale in
quanto ha dei confini e una persona è tale in quanto ha identità
ben precisa, legata ad un determinato contesto. Ma siccome
“postmodernizzazione” significa anche “decontestualizzazione”,
implicitamente la “delocalizzazione” ne emerge come uno strumento
di potere e controllo il quale, paradossalmente, impone il famigerato
sessantotto anche altrove, in modo tale da somministrare ovunque il
suo radicale paradosso: la libertà assoluta che diventa prigionia
invisibile. Eppure, questa cosa non potrà mai funzionare; infatti,
usando le parole di Jean Baudrillard, «La
globalizzazione trionfante fa tabula rasa di tutte le differenze e di
tutti i valori, inaugurando una cultura (o un'incultura)
perfettamente indifferente […].
Non avendo più
nemici, la globalizzazione li genera dall'interno e secerne metastasi
disumane di ogni genere.»
Animali accumula-dati
«Grazie all'elettronica digitale, gli studenti sfornano risposte senza elaborare concetti: la soluzione di problemi diventa la pressione di tasti. Non è necessario capire come formulare quantità astratte, si va direttamente dai numeri alle risposte. Le calcolatrici sfornano risposte senza richiedere il minimo pensiero. Di fronte a un problema matematico gli studenti ovviamente scelgono l'elettronica piuttosto che l'esperienza.» [C. Stoll, “High Tech Heretic”, pag 66]
Quando l'esigenza principale di un intero modo di
vivere diventa l'accumulare dati, le autorità politiche di certo non
rinunciano ad imporre l'informatizzazione dell'istruzione (fenomeno
molto recente, tra l'altro), in modo tale da inculcare fin da subito
ai futuri uomini postmoderni il modo di pensare tipico delle
macchine, ovvero quello binario. Uno o zero, vero o falso. Mentre gli
antichi orientali – ma anche i greci - invitavano alla
consapevolezza e alla pienezza del Sé, allo sviluppo eterogeneo
della mente e delle sue innumerevoli sfaccettature, nella
postmodernità il pensare diventa inutile, le emozioni diventano
inutili, l'interiorità diventa inutile; l'unica cosa che conta è
che l'uomo diventi fin da subito simile ad una macchina, in modo tale
che possa interfacciarsi al meglio con altre macchine grazie al
vantaggio fornito dall'assimilazione inconsapevole del loro stesso
modo di non-pensare. Nella postmodernità si va quindi incontro ad
una binarizzazione del pensiero e della memoria, e la priorità degli
uomini diventa il rapporto “organico” con il proprio computer e
con la rete, che diventano estensioni di un corpo “scollegato”
da una mente che non si chiede il perché delle cose, ma le cataloga
passivamente subordinandosi ai ciechi paradigmi dell'efficientismo.
Il sistema contribuisce alla sedazione dell'uomo - si pensi alle
pubblicità martellanti e invasive della televisione, alla dipendenza
compulsiva da social network e alla privazione dell'intimità
personale che ne deriva, e così via -, che essendo diventato
macchina, quando verrà impiegato nella catena produttiva, molto
probabilmente sarà sottoposto ad una serie di “test
comportamentali” i quali, in base al movimento dei suoi occhi o al
suo abbigliamento, decreteranno se si tratta di un oggetto più
o meno idoneo per il bene dell'industria e per la sua perenne
caccia ai soliti dati/simulacri/denari. Non c'è proprio spazio per
l'interiorità e la riflessione filosofica nella postmodernità,
basta soltanto pensare alle asfissianti e fugaci mode sempre in
transizione, che congiunte al paradigma “io sono quello che vesto”
contribuiscono alla fluttuazione dell'identità/maschera dei poveri
automi inconsapevoli che le seguono, oppure all'obsolescenza
programmata di determinate tendenze pseudo-culturali,
pseudo-politiche e pseudo-religiose – le sette new age, le
religioni-simulacro, l'esoterismo per casalinghe, i partiti politici
online, il complottismo e chi più ne ha più ne metta. Le parole
d'ordine sono sempre le stesse: confusione, vuoto interiore,
dissociazione e frivolezza. Volendo unire tali leit motiv in
un unica formula totalizzante, la parola “animalizzazione”
diventa quanto mai calzante.
«Gli
otaku sono dei clandestini, ma non necessariamente si oppongono al
sistema. […] Trasformano, manipolano e sovvertono prodotti e
idee già confezionati, ma nello stesso tempo rappresentano
l'apoteosi del consumismo giapponese. Nonché una forza lavoro ideale
nel capitalismo contemporaneo. Una società in cui le posizioni
migliori vengono occupati da chi vince i test di selezione a scelte
multiple è una società otaku: più propensa alla collezione di dati
che alla loro analisi.»
[Karl Taro Greenfeld, “Baburu”, pag 327]
Tralasciando un discorso specifico sull'otakuzoku –
che necessiterebbe di un dossier a parte – e approssimando alla
buona la figura dell'otaku descritta da Greenfield come la
controparte orientale del nerd americano (anch'esso cresciuto nel
contesto di una società informatizzata con un sistema educativo
nozionistico e test a scelte multiple), emerge che questa tipologia
di individuo, altamente asociale e solitario, nonché in perfetta
simbiosi col suo computer e propenso fin dalla tenera età
all'immagazzinamento di dati, sia l'individuo postmoderno per
eccellenza, come fa anche notare Hiroki Azuma nel suo celebre
“Generazione Otaku”, rimarcando a più riprese le origini
americane della subcultura otaku. Le società completamente
postmoderne sono società completamente otaku, e in esse la
definizione stessa di otaku perde completamente di significato,
dacché non è più possibile distinguere ciò che è otaku da ciò
che non lo è. Ma l'otaku sostanzialmente è un bambino troppo
cresciuto, un eterno adolescente radicalmente legato alle sue
pulsioni infantili: in un mondo in cui non esistono più la
sofferenza ed una realtà legittima e solida con la quale
confrontarsi, è impossibile diventare adulti. Sono le difficoltà e
i pericoli intrinsechi presenti nell'ambiente naturale a far crescere
ed evolvere l'uomo; nel momento in cui l'abuso di tecno-scienza lo
rende apatico e una finanza fantasma – illusoriamente –
benestante, egli non ha più motivo di andare avanti, di crescere, di
progredire come persona. In fondo, metanarrazioni che legittimino uno
sviluppo spirituale e personale dell'individuo in un contesto del
genere sono diventate o della fuffa new age per pochi disadattati, o
delle parole al vento sussurrate da pochi pseudo-superuomini isolati,
frustrati e succubi del loro nichilismo attivo –magari alimentato
da qualche ideale romantico preconfezionato – del tutto privo di
attrattiva per i più.
Bambini-vecchio, bulli e mele marce
«Divertirsi e' in gran parte
soddisfazione di consumare e di "metter dentro": merci,
vedute, cibi, bevande, sigarette, gente, conferenze, libri,
film, tutto è consumato, ingoiato. Il mondo è un solo grande
oggetto offerto al nostro appetito, una grossa mela, una grande
bottiglia, una grande mammella; noi siamo quelli che succhiano,
quelli che aspettano eternamente, quelli che sperano e sono
eternamente delusi. Come potremmo evitare di essere delusi se la
nostra nascita si è fermata al seno materno, se non siamo mai
svezzati, se restiamo psichicamente bambini, se non abbiamo mai
superato l'orientamento ricettivo?
Cosi' gli uomini s'annoiano, si sentono
inferiori, insufficienti, colpevoli. Sentono di vivere senza vivere,
e che la vita sfugge come sabbia attraverso le loro dita. Come
faranno fronte al loro disagio, che sorge dalla passività del
continuo ingerire?» [Erich
Fromm, “Psicanalisi della società contemporanea”, pag 164]
Nella mia recensione di “Akira”, citando
l'artista Takashi Murakami, avevo già illustrato il significato
della simbologia dei bambini-vecchio utilizzata nel film. Il
bambino-vecchio è di fatto l'uomo postmoderno, “congelato” nella
sua eterna infanzia/adolescenza da tutti i vizi e le comodità che
gli hanno fornito il consumismo, il capitalismo e l'americanismo. Gli
orrendi infanti di “Akira” sono proprio quelli di cui parla con
grande lucidità Fromm, quelli di tutti i giorni, che infestano
supermercati, strade, posti di lavoro, istituzioni, banche, uffici
altolocati, parlamenti, posizioni di potere. Il bambino-vecchio vuole
soltanto soddisfare piaceri effimeri e consumare ripetutamente,
meccanicamente, senza mai diventare adulto - sebbene l'asincronia
presente tra un corpo che invecchia e la mente di un infante sia
raccapricciante e mostruosa al tempo stesso. Rimanere completamente
bambini nello spirito – in modo negativo s'intende, dacché la
percezione del mondo tipica dei bambini rende un vero adulto o
mistico o poeta a seconda delle circostanze – in fondo è comodo:
venir allattati perennemente, senza alcuna perturbazione esterna,
senza dolore e senza sofferenza - entrambe cose decisamente fuori
moda e non quotate nel mercato azionario -, non fa crescere; ma va
bene così, in fondo nel contesto del capitalismo contemporaneo non
esiste più l'interiorità e non esistono più percorsi legittimati
che vanno da un punto A a un punto B seguendo un determinato fine che
non sia il profitto e il consumo ad esso correlato. Perché crescere
significa anche pensare, porsi delle domande, filosofeggiare e abbandonarsi al vuoto terrificante del dubbio,
nonché alla consapevolezza dolorosissima del divenire perpetuo delle
cose, una legge di natura che la sedazione postmoderna non potrà mai
sconfiggere. La perenne fase di allattamento nella quale vivono i
bambini-vecchio, con la sua agrodolce comodità, può
esistere soltanto in virtù del benessere, del benessere costruito
sul malessere altrui, come ogni cosa al mondo. Ciò detto, anche i
violenti bulletti di “Clockwork Orange” (uscito nel settantuno,
guardacaso tre anni dopo il famigerato sessantotto) all'inizio del
film bevono del latte, proprio come se fossero rimasti bambini. Sono
simulacri vuoti, che ricercano piacere e violenza come animaletti
insensati e coccolati dal sistema, che sfrutta la loro povertà di
spirito come meglio gli aggrada. Non sono molto diversi dai bulli
dell'oggidì (il bullismo è un fenomeno tipico della postmodernità
ed è sempre più in crescita), che mettono in pratica il
conformismo delle televisioni e i penosi miti di un modo di vivere
malato facendo branco e ghettizzando i diversi, che diventano oggetti
– oggetti, non persone: l'umanità non è più consentita, neanche
ai giovanissimi – sia di violenza fisica che psicologica, perché
anche se ognuno è estremamente libero e non può venir toccato dalle
autorità, pena l'immoralità e la violazione della sacrosanta
ideologia sessantottina tanto amata dall'establishment, deve comunque
adeguarsi alla povertà spirituale e alla frivolezza di tutti gli
altri, altrimenti è uno/a “sfigato/a”, una persona da fare a
pezzi, che non merita di esistere perché chissà quale modello
mediatico ha decretato la sua condanna ai più capziosi tormenti
fisici e psicologici (i quali ovviamente si ripercuoteranno sulla sua
crescita e sulla sua integrità personale, fomentando un marcato
senso d'inadeguatezza, lo stesso che si prova quando non si
riesce a stare al gioco della performance spinta e del successo in
solitudine). Citando Galimberti, «Le
frontiere della persona e quelle tra le persone sono saltate,
determinando un tale stato d’allarme da non sapere più chi è chi.
