sabato 27 febbraio 2016

Yuri Kuma Arashi: Recensione

Titolo originale: Yuri Kuma Arashi
Regia: Kunihiko Ikuhara
Soggetto: Kunihiko Ikuhara, Takayo Ikami
Sceneggiatura: Kunihiko Ikuhara, Takayo Ikami, Kei Takahashi
Character Design: Etsuko Sumimoto
Musiche: Yukari Hashimoto
Studio: Silver Link
Formato: serie televisiva di 12 episodi
Anno di trasmissione: 2015
 
 
Con il ritorno in scena di Kunihiko Ikuhara - bizzarro regista il quale potrebbe essere considerato come una sorta di "David Lynch" dell'animazione giapponese - la deflagrazione dell'hype non ha sorpreso più di tanto; orde di fans incalliti hanno difeso questo novello "Yuri Kuma Arashi" dall'attacco dei detrattori senza alcun indugio, vomitando in faccia ad essi varie teorie e speculazioni più o meno veritiere, sovranalisi ed altri orpelli degni di quei circoli dei lettori basati sull'etichetta in cui chiunque può giocare a far l'intellettuale a tempo perso. Sebbene l'alone di hype fine a sé stesso sia abbastanza irritante, c'è comunque da riconoscere che le aspettative erano molto alte, sopratutto per chi, come il sottoscritto, aveva aprezzato l'ottimo "Mawaru Penguindrum", il giusto compromesso tra nonsense, ermetismo, fanservice, pseudo-filosofia, commedia e regia d'autore. Senza scomodare con inutili paragoni mostri sacri che hanno fatto la storia dell'animazione come "La Rivoluzione di Utena", bisogna ammettere che era lecito chiedersi se il regista sarebbe stato in grado di rinnovarsi, magari proponendo un anime in grado di rendersi indipendente dai suoi illustri predecessori. Non è stato così, e gli entusiasmi degli spettatori meno acritici si sono fin da subito spezzati: "Yuri Kuma Arashi" non è niente di più che la solita brodaglia pseudo-lynchiana sull'amore, sulla società e sulla sessualità, questa volta diretta con svogliatezza, poca verve ed un'eccessiva ricerca del compromesso con le tendenze modaiole e commerciali attualmente in voga. 

sabato 20 febbraio 2016

La malinconia di Haruhi Suzumiya: Recensione

 Titolo originale: Suzumiya Haruhi no Yūutsu
Regia: Tatsuya Ishihara
Soggetto: Nagaru Tanigawa
Sceneggiatura: Fumihiko Shimo, Joe Ito, Katsuhiko Muramoto, Nagaru Tanigawa, Shoji Gato, Tatsuya Ishihara, Yutaka Yamamoto
Character Design: Noizi Ito
Musiche: Satoru Kosaki
Studio: Kyoto Animation
Formato: serie televisiva di 14 episodi
Anno di trasmissione: 2006


Il 2006 è stato un anno spartiacque per l'animazione giapponese. A suo modo, "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" è stata un'opera influente nella storia dell'animazione, in grado di rappresentare una nuova generazione di otaku ben diversa da quella cresciuta con "Evangelion" e decisamente agli antipodi rispetto alla storica avanguardia formata dagli ormai decrepiti ragazzi dello studio Nue, ovvero Hideaki Anno, Shoji Kawamori, Toshiki Hirano e soci. Con questo anime prende definitivamente piede il concetto attuale di moe, del quale i primi vagiti - trascurando il lolicon ideato da Hideo Azuma ed esploso nei primi anni ottanta, che a tutti gli effetti rappresenta l'antesignano più vecchio di questa corrente stilistica - erano già comparsi nella seconda metà degli anni novanta, epoca nella quale la messa in onda in fascia serale di "Evangelion" aveva definitivamente canonizzato la cultura otaku. "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" in un certo senso ricorda i pucciosi deliri nonsense delle opere strettamente moe di quel periodo, "Di Gi Charat" in primis, e nondimeno li aggiorna con un nuovo design più curato e attento ai dettagli, uno dei tanti tratti caratteristici di uno stile che in seguito verrà abusato e ripetuto fino alla nausea: "Lucky Star", K-On!" et similia porteranno avanti quanto inaugurato da "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" nel peggiore dei modi possibili, elevando il moe a uno dei paradigmi predominanti del loro media di riferimento. Commercialmente si passa quindi dalla produzione di modellini di mecha alla vendita di figure di personaggi femminili: la via di mezzo indubbiamente è stata "Evangelion", che a suo modo era in parte moe e in parte robotico, ovviamente secondo i canoni della sua epoca (il suddetto tuttavia ha fatto vendere più figure di Asuka e Rei che modellini di unità Eva, il che è tutto dire). Pertanto, per motivi commerciali, l'attenzione dello spettatore viene definitivamente spostata verso i personaggi: non servono più dei robot che si fanno la guerra, non serve più una trama, non servono più melodrammi e contenuti impegnati. L'importante è che l'otaku si "innamori" di un determinato personaggio femminile, pertanto un'ambientazione scolastica e qualche riflessione intellettualoide sono delle cose più che sufficienti a fare da contorno a un vuoto pneumatico in cui si muovono varie ragazze estremamente pucciose e kawaii, nonché sessualizzate secondo i dettami del caratteristico vedo/non vedo che tanto stimola le fantasie erotiche maschili. 

sabato 13 febbraio 2016

Vital: Recensione

 Titolo originale: Vital
Regia: Shinya Tsukamoto
Soggetto: Shinya Tsukamoto
Sceneggiatura: Shinya Tsukamoto
Musiche: Chu Ishikawa
Produttore: Shinya Tsukamoto
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2004 


"Vital" è un film che parla dell'anima - ma per farlo utilizza il corpo. Attraverso le mani dello studente di medicina Hiroshi, il quale in seguito ad un incidente ha perso la memoria, e ora si ritrova a lezione, a dissezionare il cadavere della sua amata morta nell'accaduto, rivivendo nel suo subconscio i momenti della relazione ormai perduta, Shinya Tsukamoto si addentra nelle profondità viscerali dell'essere umano, facendolo a pezzi dall'interno, con cautela e premura, trasformando e riplasmando ricordi, terminazioni nervose, interiora, lacrime, violenza, passioni, nervi freddi immobilizzati dalla morte. Quella morte che la società contemporanea ha rimosso assieme alla corporeità, adagiandosi nelle proprie tristi illusioni prive del fuoco della volontà di divenire, di elevarsi, di danzare mossi dal dolore - che nella sua immediata concretezza definisce la sostanza dell'essere. I concetti già illustrati dal regista in modo ben più violento e incisivo nei precedenti capolavori "Tetsuo" e "Tokyo Fist", in "Vital" assumono connotazioni quasi escatologiche: nei domini carnali e materiali pervasi dalla morte, ovvero nel corpo femminile della sua metà - si potrebbe dire, simbolicamente, della sua anima, in senso junghiano -, Hiroshi cerca sé stesso, cerca di dare un senso alla sua identità, a ciò che lo circonda, al suo rapporto con l'altro. Cerca la vita nella morte, l'anima, appunto, nel corpo. Le divisioni dettate dalle contingenze esterne, dalle convenzioni sociali e morali lasciano il passo ad un flusso di immagini interiori ed esteriori che rimandano all'unione degli opposti, alla suprema sintesi dell'essere - la presa di coscienza del protagonista, alla fine del film, al termine della dissezione.