Questa è la ragione per cui i giovani non si sentono mai
sufficientemente se stessi, mai sufficientemente colmi di identità,
mai sufficientemente attivi se non quando superano se stessi, senza
essere mai se stessi, ma solo una risposta ai modelli o alle
performance che la televisione e internet a piene mani
distribuiscono, con conseguente inaridimento della vita interiore,
desertificazione della vita emozionale, insubordinazione alle norme
sociali. [...]
Di fronte a questi ragazzi, che inconsciamente
avvertono l’incertezza del futuro che li induce ad attardarsi in
una sorta di adolescenza infinita, resta solo da dire a genitori e
professori: non interrompete mai la comunicazione, buona o cattiva
che sia, qualunque cosa i vostri figli o i vostri studenti facciano.»
Invece, sul
versante femminile, si afferma la figura della “mela marcia”,
ovvero della cinica disillusa la quale, svuotata interiormente e
dissociata da ciò che la circonda, si dà all'abulia e all'apatia,
maturando un vittimismo narcisistico che va di pari passo con una
feroce rabbia che grida “amatemi!”, “accettatemi!”,
“apprezzatemi, altrimenti vi distruggo!”. Proprio come se fossero delle sorelle incattivite di Hotaru
Tomoe - che veniva maltrattata dai compagni di classe e che si
rinchiudeva nella sua cameretta gremita di oggetti il cui scopo era
sostituire l'affetto non ricevuto dalle altre persone -, una volta
giunto il momento, le “mele marce” invocano una sorta di
apocalisse personale in cui l'ego, spinto in avanti al di là di ogni
limite, si abbatte come una falce su ogni cosa, decretando la
distruzione inconscia di un sistema che priva di affettività e
(vera) femminilità, ripagandolo con la sua stessa moneta. Nel testo
del brano a seguire, in fondo, vi è un po' tutta la condizione
postmoderna, non soltanto femminile. Dalla dissociazione («il
mio animo si sta allontanando da me»)
all'alienazione («Sto sognando? O forse sono nel
buio?»/«il
mio animo tra le nuvole se ne starà»),
passando per cinismo e disinteresse («Non mi
importa niente di quel che mi sta intorno»/«E
di tutti gli altri o che, neanche saperne vorrei»),
sino ad arrivare all'apocalisse intima di cui sopra, ovvero
nell'incapacità di vedere le varie sfumature tra bianco e nero, ma
soltanto i due colori – entrambi effigi dell'annullamento totale –
in maniera ben distinta.
«Pure dentro
al tempo che se scorre via
L'abulia sai –
guarda – gira gira gira in tondo.
Anche il mio animo si
sta allontanando da me,
Non lo vedo più ma
che me ne importa?»
«Anche se di
mio movimenti non ne faccio,
Nel solco del tempo
continuo ad esser trascinata.
Non mi importa niente
di quel che mi sta intorno,
Io sono io, e questo è
tutto.»
«Sto
sognando? O forse sono nel buio?
Anche di parole mie,
pronunciarne è inutile?
Ad affliggermi o che,
solo mi affaticherei,
Basterà lasciarmi
andare alla completa apatia.»
«Se anche mi
rivolgono sconcertanti parole,
il mio animo tra le
nuvole se ne starà.
Se mai di intenzione
mia mi dovessi muovere,
se cambiassi tutto
quanto, nero lo renderei.»
«Per una me
che è così un futuro ci sarà?
In un mondo che è
così io esisto oppure no?
Ora addolorata son?
Ora rattristata son?
Anche in merito a me
stessa, io ancora non ne so.»
«Anche
giusto a camminar, solo mi affaticherei,
E di tutti gli altri o
che, neanche saperne vorrei.
Se anche io che son
così, chissà potessi cambiar,
Se mai potessi
cambiare, bianca mi renderei.» [Versione
italiana del brano “Bad Apple!” di Touhou tradotta da Gualtiero Cannarsi, che ringrazio altresì per i numerosi spunti di riflessione confluiti nel qui presente dossier]
Amore postmoderno
«L'amore
non è quella cosa tiepida di cui le persone parlano. E' un brutale,
severo, terrorizzante e crudele mostro. Così è il capitalismo.»
[Kyoko Okazaki, dalla postfazione del suo manga “Pink”]
«In
una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti
pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata,
risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione
contro tutti i rischi e garanzie del tipo “soddisfatto o
rimborsato”, quella di imparare ad amare è la promessa (falsa,
ingannevole, ma che si spera ardentemente essere vera) di rendere
l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e
seduce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfazioni
immediate e risultati senza sforzi.»
[Zygmunt Bauman, “Amore Liquido”, pag 11]
Nella postmodernità, il vero amore è una cosa
decisamente inefficiente e poco produttiva, nonché del tutto
incompatibile con le logiche del breve periodo e con
l'oggettificazione delle persone, che diventano partner usa e getta,
dei “prodotti” da consumare sessualmente e via, senza che ci sia
alcun bisogno di fornire loro attenzioni, garanzie di un futuro
insieme, affetto, stimoli utili alla crescita spirituale e alla
comprensione reciproca. Sebbene nei giornaletti, nei forum e nei
romanzi per ragazzine si parli di amori interminabili e definitivi,
nei fatti i giovani sono terrorizzati dalla solidificazione dei
legami affettivi, che anzi di essere visti come un qualcosa di sicuro
e confortevole, danno l'impressione di essere delle gabbie nelle
quali, una volta rinchiusi, non è più possibile assaporare
quell'infantile desiderio di libertà assoluta che mette
l'individualismo, la soddisfazione immediata del piacere e l'egoismo
al primo posto in un rapporto di coppia che lo è soltanto sulla
carta, mentre nei fatti si tratta di un coacervo di cinismo,
ipocrisia, utilitarismo e discomunicazione. L'importante è il
disimpegno, l'emancipazione da una presunta schiavitù che potrebbe
condurre a quel mostro chiamato “matrimonio” e a
quell'aberrazione denominata “famiglia”, istituzione la quale,
almeno in teoria, dovrebbe essere il nucleo sul quale si regge
l'intera società – una cosa che, come si diceva in precedenza,
ormai è ben difficile da definire.
La mancanza di punti di riferimento fissi e la
generale frivolezza del vivere, che affonda le sue radici in
un'ontologica incertezza che si autoalimenta perennemente non
esistendo alcun contesto sul quale sedimentare un insieme solido di
valori, di fatto impediscono all'uomo postmoderno tout court di
costruire con il proprio partner un legame sentimentale sostanziale,
profondo e stabile. Insomma, la moda e il mercato impongono sempre
l'obsolescenza programmata, anche quando si parla di legami
affettivi.
«Il
mercato ha fiutato nel nostro bisogno disperato di amore
l'opportunità di enormi profitti. E ci alletta con la promessa di
poter avere tutto senza fatica: soddisfazione senza lavoro, guadagno
senza sacrificio, risultati senza sforzo, conoscenza senza un
processo di apprendimento. L'amore richiede tempo ed energia. Ma oggi
ascoltare chi amiamo, dedicare il nostro tempo ad aiutare l'altro nei
momenti difficili, andare incontro ai suoi bisogni e desideri più
che ai nostri, è diventato superfluo: comprare regali in un negozio
è più che sufficiente a ricompensare la nostra mancanza di
compassione, amicizia e attenzione. Ma possiamo comprare tutto, non
l'amore. Non troveremo l'amore in un negozio. L'amore è una fabbrica
che lavora senza sosta, ventiquattro ore al giorno e sette giorni
alla settimana.»
[Zygmunt Bauman, da un'intervista apparsa sul quotidiano “La
Repubblica”]
D'altro canto, la solitudine imposta dal modello
americano, con tutti i suoi miti di invincibilità del self-made man,
non può essere compatibile con l'amore, l'unione col proprio partner
e tutti gli sforzi volti ad alimentare tale legame, una cosa molto
importante per la stessa definizione di umanità, dacché fa sì che
l'Io, anzi di perdersi all'interno di un gioco di specchi dominato
dall'edonismo e dal narcisismo, possa perdersi nell'altro per poi
ritrovare sé stesso, arricchendosi e limitandosi al tempo stesso, in
quel gioco di reciproche armonie sulle quali la natura ha basato il
suo linguaggio. E' l'unione che rende “invincibili”: l'unione
vera, quella consapevole. Di certo, il non-pensare, il non-provare
emozioni e la presunta superiorità del singolo solo, veloce,
produttivo ed efficiente, non sono nient'altro che ulteriori sintomi
di una generica malattia dissociativa strettamente ancorata ad un
contesto ben preciso. La situazione è talmente drammatica che Bauman
addirittura non parla più di “desiderio”, ma di “voglie”,
dacché il mero desiderare è ormai diventato troppo impegnativo. Ciò
detto, venendo privato di amore e comprensione, l'uomo postmoderno
deve sedarsi per non provare disagio, per mettere a tacere quel vuoto
interiore lasciato dalla privazione della propria umanità. Può
trattarsi di una sedazione innocua per gli altri, tipo droghe,
psicofarmaci, dipendenza ossessivo-compulsiva da internet e così
via; oppure una distorsione della sfera affettiva che sfocia
nell'annullamento del partner e nella violenza nei suoi confronti:
giacché la relazione “amorosa” - per chi ha ancora il coraggio
di viverne una - è uno dei pochi punti di riferimento fissi rimasti
in un mondo di incertezze e confusione, nel momento in cui si viene
lasciati o sorgono delle incomprensioni, anzi di comunicare si fa del
male alla persona che in teoria si dovrebbe amare, come se si
provasse gusto a fare del male a sé stessi (perché distruggere chi
si ama equivale a distruggere sé stessi), seguendo quell'impulso
autodistruttivo che grida alla coscienza di svegliarsi da un incubo
fatto di puro, violento disagio esistenziale. Non è raro
oggigiorno leggere di efferati omicidi passionali talvolta
apparentemente insensati: questo è uno dei tanti prezzi da pagare
per una vuotezza spirituale che ha altresì colpito una delle
fondamenta più preziose della natura umana: la capacità di amare e
comprendere il proprio/a compagno/a. Ciò detto, sempre in preda a
questo stato di svuotamento e fluttuazione dell'ego (esasperato e
rinchiuso nella propria gabbia gremita di specchi), gli aspiranti
self-made man, hikikomori, otaku e via dicendo mostrano di non
credere più all'affidabilità dell'altro, al suo calore umano, alla
sua capacità di donare amore e conforto. Ci si sente forti,
superiori, inattaccabili, intelligenti, razionali. Ed ecco che il
rapporto di coppia diventa una cosa inutile, poco interessante, da
razionalizzare e schematizzare con mille teorie – il più delle
volte contorte, decontestualizzate e sbagliate. E se tutte queste
razionalizzazioni e teorizzazioni non fossero nient'altro che un modo
per sopprimere l'estrema paura che si prova al solo pensiero di
perdersi nell'altro, di mettere per un attimo da parte il proprio
narcisismo? Di certo, in una situazione del genere, il vuoto di cui
sopra si manifesterebbe in tutta la sua potenza, spezzando i precari
miti della solitudine - nonché della relazione ipocrita, leggera e
utilitaristica -, per poi lasciar spazio al terribile abisso della
follia.
Sessualità postmoderna
«Dianne
aveva ragione: il mondo sta cambiando, la musica sta cambiando, le
droghe stanno cambiando, perfino gli uomini e le donne stanno
cambiando. Tra mille anni non ci saranno più maschi e femmine, solo
segaioli. Per me va benissimo.»
[Mark
Renton, dal film “Trainspotting”]
«Secondo
Taku Hachiro, grande otaku ed esperto del settore, sostanzialmente a
loro il sesso non interessa. La mette così: - Vedo tantissimi video,
leggo fumetti e so bene come funziona, ma forse mi fa un po' paura.
Mi piace guardare e masturbarmi. Ma il contatto fisico con un'altra
persona mi terrorizza. Alla fine far da soli è davvero la cosa
migliore. Molto più... efficiente.
Anche Snix è d'accordo: - Sto meglio con dati e
oggetti materiali che con la gente. Se fosse possibile fare sesso con
le macchine, lo troverei più stimolante.»
[Karl Taro Greenfeld, “Baburu”, pag 329]
«La
sessualità è il luogo dello stupore. Ci lasciamo sorprendere
dall'altro e dal nostro desiderio senza sapere esattamente come potrà
svilupparsi l'incontro , e questo grazie alla “presenza
irriducibile” dell'altro che ci rivela ciò che ci manca.
La pornografia, dal canto suo, è invece il luogo
degli stereotipi: ogni scena risponde ad un'esigenza, ogni gesto
viene pensato in base alla legge dell'utilità. Ciascuno utilizza gli
altri ed è a sua volta utilizzato. Di conseguenza, l'uomo e la donna
diventano semplici “marionette”, le cui pose ripetono standard
codificati.»
[Michela Marzano, “La fine del desiderio”, pag 23]
Sessualità, prima di tutto, significa comunione con
l'altro. Scambio di calore, emozioni, tensione, abbandono del sé e
allo stesso tempo pienezza, gioia, armonia, completezza. E'
necessaria una comunicazione continua tra i due partner in gioco, il
mantenimento del desiderio, la contemplazione del mistero della
corporeità, la comprensione e l'accettazione del proprio compagno/a,
un gioco d'interiorità diverse ma complementari che trovano nello
spirito e poi nel corpo il modo di manifestare la propria unione, la
cui unicità è relegata nell'intimità e nella complicità di due
singole individualità, che invero sono allo stesso tempo sia uno che
molteplice, sia perfette che imperfette. Ma nel momento in cui la
solitudine, l'isolamento e il narcisismo irrompono in quella dinamica
della natura umana così nobile e sacrale – in fondo, dà la vita
-, tutto ciò viene meno. Il contatto con l'altro fa paura, perché
potrebbe ferire, nonché danneggiare il proprio animo di
bambino-vecchio/mela marcia
che ha prolungato l'infantilismo nell'età adulta congelandosi in una
situazione di non-vita – e pertanto non-sessualità - in cui la
masturbazione è diventata una forma meccanica di godimento
immediato, adibita a soddisfare in modo efficiente e poco dispendioso
delle vogliuzze dettate da quel che resta di alcune impellenze naturali
non ancora soppresse dalla condizione postmoderna. In questo caso non
si può neanche parlare di desiderio sessuale: essendo quest'ultimo
un impulso di unione e condivisione, non c'entra nulla con
l'autoreferenzialità assoluta dell'atto solitario, magari coadiuvato
dall'utilizzo di materiale pornografico e/o bambole sessuali (inventate da nientepopodimenoche Hitler per i suoi soldati), ovvero
simulacri di corpi svuotati del loro mistero e della loro
individualità. Allo stesso modo dei molteplici rapporti sessuali
occasionali dell'oggidì, tenuti dai più con persone usa e getta, la
pornografia snatura l'atto in sé e l'erotismo, degradandoli a meri
beni di consumo con tutti i loro luoghi comuni preconfezionati,
automatismi e schematismi fini a loro stessi. La pornografia -
diventata un prodotto industriale all'inizio degli anni settanta,
ovviamente in America, e poi esportata in Europa - pertanto non è
sesso e non è desiderio, ma la negazione subdola di entrambi. Ciò
detto, il sesso occasionale, volendo in uno stato mentale sedato da
droghe e/o alcool – cosa molto comune nelle discoteche frequentate
dai più giovani -, non è poi così diverso dalla masturbazione: è
un incontro tra solitudini diverse che rimangono confinate
all'interno delle loro barriere dell'animo, che rifuggono dalla loro
vuotezza interiore mediante soddisfazioni effimere e poco durature.
Ebbene sì, anche questa è animalizzazione, e
questa volta la de-legittimazione della tecno scienza colpisce il
corpo e l'atto sessuale in sé, che vengono entrambi scomposti in
mille pezzi e analizzati, decontestualizzati, classificati,
etichettati, omologati, inquadrati dentro schemi razionali fini a
loro stessi e poi dati in pasto all'industria e al mercato.
«In
circostanze patologiche, come la patologia narcisistica grave, lo
smantellamento del mondo interno di relazioni oggettuali può portare
all’incapacità di desiderio erotico, accompagnata da una diffusa,
non selettiva e perpetuamente insoddisfatta manifestazione casuale di
eccitazione sessuale, o perfino dalla mancanza di una capacità di
eccitazione sessuale.»
[Otto Kernberg]
La sovrabbondanza di un sesso-simulacro innaturale e
caricaturale che viene sbandierato e iterato in ogni dove, dai
cartelloni pubblicitari alla televisione ai siti porno, nonché la
sua frammentazione e privazione di sostanza e spirito, spingono
alcuni individui, già affetti dal tipico narcisismo postmoderno
tipico degli otaku, a rifiutare in toto la sessualità, scambiando
quella cosa propinata incessantemente dai media come la vera
sessualità, come quella sessualità sana che potrebbero avere, un
giorno, con un partner comprensivo e adeguato alle loro necessità.
La standardizzazione e il conformismo, congiunti al solito
individualismo tanto sgradevole quanto autoreferenziale, anche in
questo caso lasciano terra bruciata nell'animo dei più. Non stupisce
pertanto che si manifestino casi eclatanti di individui che
rinunciano a tutto ciò che riguarda il sesso, che si chiudono nella
loro erotofobia infantile spaventati dalla sovrabbondanza
d'informazioni e simulacri, nonché dal cinismo che viene loro
inculcato sin dalla più tenera età da un ambiente il quale, molto
freddamente e poco umanamente, basa tutto sul solito efficientismo. Il rifiuto del sesso diventa, in un certo senso, un
qualcosa di rivoluzionario: in un sistema caratterizzato dalla
sovrabbondanza di sesso – ovviamente simulacrizzato e privato della
sua sfera intima e personale -, chi ci rinuncia completamente e lo
disprezza è un nuovo tipo di sovversivo, proprio come quelli che, in
un'epoca dominata dalla tecno-scienza, esordiscono con posizioni
new-age prive di fondamenti logici per ripicca nei confronti di un
sistema esclusivamente “razionale" (almeno nella facciata).
Considerando la frase di Kernberg da me citata in
precedenza e collegandomi a quanto detto nel precedente paragrafo, il
rifiuto del sesso diventa anche il rifiuto dell'altro, e
pertanto il rifiuto dell'amore. Ed ecco che nel nostro tempo prende
piede una sempre più marcata anoressia sentimentale, dacché
il sesso è diventato una cosa tanto ordinaria quanto standardizzata
e disgustosa, proprio come le altre persone, ma quelle poche che si
conoscono, perché nella postmodernità si è essenzialmente soli, ed
ergo è meglio non interessarsi troppo agli altri, tanto una
relazione comporterebbe soltanto noia, disprezzo, freddezza,
ripugnanza. In una sola parola: inefficienza. Molto meglio
produrre. Da soli.
La figura dell'intellettuale nella postmodernità
«La
letteratura è morta, è nata l'industria.»
[Alberto Moravia, dal romanzo “L'Attenzione”]
Il degrado dei metodi d'insegnamento (che diventano
informatizzati, nozionistici e omologati), nel nostro contesto
impediscono fin da subito la formazione di veri e propri
intellettuali. Nel postmoderno, l'intellettuale è pure lui un
animale accumula-dati, un bagaglio vivente di nozioni che
spiritualmente è rimasto fermo all'età infantile. Un self-made man
vagamente “otaku” che utilizza la sua conoscenza come strumento
di profitto, magari andando a parlare nei vari talk show televisivi e
monetizzando del sapere umanistico che, ormai decontestualizzato e
delegittimato dalla tecno-scienza, viene automaticamente privato
della valenza spirituale e simbolica che gli avevano attribuito i
veri intellettuali del passato, quelli che ovviamente lo
avevano concepito. L'intellettuale postmoderno è subordinato
all'industria e ai vari gruppi di potere che lo finanziano, cambia
idea e bandiera in base a come gli conviene, dà spettacolo, la sua
“intelligenza” è un bene di consumo che ha lo stesso valore
delle caramelle dei supermercati e, mal che vada, potrà essere
mostrata in qualche monologo su YouTube, con tanto di discepoli che
accorreranno ad inginocchiarsi ai suoi piedi (il settarismo virtuale
è una cosa tipica della postmodernità e può anche diventare
politico, il che è abbastanza inquietante).
La stagnazione della conoscenza e dell'arte
letteraria, congiunte al deperimento del mondo accademico, fanno sì
che spesso l'intellettuale postmoderno pubblichi degli articoli/libri
costituiti da nozioni copincollate da lavori di altri intellettuali
postmoderni che hanno a loro volta copincollato e così via;
ovviamente questi articoli soffocheranno i pochi lavori veramente
meritevoli scritti da quei pochi veri intellettuali-pecore nere che
si sono formati senza mai cedere alle lusinghe, ai giochi di potere e
alla lobotomizzazione tipici del sistema.
Nella postmodernità, dato che non c'è spirito,
l'intellettuale non rappresenta più una guida spirituale. L'unico
tipo di intellettuale che ha conservato la sua legittimità senza
diventare una caricatura sterile e insensata, manco a dirlo, è lo
scienziato, quello che nel contesto dominato dalla tecno-scienza ha
preso il posto di quelli che erano i preti nel medioevo – dominato
dalla religione cristiana. Lo scienziato, con le sue formule
incomprensibili, la sua capacità di farsi da sé, la sua
intelligenza analitica e la sua profonda conoscenza della tecnica, è
la figura di spicco della postmodernità, e ha preso il posto dei
filosofi, dei teologi ecc., facendosi portatore del “verbo” del
grande potere tecnocratico. Detto questo, in alcuni casi, ignorando
la lezione di Galileo Galilei, gli scienziati sviluppano teorie
pseudo-scientifiche che hanno poca attinenza con l'esperimento e
diventano adepti di esse, come se si trattassero di dei credi
religiosi: il settarismo pertanto colpisce anche la scienza, e
molteplici fazioni comandate da “guru” della tecno-scienza si
fanno la guerra tra loro, ignorando che la scienza, nella sua essenza
più intima, non è né uno strumento di potere né di controllo
(guardacaso entrambe prerogative delle grandi religioni), ma un
modesto tentativo di poche grandi menti sensibili di comprendere
l'universo e i suoi affascinanti misteri; misteri i quali, con
assoluta certezza, trascendono le capacità della mente umana, che di
per sé è limitata e funzionale all'ambiente naturale - “La scimmia nuda” di
Morris parla chiaro. Di certo, non siamo delle divinità in terra capaci di
sopportare il peso della solitudine, del cinismo e del nonsenso per
un misero aumento della busta paga e per un po' di (illusorio) successo,
ma degli animaletti goffi e fragili ancora oggi caratterizzati da
precisi pattern comportamentali tipici dei primati (in primis,
spirito di gruppo, coesione sociale e legame affettivo/sentimentale
col partner).
L'arte nella postmodernità
Nel momento in cui non c'è più alcuna
metanarrazione da legittimare e tutti gli stili artistici sono già
stati canonizzati e sviscerati nel passato, è normale che prenda
piede la parodia strutturata come archivio di citazioni/dati.
L'arte nella postmodernità ricalca perfettamente la sovrabbondanza
d'informazioni e la subordinazione all'industrialismo tipiche di un
intero modo di vivere, e, nei casi più impegnati, diventa una
de-strutturazione/de-costruzione di antichi cliché nella quale viene
lanciato un messaggio di disagio, solitudine e alienazione, spesso correlato con la tecnologia (qualcuno
ha detto “Evangelion”?). La musica, la pittura ecc. nella società
postmoderna e industriale, quando non sono squisitamente parodistiche
e frivole, diventano agghiaccianti ritratti del disagio interiore
provato da persone divenute coscienti del fatto di esser state
private della loro umanità. Non importa più la forma in sé, come
poteva essere nel rinascimento o nel barocco: l'arte si “abbrutisce”
appositamente per descrivere un qualcosa di altrettanto “brutto”;
la delimitazione e la cura nelle rappresentazioni o nelle esecuzioni,
nel momento in cui l'armonia stilistica delle forme viene colpita e
affondata dalla de-legittimazione tipica della postmodernità, non ha
più senso di esistere, ma anzi, non verrebbe comunque compresa da
fruitori anch'essi fluttuanti e senza forma, proprio come l'arte usa
e getta che richiedono per soddisfare i loro fugaci impulsi modaioli.
Depressione, evasione, OCD e suicidio anomico
«Oggi
ci incontriamo con persone che agiscono e sentono come automi: che
non hanno mai avuto un'esperienza veramente propria, che conoscono sé
stessi non come sono nella realtà, ma come gli altri si attendono
che siano, il cui sorriso convenzionale ha sostituito la risata
genuina, le cui chiacchere insignificanti hanno sostituito il
colloquio comunicativo, la cui opaca disperazione ha preso il posto
di un'autentica sofferenza. […]
Supponiamo che nella
cultura occidentale il cinema, la radio, la televisione, gli
avvenimenti sportivi e i giornali siano sospesi per quattro sole
settimane. Chiuse queste diverse vie di evasione, quali sarebbero le
conseguenze per gente ridotta solo alle proprie risorse?
Indubbiamente, seppur in così breve tempo, si registrerebbero
esaurimenti nervosi a migliaia, e ancor più sarebbero le persone che
cadrebbero in uno stato di ansia acuta non molto diverso dal quadro
clinico di una nevrosi. Se fosse tolto il narcotico contro la
deficienza sanzionata, le malattie si manifesterebbero apertamente.»
[Erich Fromm, “Psicanalisi della società contemporanea”, pag
25]
L'aumento dei casi di suicidio, consumo di
psicofarmaci e droghe, nonché di reclusione volontaria dei giovani
all'interno delle proprie mura, sono tutti campanelli d'allarme che
dovrebbero far molto riflettere sullo stile di vita dei paesi
industrializzati e benestanti, che nascondono la loro psicosi
collettiva mediante l'evasione compulsiva dalla realtà. In
particolare, il tipo di suicidio preferito dai postmoderni, stando
alla classificazione di Durkeim, è quello anomico: «"Anomia"
significa "mancanza di valori", di "punti di
riferimento ideali". E' il gesto di chi non riesce a
sopportare improvvise perturbazioni economiche che abbassano il
livello del proprio stile di vita; ma anche il gesto di chi
non riesce più a ritrovare se stesso all'interno di una società
che, nel proprio benessere, evolve troppo in fretta. La corsa
continua al successo stressa psicologicamente, rende insicuri e non
permette di affrontare con serenità i momenti di crisi.»
[Corsivo tratto dal post sul suicidio anomico apparso sul sito homolaicus.com]
Il senso d'inadeguatezza
imposto dal modello americano, congiunto allo svuotamento interiore
di cui parla Fromm, crea negli individui un deserto intimo a dir poco
devastante, nel quale, ad un infantile senso di grandezza e
onnipotenza, si alternano barlumi di lucidità fredda e spietata, in
cui la depressione e il mal di vivere si manifestano in tutta la loro
carica distruttiva, almeno fino a quando non vengono sedati con gli
opportuni artifici. Nella nostra beneamata società occidentale
globalizzata, un altro fenomeno in aumento sono i casi di disturbo
ossessivo-compulsivo della personalità: nel momento in cui tutto
diventa troppo veloce e troppo poco umano, senza che l'interiorità,
l'autoanalisi, la coscienza e la consapevolezza abbiano il tempo di
sedimentare, prendono piede le ossessioni, le fobie, le paranoie, i
pensieri sconnessi e le esagerazioni poco legate alla realtà – ma
in fondo, nella postmodernità, come ho già sottolineato in
precedenza, non ci sono punti fissi “reali” sui quali
appoggiarsi. Ed ecco che il rituale ossessivo diventa quasi una
reazione meccanica alla “liquidità” di cui parla Bauman, un
impulso irrazionale che grida disperato a chi ne è affetto di
cercarsi un qualche appiglio “solido” dotato di un minimo di
calore umano. Quando un'intera società è affetta da OCD, è ovvio
che i suoi componenti mostrino in modo sempre più crescente tale
patologia. Il modo di vivere della velocità, della precarietà, del
cinismo, dell'incertezza e delle routine stressanti in cui tutte le
giornate sono uguali tra loro avrebbe anch'esso bisogno di un buon
psichiatra. Come si può veramente guarire quando è il sistema
stesso ad essere malato? Ai posteri l'ardua sentenza.
Conclusioni
«Io
considero la coscienza come fondamentale, e la materia un derivato
della coscienza. Non possiamo andare oltre la coscienza. Tutto ciò
di cui discorriamo, tutto ciò che noi consideriamo come esistente,
richiede una coscienza.»
[Max Planck]
E
ora, giunti nella parte finale dello scritto, è lecito chiedersi
cosa fare, come reagire, come comportarsi in un mondo
(irreversibilmente?) postmoderno. Cercare di trascenderlo di certo è
impossibile - d'altronde, se usate con consapevolezza, internet e
le altre comodità tecnologiche del nostro tempo si rivelano addirittura utili come fonti di arricchimento personale (nel nostro contesto ovviamente). L'importante è la moderazione, l'intelligenza: il
sapere ciò che si sta facendo, senza automatismi e conformismi di
sorta. Il sapere di che morte si sta lentamente morendo e il cercare,
nel nostro piccolo, di soffrire di meno. Ciò detto, a parer mio il
punto chiave della questione è la riscoperta della coscienza,
della natura umana, di un determinato insieme di valori che
permettano di convivere col postmoderno senza farsi lobotomizzare da
esso, senza ammalarsi della malattia del non-essere, del non-provare,
del non-sentire. Pensando e diventando consapevoli della propria
natura, studiando, facendo ricerche e così via, emergono numerosi
tratti distintivi tipici dell'uomo: la sua natura di animale
affettivo e sociale; la sua possibilità di definirsi e di ricomporsi superando le sue divisioni interne mediante l'analisi interiore, la
meditazione tranquilla, la contemplazione delle cose del mondo,
l'unificazione degli opposti tipica del principio d'individuazione
del Sé, che rappresenta l'armonia alla quale ogni essere umano
dovrebbe veramente ambire – diceva Socrate: «Conosci
te stesso.»
Proprio per la sua natura di essere “affettivo” e “filosofico”,
l'uomo non potrà mai essere compatibile con lo svuotamento interiore
postmoderno. Con la moda della frenesia e dell'apparenza. Con la
sedazione e l'apatia. Con una stasi indefinita che si prolunga ad
oltranza in un mare di nullità e assenza di legittimità. Dice
Fromm:
«L'uomo
non può vivere staticamente perché le sue intime contraddizioni lo
spingono a cercare un equilibrio, un'armonia nuova al posto della
perduta armonia animale con la natura. Dopo che ha soddisfatto i suoi
bisogni animali, egli è spinto dai suoi bisogni umani. Mentre il suo
corpo gli suggerisce che cosa mangiare e che cosa evitare, la sua
coscienza dovrebbe dirgli quali bisogni siano da coltivare e
soddisfare e quali altri da lasciar spegnere ed esaurirsi.
[…]
Tutte le passioni e tutti gli sforzi dell'uomo
sono tentativi di trovare una risposta al problema della sua
esistenza, ovvero tentativi di fuggire alla follia. (Ricordiamo, di
passaggio, che il vero problema della vita mentale non sta nel perché
certuni diventano pazzi, ma piuttosto nel perché la maggioranza
sfugge alla pazzia). Sia l'uomo mentalmente sano che il nevrotico
sono mossi dal bisogno di trovare una risposta; la sola differenza è
che una risposta corrisponde più di un'altra all'insieme dei bisogni
dell'uomo e che di conseguenza porta ad un maggior sviluppo dei suoi
poteri e della sua felicità.»
[Erich Fromm, “Psicanalisi
della società contemporanea”, pag 36]
Ben venga quindi
l'atarassia perseguita dagli epicurei, la cui saggezza, assieme a
quella degli antichi taoisti, andrebbe riscoperta per un quieto
vivere privo di fobie, nevrosi e inutili nervosismi ed agitazioni. Ma
anche l'eudemonia, perché la felicità è veramente possibile in un
mondo che di per sé offre infinite, meravigliose possibilità. Il
problema è chi guarda, chi non conosce, chi non vede. Perché
postmodernità significa meccanicità, cecità, incapacità di
comprendere; ma anche rinnegamento del passato e dei suoi – talvolta
validissimi, basta cercare in qualche biblioteca – insegnamenti.
Affidarsi esclusivamente alla limitatezza del riduzionismo
scientifico, che di fatto è un modo di pensare che taglia fuori lo
spirito sicché esso non è né misurabile né approssimabile, e
rifugiarsi in quel neo-positivismo confusionario tipico dell'oggidì,
secondo il quale l'amore è una mera reazione chimica e tutto ciò
che vediamo è soltanto della robaccia di poco valore inquadrabile in
poche formule matematiche, è di fatto lo stesso approccio dei
religiosi, dei loro pregiudizi e dei loro schematismi mentali.
“Ridurre” le cose della natura - che invero sono un eterno
mistero al di là dell'umana comprensione -, i sentimenti e i rapporti affettivi a meri dati da analizzare
e catalogare
equivale ad una sorta di castrazione volontaria: ben venga la
scienza, di certo quando è sana è utile, affascinante,
meravigliosa; ma purtroppo, anch'essa ha i suoi limiti e le sue
grandi contraddizioni. Dice Planck: «La
scienza non può svelare il mistero fondamentale della natura. E
questo perché, in ultima analisi, noi stessi siamo parte dell'enigma
che stiamo cercando di risolvere.»
Pertanto,
la de-legittimazione da essa operata forse non ha tutto il valore che
le attribuisce il mondo occidentale. Di certo, l'universo poco si
cura delle nostre razionalizzazioni e speculazioni
logico-matematiche. Lui è vasto, insondabile, incomprensibile. Si fa
carico di un senso di novità perenne a dir poco mozzafiato: la
stessa sensazione che ognuno di noi dovrebbe provare tutti i giorni
di fronte al mistero della vita. La vita, l'impeto primigenio,
l'amore, l'unione degli opposti. Mentre si posta in modo
ossessivo-compulsivo sui social network tutto ciò che si fa dalla
mattina alla sera, esponendolo al pubblico assetato d'intimità
altrui, ci si dimentica dell'amore, della propria essenza, della
meraviglia e del dono immenso che è il vivere qui, ora, nonostante
tutto. L'eternità che si fa limitatezza e la limitatezza che si fa
eternità. Un gioco di eterno che muta perennemente come se cercasse
di esplorare infinitamente le sue stesse possibilità. Rimanendo pur
sempre uno e allo stesso tempo molti. In fondo così è l'amore,
quello vero, non di certo quello della pubblicità dei biscotti,
quella con la famiglia felice cliché tutta sorridente perché mangia proprio
quel tipo di biscotti lì. L'amore è ciò che rende l'uomo un
qualcosa di valore, non di certo i suoi possedimenti materiali, la
sua reputazione o il suo potere.
«Una
sola passione può soddisfare il bisogno dell'uomo di unire sé
stesso al mondo, e di conseguire nello stesso tempo un senso di
dignità e di individualità: l'amore. Amore è unione con qualcuno o
qualche cosa, al di fuori di sé stessi, che consente di preservare
la solitudine e l'integrità di sé stessi. E' un'esperienza di
partecipazione, di comunione, che consente la piena esplicazione
della attività interiore di ciascuno. L'esperienza dell'amore
elimina la necessità di illusione. Non c'è bisogno di esaltare
l'immagine dell'altra persona o di me stesso, poiché la realtà di
attiva partecipazione e amore mi consente di trascendere la mia
esperienza individualizzata e, nel medesimo tempo, di sentirmi il
portatore di quei poteri attivi che costituiscono l'atto di amare.
Quel che conta è la particolare qualità dell'amore, non l'oggetto.
Amore è esperienza di solidarietà umana con il nostro prossimo, e
ciò nell'amore erotico tra uomo e donna, nell'amore della madre per
il suo bambino, anche nell'amore per sé stessi in quanto creature
umane , nell'esperienza mistica di unione. Nell'atto amoroso io sono
uno con tutti, e tuttavia sono me stesso, un essere umano unico,
separato, limitato, morale. Infatti proprio nella polarità tra
separazione e unione, l'amore nasce e rinasce.»
[Erich Fromm, “Psicanalisi della società contemporanea”, pag 39]
A parer mio è proprio
l'amore la cura di cui necessita l'uomo postmoderno per guarire dalla
sua dissociazione. Il cinismo, per quanto sia molto cool e
alla moda, non porterà mai da nessuna parte. L'autodistruzione ormai
è dietro l'angolo, e la fine della Storia una situazione più
che reale, dacché nel momento in cui non esistono più le
metanarrazioni, anche le grandi imprese storiche e i grandi
personaggi storici vengono meno a favore del nulla, di un continuo
status quo che oscilla su di un baratro aspettando con pigrizia lo
scossone definitivo che lo porterà all'annichilazione totale.
L'etica della comodità, in seguito a qualche futura catastrofe,
potrebbe anche finire per sempre, assieme alla razza umana tutta, che
nella sua frenesia post WWII, tra le tante cose, è riuscita a costruire degli
ordigni di morte in grado di permetterle un rapido suicidio
collettivo (anomico?) a base di energia atomica. Non pensare fa male, e la
superficialità si paga. Anche il postmoderno ha il suo prezzo, e un
giorno, a mio avviso, un corposo tributo di sangue dovrà essere
versato per ripagarne i pesanti debiti – e saranno lacrime amare
per tutti. Il chiacchericcio, la disattenzione, l'evasione
compulsiva, il sonno ad occhi aperti prolungato nel solito mare
d'informazioni tendenti all'infinito non serviranno più a molto
quando si capirà, in seguito ad un probabilissimo disastro, che
esistono delle cose reali che non si possono trascurare. Tutta
la “liquidità fluttuante” di cui parla questo dossier ha bisogno
di molteplici punti d'appoggio materiali, e quando essi verranno
completamente meno perché ci si è dimenticati della loro esistenza,
tutto il sistema crollerà su sé stesso, giacché, proprio come
diceva Toro Seduto, «Quando
l'ultima fiamma sarà spenta, l'ultimo fiume avvelenato, l'ultimo
pesce catturato, allora capirete che non si può mangiare denaro.»
In conclusione, la
postmodernità, riprendendo la citazione dalla versione apocrifa
dell'Odissea di Lion Feutchwanger da me inserita all'inizio dello
scritto, è un po' come l'archetipo della maga Circe e dei soldati
trasformati in maiali: Circe è la tecno-scienza, che fa animalizzare
l'uomo trasformandolo metaforicamente in porco; Odisseo è la
consapevolezza che torna a bussare alla porta di un essere che ormai
è diventato la caricatura di sé stesso, un suino che non ha più
voglia né di pensare, né di dubitare, né di amare. Ma purtroppo è
risaputo: quando si sta comodi, rimettersi a fare delle cose che
richiedono costanza e impegno è intollerabile. Ed ecco che Elpenoro
si rivolta contro Odisseo, rigettando la sua natura in cambio di
poche vogliuzze effimere. E Circe, che se ne sta in disparte, si gode
lo spettacolo dell'involuzione dell'essere umano, da “scimmione
nudo” a mero maiale insensato. “Do the Evolution”, dicono i
Pearl Jam. E così sia.
Bibliografia/approfondimenti/materiale correlato
J. F. Lyotard, “La condizione postmoderna”
Zygmunt Bauman, “Modernità Liquida”
Zygmunt Bauman, “Amore Liquido”
Umberto Galimberti, “I miti del nostro tempo”
Erich Fromm, “Psicanalisi della società
contemporanea”
Erich Fromm, “La crisi della psicanalisi”
Erich Fromm, "Essere o Avere?"
Erich Fromm, "Essere o Avere?"
Azuma Hiroki, “Generazione otaku: uno studio della
postmodernità”
Greenfeld, Karl Taro, “Baburu: i figli della
grande bolla”
Marc Augé, “Nonluoghi: introduzione ad
un'antropologia della surmodernità”
Serge Latouche, "La scommessa della decrescita"
Alexandre Kojève, "Introduzione alla lettura di Hegel"
Serge Latouche, "La scommessa della decrescita"
Alexandre Kojève, "Introduzione alla lettura di Hegel"
Michela Marzano, “La fine del desiderio:
riflessioni sulla pornografia”
Ludwig Feuerbach, “L'essenza del cristianesimo”
Desmond Morris, “La scimmia nuda: Studio zoologico
sull'animale uomo”
Erich Fromm, “Psicanalisi e buddhismo zen”
Douglas Hofstadter e Daniel Dennett, “L'Io della
mente” (sulla coscienza, sul rapporto mente/materia e sulla
limitatezza del riduzionismo scientifico).
Lion Feutchwanger, “Odisseo e i Maiali”
http://www.homolaicus.com/teoria/suicidio.htm
http://www.feltrinellieditore.it/news/2007/03/13/umberto-galimberti-bullismo--perche-si-e-giunti-allo-scontro-fisico-8175/
http://affettivitaamore.altervista.org/anoressia_sentimentale.html
http://www.repubblica.it/speciali/repubblica-delle-idee/edizione2012/2012/11/20/news/bauman_le_emozioni_passano_i_sentimenti_vanno_coltivati-47036367/
http://aforisticamente.com/2016/03/05/frasi-citazioni-aforismi-sulla-globalizzazione/
http://aforismi.meglio.it/aforismi-di.htm?n=Max+Planck
Dedica
Questo dossier era stato dedicato a quella che all'epoca della pubblicazione era la mia compagna, VM, che mi aveva altresì aiutato nella stesura - nota a posteriori by FM, 15/09/2021.
Bellissimo post, ottimamente scritto e argomentato. Complimenti per questo, e per gli altri contenuti in questo interessantissimo blog, che seguo sempre con molto piacere. Grazie! :-)
RispondiEliminaLeggere questo post è un po' come guardarsi allo specchio e vederci un mostro. Complimenti davvero: interessante, articolato e ben documentato.
RispondiEliminaMolte cose le avevo sempre pensate a un livello inconscio, ma non sarei mai stata in grado di sviscerarle in un modo così coerente. Altri spunti, invece, sono del tutto nuovi per me, come quando dici che una delle caratteristiche principale dell'uomo post-moderno è l'incapacità di contestualizzare, in quanto l'io è diventato la misura di tutto. Non ci avevo mai pensato, ma è vero ed è terrificante. Se poi a questo aggiungiamo che il suddetto io si è impoverito e annullato nel conformismo, il quadro che ne viene fuori non è affatto rassicurante: non siamo più capaci di conoscere qualcosa di nuovo, perché accumuliamo solo cose in cui già ci rispecchiamo e, perlopiù, questo "specchio deforme" sta diventando sempre più vuoto e inutile.
Altre cose non le ho ben comprese, come quando parli della "mela marcia" come modello di post-modernità femminile: io sono una donna e mi sono rivista in molte cose che hai scritto, ma non in quella storia della "mela marcia". Ecco qua, ho appena dimostrato di essere una di quelle persone auto-referenziali che non contestualizzano e comprendono tutto a partire da loro stesse. Forse è meglio se mi sto zitta e vado a fare un suicidio "anomico".
Quando parli del terrorismo, in particolare dell'Aum Shinrikyo, dici che è una reazione alla postmodernità e anche qui non ho capito bene. Ho letto il tuo dossier sull'argomento e lì mi sembrava che dicessi che l'Aum Shinrikyo stesso ci sguazzasse nella postmodernità e anche nel consumismo otaku. Quindi, è una reazione o un prodotto diretto?
Poi, sul fatto che lo scienziato sia l'intellettuale moderno, non sono molto d'accordo. A me sembra che viviamo in un'epoca di de-legittimazione della scienza, dove chiunque si sente in diritto di confutare affermazioni scientifiche sulla base di non si sa quali competenze o teorie.
Poi che l'unico modo di uscirne sia l'amore, o comunque autentiche relazioni affettive, è vero, ma d'altro canto, è proprio la necessità di socializzazione che può spingere al conformismo e all'annullamento del pensiero. Insomma, non se ne esce, è un circolo vizioso. O forse, riescono ad uscirne solo in pochi, che optano per stili di vita alternativi, ma non c'è più niente da fare per la società nel suo complesso. Almeno, non per la società occidentale. L'umanità ha ancora qualche speranza.
Ciao.
@Ivan
RispondiEliminaGrazie mille per l'apprezzamento e per il supporto. :)
@Unknown
Bel commento il tuo, ti ringrazio per aver arricchito il post con le tue osservazioni.
La “mela marcia”, proprio come il “bambino vecchio”, è un modello comportamentale che nasce in modo naturale nel contesto postmoderno. Non è detto che tutte le donne postmoderne siano per forza “mele marce”. In una certa misura, se non completamente – dipende di caso in caso - possono anche essere “bambine-vecchio”, oppure “bulle”. Oppure un uomo postmoderno potrebbe essere, magari in parte, “mela mercia”, chi lo sa. Il punto è che non esistono più delimitazioni di sorta all'ego, e pertanto lo stesso concetto – quanto mai frivolo e superficiale - d'identità si rivela un pastiche miserello che tira dentro molteplici cliché fini a loro stessi.
“Quando parli del terrorismo, in particolare dell'Aum Shinrikyo, dici che è una reazione alla postmodernità e anche qui non ho capito bene. Ho letto il tuo dossier sull'argomento e lì mi sembrava che dicessi che l'Aum Shinrikyo stesso ci sguazzasse nella postmodernità e anche nel consumismo otaku. Quindi, è una reazione o un prodotto diretto?”
Per capire questo punto servirebbe un nuovo dossier esclusivamente incentrato sull'otakuzoku (penso che cmq prima o poi lo scriverò). In parole povere, i fondatori dell'Aum facevano parte della prima generazione dell'otakuzoku (e pertanto sì, ci sguazzavano nella postmodernità: erano degli otaku). Questa generazione, tuttavia, a differenza delle altre, rifiutava l'animalizzazione postmoderna; ma dato che dalla postmodernità è pressoché impossibile fuggire – come anche tu fai notare -, essa si era “re-animalizzata”, consumando grandi narrazioni fittizie – una su tutte: Corazzata Spaziale Yamato. Insomma, andavano contro il sistema usando gli strumenti messi a disposizione dal sistema stesso – cartoni animati, armi, settarismo, consumismo. In fondo, nella postmodernità l'anticonformismo è una delle più solide forme di conformismo. Ci si illude di contrastare il sistema, ma invero il tutto è un serpente che si morde la coda.
[CONTINUA]
RispondiElimina“Poi, sul fatto che lo scienziato sia l'intellettuale moderno, non sono molto d'accordo. A me sembra che viviamo in un'epoca di de-legittimazione della scienza, dove chiunque si sente in diritto di confutare affermazioni scientifiche sulla base di non si sa quali competenze o teorie.”
Questo è verissimo. Però la scienza, nel momento in cui diventa tecno-scienza, e pertanto fa fruttare quattrini a chi tiene le redini del sistema, ben si riguarda dal de-legittimarsi. L'intellettuale che conta non è più lo scienziato solitario e illuminato à la Einstein o alla Planck (entrambi esemplari pregevoli di uomini ben lontani dai topos degli scienziati dell'oggidì), che fa ricerca pura senza scadenze o vincoli temporali (limitazioni con le quali gli scienziati oggigiorno hanno quasi sempre a che fare), ma il tecnocrate tout court, ovvero quello che detiene il potere. Chi fa ricerca pura a lungo termine sostanzialmente non è efficiente, ed ergo viene screditato. Laurent Sègalat ci ha scritto un libro su queste cose: si chiama “La scienza è malata?” (il titolo è tutto dire).
In merito al chiacchericcio dei più, quello è un altro fenomeno della postmodernità: si dice tutto e il contrario di tutto, e tutti hanno ragione. Ci sono addirittura persone che interpretano la Bibbia escludendo il peccato originale, e che ciononostante si creano un seguito ben consolidato di adepti. Anche questa è postmodernità.
“Poi che l'unico modo di uscirne sia l'amore, o comunque autentiche relazioni affettive, è vero, ma d'altro canto, è proprio la necessità di socializzazione che può spingere al conformismo e all'annullamento del pensiero.”
L'amore o le relazioni affettive consapevoli, che sono ben diverse da quelle meccaniche della postmodernità – anche se forse definirle “meccaniche” a parer mio è addirittura una sopravvalutazione. La “socializzazione” nella postmodernità cmq è un giocare a fare Narciso usando il prossimo come specchio, cercando di vedere in sé stessi quello che impone il conformismo, rimanendo tuttavia convinti di essere unici e irripetibili sulla faccia della terra. Non è vera socializzazione. Ma neanche per sbaglio. Bisognerebbe riconsiderare molti parametri alla luce del loro vero significato.
Video in un certo senso complementare a questo dossier:
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=m09R9Ee0ALg
Splendido intervento di Massimo Fini.
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=RuBvq6dj10I
Bel discorso, food for brain, che però io non condivido. Alla fine parla del valore della vita, che secondo lui è il tempo, ma esso stesso è astratto e generato dalla percezione umana. Bergson sosteneva che il tempo fosse relativo in base agli stati emotivi di un individuo percossi, alla fine è tutto ciò che ci rimane, sensazioni. Il vero valore della vita è semplicemente qualsiasi cosa ti pare, niente di scritto e niente di predestinato ed è questo il bello, nessun simbolo universale ed è pure uno dei vantaggi che la post-modernità ha portato, nessuna certezza, solo quello che ti pare che da un lato può portare a confusione in un periodo di post-verità, ma dall'altro a essere più consapevoli di sé stessi con un pizzico di coraggio. L'uomo ha sempre cercato di aggrapparsi a qualcosa: religione, autorità, etichette sociali etc per trovare il senso alla propria vita, invece secondo me bisognerebbe farsi trasportare dalla corrente ed adattarsi a nuotare, l'adattamento è una delle migliori qualità umane, mentre il fiume scorre inesorabile, pretendere che il fiume o il tempo si fermi mi dispiace è un discorso puramente egoistico, il quale in un mondo con 8 miliardi di persone è inammissibile. È ironico che mentre a Fini è venuta la figura dell'uomo che s'incula da solo a me quella dell'Uroboro. Scusa per il discorso molto concettuale, ma è un mio problema ahahahahah.
EliminaE' una questione di cosa intendiamo per natura umana. Se l'umanità di per sé è una cosa vuota, allora la caduta delle illusioni, in qualsiasi contesto e tempo storico, è un viaggio verso il baratro e l'autodistruzione. Se invece vogliamo credere in una natura umana positiva e capace veramente d'amare, ma tuttavia alienata dalla tecnica e dalla burocrazia, forse dopo la catastrofe mondiale che ci libererà dalla psicosi neoliberista riusciremo finalmente a vivere in una società sana. Troppo individualismo e troppa concentrazione nel proprio ego sono sempre un male a parer mio. L'Io non è Dio, e una realtà oggettiva lì fuori ci sta ripetendo in continuazione che c'è qualcosa che non va nel modo di vivere che abbiamo deciso (o che ci hanno imposto, volendo strizzare l'occhio ai complottisti).
RispondiEliminaUn'umanità che vive solo di illusioni in un'era dove lo stesso concetto di verità è in crisi a parer mio è molto più nocivo
EliminaCondivido il discorso sull'amore in parte, ma purtroppo pure l'amore non ha valore universale, ognuno vive l'amore a modo proprio, c'è chi si rovina per amore per dire, ma pure la frase successiva: "troppo individualismo fa male" e se uno nascesse sfigato non avrebbe piena libertà di trovare ragion di vivere dove vuole? Se ci fa più comodo possiamo chiamare questa ragione di vivere come amore verso qualcosa. Io non vedo l'io come un Dio, ma bensì come un oggetto con cui filtriamo la realtà circostante, in maniera quasi solipsistica si potrebbe dire che ognuno ha la propria realtà e ciò è inevitabile. Trovo davvero difficile imputare la causa di ogni male umano al sistema burocratico, non viviamo certo in una distopia à la "Brazil", secondo me il male va ricercato più internamente, faccio un esempio banale ma utile: se gran parte dell'individuo si forma nel periodo dell'infanzia e dell'adolescenza sarebbe assurdo pensare che esso si sia già relazionato col tecnicismo economico del sistema, quindi il male va riconosciuto maggiormente a come si vivono i rapporti imho.
"se uno nascesse sfigato non avrebbe piena libertà di trovare ragion di vivere dove vuole?"
RispondiEliminaScusa, chi decide chi è "sfigato" e chi non lo è? Non mi piace come esempio.
"se gran parte dell'individuo si forma nel periodo dell'infanzia e dell'adolescenza sarebbe assurdo pensare che esso si sia già relazionato col tecnicismo economico del sistema"
Un sistema che tratta le persone come numeri (questa è la burocrazia) non fa bene a prescindere. E fin da bambini/ragazzi si è soggetti agli impulsi "sessantottini", conformisti e "liberisti" che provengono dall'esterno (vedi le baby gang e il bullismo). Ma ho già scritto tutto nel dossier. Quindi, di nuovo, non capisco l'esempio (e non mi raccontare la solita storia freudiana del bambino "perverso polimorfo" che è stata smentita dagli neuroscienziati).
Se cmq volessimo essere coerenti con Fromm dovremmo fare un discorso sul matriarcato/patriarcato/nascita della proprietà privata, ma ci sarebbe veramente molto da dire.
1. Touchè, a meno che non si parla di casi estremi tipo handicap che ti rendono veramente inapprezzabili non esiste alcun criterio che ti giudica sfigato, però esistono momenti della propria vita in cui semplicemente non puoi amare altre persone e viceversa, è giusto cadere in un baratro a causa degli altri?
RispondiElimina2: Non mi riferisco al periodo ribellino che si attraversa durante l'adolescenza, piuttosto alla cerchia sociale che ci circonda, quando dicevo internamente, non dicevo dentro sé stessi, bensì alla gente che frequentiamo, porto avanti 2 tesi.
1. Prendiamo il caso estremo in cui il padre è alcolizzato e ti maltratta, non è ovvio che la psiche ne rimarrà condizionata per sempre? Ma pure un caso più semplice come venir bullizzato ti condizionerà. Ci sono infinite variabili di vita ed un individuo cerca di adattarsi tra di esse cambiando pure sé stesso.
2. Sempre in quel periodo incontriamo degli idoli che influenzano il nostro pensiero, noi facciamo i tryhard della situazione cercando di imitarli, perché si nasce come un pezzo d'argilla e puoi inculcare a questo pezzo d'argilla ciò che vuoi diventando verità per esso stesso, certo, ovviamente qualcosa si smentirà, ma qualche traccia del suo influenzamento rimarrà di sicuro.
I tuoi articoli sono illuminanti, continua così ;)
RispondiEliminaGrazie! A presto.
RispondiEliminaAggiungo un fantastico talk di Salvatore Natoli, nella speranza di arricchire il tuo discorso.
RispondiEliminahttps://www.youtube.com/watch?v=wJTFRVbYMHk&feature=youtu.be
Saluti! :)
Dopo una rilettura mi sono venute in mente le parole di Andrej Tarkovskij:
RispondiEliminahttp://ziomax.net/2016/05/19/se-luomo-rinuncia-a-se-stesso-andrej-tarkovskij/
Ottimo link, diciamo che Tarkovskij è un po' il Meister Eckart del cinema moderno. La mistica cmq è cosa nobile, ma il primo, difficoltoso passo verso il recupero della propria umanità, rimane pur sempre la presa di coscienza dell'inadeguatezza di questo sistema globalista e conformista che ci hanno imposto per renderci schiavi. Personalmente, più vado avanti e più mi rattrista e preoccupa.
RispondiEliminaA mio avviso questa è l'epoca in cui si deciderà se l'umanità deve continuare ad esistere oppure se, stupidamente, si autoestinguerà. Comunque volevo consigliarti Stalker di Tarkovskij, se non l'hai già visto, riporta moltissime delle tematiche del tuo fantastico report ;)
EliminaSiamo già morti, anche se non ce ne accorgiamo. Schiavi dell'economia, del denaro, della tecnologia. Certe volte prendo la metro e tutti, dico tutti, sono attaccati compulsivamente al loro smartphone e ai social. Della gente così non potrà mai fare rivoluzioni o migliorare la propria condizione esistenziale. Le grandi narrazioni sono finite, con la fine della storia finisce anche l'umanità, lobotomizzata da sé stessa. L'antropofagia della canzone dei Baustelle, ecco.
EliminaGrazie del consiglio, ma il misticissimo Stalker l'ho già visto. Molto probabilmente farò un rewatch in futuro. ;)
sono l'anonimo-senza nick e consiglio questo:
RispondiEliminahttp://www.raiscuola.rai.it/articoli-programma-puntate/zettel-presenta-lyotard-e-il-postmoderno-%E2%80%93-maurizio-ferraris/33531/default.aspx
Grazie per il commento. :)
RispondiEliminaLa capacità di compilazione analitica espressa in questo post rende lo stesso prezioso. Complimenti.
RispondiEliminaCiao Shito, grazie per il commento. Sono felice che questo post ti sia piaciuto così tanto, dacché è stato steso per puro diletto/autoriflessione/omaggio alla mia compagna.
EliminaHo letto diverse volte, empatizzato con alcuni concetti, condivido il fatto che dietro a questo articolo ci sia una forte cultura e ne rispetto decisamente l'autore: tuttavia non aderisco del tutto al proposito di denuncia totale e specialmente al "sottotesto" dell'articolo.
RispondiEliminaA livello puntuale, sono in disaccordo con parte dell'idea di solitudine, posta qui a cardine della riflessione: mi sembra che oggi ci sia almeno a livello ideale (ma direi anche concretamente), un forte impulso in senso inverso, vale a dire al lavoro in gruppo proficuo che sfrutti le differenze individuali, in tutti gli ambiti della vita - la solitudine produttiva sembra sempre più un dogma tipico degli anni ottanta-novanta e vivo sempre più nella memoria.
Questo è un dettaglio, ma anche uno dei motivi per cui, a livello generale, mi sto convincendo che la riflessione attuale di denuncia sul postmoderno sia sì pregnante, ma limitata dalle radici pesantemente novecentesche (ovvio: si è sviluppata da autori che hanno eminentemente attraversato il secolo) e schierata fino all'eccesso - il '68 da odiare perché causa di tutti i mali! Ah, il revanchismo! (Questo corrisponde all'attualità ormai "mainstream", dopotutto. Non è stato proprio detto nei commenti che l'anticonformismo è un modo diverso di conformismo?) Mi viene da pensare che una evoluzione del pensiero - forse in meglio, per altri forse indifferente -, che fonda alcuni elementi teorici postmoderni e recupero "informale" (sottolineo) di qualità umane, stia iniziando a manifestarsi (o magari emergendo dopo un po' di incubazione) e che forse finita l'ondata "sovranista" si potrà finalmente trovare qualche elemento originale dell'attuale secolo.
Riassunto del precedente commento: Bah, deliro.
(Tanto per dare spunti di contestualizzazione: chi ha scritto è al primo anno di università, teoricamente scienziato ed in passato poetucolo, e ha studiato un po' di filosofia con qualche profitto.)
“un forte impulso in senso inverso, vale a dire al lavoro in gruppo proficuo che sfrutti le differenze individuali, in tutti gli ambiti della vita"
RispondiEliminaNel testo mi sembra di accennare al conformismo postmoderno. Si può anche essere soli se si lavora insieme, eh. Il discorso del produttivismo cmq non mi interessa, non sono un imprenditore.
Ciò detto, le radici ideologiche del novecento non sono state superate perché magari adesso lavori in una multinazionale con il cinese, il genio e lo sfigato e allora la solitudine e l'alienazione, nonché i problemi del postmoderno sono magicamente risolti (pensa al tasso di hikikomori presenti nel nostro paese).
E poi, sebbene in modo confuso e snaturato, ancora adesso si parla di fascismo, comunismo, idealismo. La gente imbratta i muri e manda a fare in culo i professori perché fa figo, perché tanto c'è stato il ‘68. Maglietta rossa e Rolex, fanculo agli sbirri. E' ancora tutto qui, presente, nelle cronache quotidiane. Non vedo un superamento, ma semplicemente una tendenza involontaria alla parodia del passato.
Poi sinceramente l'ondata sovranista per adesso mi pare un bluff, non capisco di cosa ti preoccupi. Il sovranismo di oggi è una metastasi del neoliberismo che cmq non riesce a rinunciare ad esso (vedi i sovranisti italiani che un giorno vogliono statalizzare in pieno stile comunista e l'altro svendere il patrimonio dello stato in pieno stile Tatcheriano. Oppure Trump, che da una parte mette i dazi e dall’altra deregolarizza Wall Street come Clinton). Insomma, siamo sempre qui, sempre fermi alla modernità liquida di Bauman. Postmodernità è confusione e contraddizione.
Ecco, se posso darti un consiglio: durante i tuoi studi universitari, cerca di osservare sempre la realtà che ti circonda. L'osservazione è la prima cosa e viene ancora prima dei libri. Poi trai, dopo molta osservazione, le tue conclusioni nel formalismo che più ti piace, utilizzando le conoscenze che più ti piacciono. Altrimenti darai l’idea di essere parecchio confuso (cosa alquanto postmoderna, d’altronde).
Grazie per il commento.
È blogger di The Web Espresso e Whims Of Fashion.
RispondiEliminaSono un blogger e un webwriter freelance.
RispondiEliminaE quindi?
Eliminami suggeriresti qualche titolo film o anime dedicato a questi temi? grazie
RispondiEliminaCiao! Nel testo mi sembra che ce ne siano parecchi, tipo AKIRA, Clockwork Orange, Shinchan e l'Impero degli Adulti, Beautiful Dreamer ecc.
EliminaVero, dovevo specificare che mi interessa qualcosa che possa riguardare più da vicino le tesi di Bauman..
EliminaForse un manga che descrive molto bene "l'amore liquido" di Bauman è Pink di Okazaki Kyouko. E poi mi viene in mente anche il romanzo Blu Quasi Infinitamente trasparante di Murakami Ryu. Qui io ci ho letto proprio la "liquidità", il dissolvimento. Alla giapponese ovviamente.
Eliminaok, grazie mille per la segnalazione.
EliminaRileggere periodicamente questo post è sempre un buon esercizio. Per molti versi. Ma chiamarlo "post" non è riduttivo, non è sminuente, è solo improprio. Questo è un bellissimo saggio (breve, medio, lungo. medio-lungo? Non so, importa? Io dico di no.) Certo la citazione odisseica fa molto Miyasan. Non per la principessa dei Feaci, ma per gli uomini-maiale...
RispondiEliminaGrazie per l'apprezzamento amico! Per me l'uomo maiale è quello animalizzato, che non vuole proprio sforzarsi ad avere una coescienza, a sbagliare, a vivere (sul serio). Secondo te Miyazaki è arrivato ad una concezione filosofica del genere? Porco Rosso lo vedo più come personaggio giocattolo che come simbolo di un determinato concetto sociologico.
EliminaLa tua lettura della trasfigurazione suina mi pare del tutto coerente con testo citato, che diviene così tanto profetico – suo malgrado – della deriva contemporanea, com'è tipico dei migliori archetipi. Davvero tutta la narrativa umana era già stata esperita dai tragici greci, volendo. Mustapha Mond avrebbe defenito i maiali "nice tame animals, anyhow" proprio come le "goat and monkeys" di sheakespariano e selvatico spregio, suppongo. Quanto a Miyasan, lui disegna sempre tutti gli uomini come maialini antropomorfi – nei suoi manga divertissement su Model Graphix. Così Marco Pagot in Hikoutei Jidai, così Horikoshi Jirou in Kaze Tachinu. Lo si sentì sostenere che gli uomini, invecchiando, diventano come maiali. Certo potrebbe dirsi comunque un effetto della crapula abulica postmoderna, ma dubito un simile livello speculativo appartenga all'autore in questione. Ma chissà. l'espressione della pur graziosa Chihiro che guarda i genitori ingozzarsi è pur sempre la speranza dell'autore. Il che potrebbe dirsi dirla lunga su fin troppe cose.
RispondiEliminaCiao, riscrivo dopo mesi con un nuovo nick.
RispondiEliminaÈ un articolo che tocca un tema molto delicato della nostra società, io personalmente non riesco ad andare contro questa società per una serie di motivi, tuttavia non si può non notare come quelli della mia generazione (2000-2005) e penso anche quelle immediatamente precedenti soffrano ddi problemi psicologici/psichiatrici in misura molto maggiore delle generazioni nate negli anni 40-50-60, è chiaro che non può essere un caso. Come giustamente fai notare gli esempi di selfmade men possono essere sia una fonte di ispirazione, ma possono anche diventare un incubo, lo dico per esperienza personale, ma non solo. Non voglio entrare nel merito dei modelli che si prendono di riferimento oggi per non dilungarmi, ma è evidente come molte persone sentano la pressione di quei modelli e finiscano per esplodere. La società sembra che sappia meglio di te cosa sia meglio per te, non c'è libertà in tal senso, quando si esce dai binari pre definiti per la società diventi un fallito e vieni emarginato.
Devi essere un treno, andare sempre avanti senza mai guardare indietro, alle volte forse è meglio viste le nostre incertezze,e senza mai farti troppe domande su quello che sei. È impossibile sviluppare una conoscenza se non si guarda dentro se stessi e non si comprende se stessi.
Per quanto riguarda quelli che definisci non luoghi, personalmente quando vado in metro o sono su un mezzo, o navigo in internet da anonimo raggiungo il massimo della mia vitalità, mi sento interconnesso con il mondo come in una sorta di Matrix
Ammetto la mia ignoranza nel non conoscere la citazione, bellissima cmq. Sono d'accordo sulla questione lavoro, ma d'altronde è un po' l'egemonia culturale di cui parla gramsci
RispondiEliminaHo buttato fuori un articolo che forse ti può interessare cmq, "La morte e la finzione". Ciao.
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