martedì 12 marzo 2024

Stacy, una Graphic Novel di Gipi



 

Gipi, almeno per me, è uno ai livelli di Pazienza, se non il suo erede spirituale. Anche se di suo non mi è piaciuto proprio *tutto*. La Terra dei Figli, ad esempio, mi aveva fatto a dir poco addormentare. Ciò premesso, Gipi sembra una persona fragile: lo si vede a sentirlo parlare nelle interviste, lo si percepisce dalle sue movenze incerte. La sua probabilmente è una psicologia post traumatica, della serie che c'è qualcosa che deve averlo scosso per davvero quando era piccolo. E ciò che in lui è sopravvissuto a tale "breaking point" interiore ora come ora deve convivere col senso di colpa dovuto al privilegio (il senso di colpa è una cosa che Gipi ha in comune con Zerocalcare). Perché sì, accedere dal nulla agli ambienti altolocati della cultura italiana e poter quindi campare della propria arte è appannaggio di pochi, e l'autore sembra risentirne. Detto questo, a un certo punto, non ricordo in che anno di preciso, questa persona fragile posta una vignetta su Instagram (una stronzata, sì, ma chissenefrega: su Magnus & Bunker c'era di peggio; sullo stesso Pazienza c'è molto di peggio, soltanto che a quei tempi non c'era la cancel culture). Da qui inizia il putiferio: l'artista viene linciato da femministe, politicamente corretti vari, leoni da tastiera e per finire dai suoi stessi amichetti di merende della sinistra radical chic italiana. Ergo Gipi si toglie definitivamente dai social, che già in precedenza gli provocavano disagio (e ci mancherebbe, sono stati creati apposta per friggere le teste delle persone!), e scrive Barbarone sul pianeta delle scimmie erotomani, un fumetto comico denso di riflessioni sul baratro del solipsismo animalizzato contemporaneo (l'astronave/specchio con la stessa forma di uno dei personaggi; le scimmie che vogliono inculare l'alter ego Gipiano). 


In questo periodo buio dell'autore, che ricordiamoci è fragile e sensibile, nasce poi Stacy, una somatizzazione più articolata dell'evento. La storia parla di questo Gianni (notare la scelta del nome) il quale, dopo aver venduto in televisione la sua storia di poveretto e aver grazie a ciò accresciuto la sua fama e popolarità, un bel giorno, durante un'intervista, dice una cosa che sarebbe stato meglio non dire; questa cosa viene poi ripubblicata in forma parziale e strumentale e da lì parte la shitstorm mediatica. Tra i suoi odiatori telematici c'è Lalla, una femminista tatuata e vagamente goth che appartiene al suo stesso establishment culturale: i due si conoscono per via di amici e lei in qualche modo lo aiuta a rifarsi una reputazione – sono i social media in sé stessi a spingere le persone a odiarsi. Sono di fatto una forma di "dividi e impera" totalitaristico, e l'autore, che ne è consapevole, calca la mano su questo aspetto. 


Il focus della narrazione, rant e riflessioni personali a parte, è quindi il rapporto tra Gianni e Lalla, questa Lalla impegnata nel sociale ma di una pochezza intellettuale assurda che diventa un po' un personaggio riparatore creato ad hoc per alleviare il dolore, una sorta di waifu autoriale, la donna dei tuoi sogni forte e in grado di guidarti e dominarti, che ti sa scopare per bene, che passa sopra ai tuoi problemi pur rimanendo un oggetto di venerazione feticistica. E poi il rapporto col demone, l'alter ego oscuro che è venuto fuori durante l'intervista vittimistica ed ergo a causa del narcisismo dello stesso Gianni, in ultima sintesi per via del suo essere egoriferito e assetato di visibilità, proprio come Lalla. Perché se non si è così non si può avere successo nel mondo contemporaneo: se non si appartiene a quegli ambienti lì che richiedono di fare, dire e pensare quelle altre cose lì, si è senza voce. E Gipi lo sa bene.  


"Sono davvero così?" sembra un po' essere la domanda che si pone l'autore durante i suoi sperimentalismi visuali e narrativi (alcune parti non sono neanche disegnate e ci sono pezzi di sceneggiatura scritti a macchina a fare da collante). La risposta è "No": ed ecco il borsone esplosivo sotto al tavolo. Questo è un po' un cliché: molte opere incazzate con la società dei consumi post '89 finiscono con la smitragliata finale, tipo Bianconi che nel suo Regno Animale vorrebbe ammazzare soubrette, personaggi dello spettacolo, influencer ante litteram ecc. Il fatto è che non si può, quindi il solipsismo altrui forza le persone intelligenti a chiudersi sempre più nel loro stesso solipsismo: principio di azione e reazione. Ed ecco il mito del MGTOW, le microsette, gli incel, i terroristi della domenica, la carriera e gli eroi dell'autovelox. Gipi condanna il "riduttivismo" applicato alle persone imposto dai social media, in altre parole il fatto che dietro agli avatar, soprattutto al suo avatar, ci siano esseri di carne e sangue; ma il passo successivo, cosa che il fumetto non dice, è un qualcosa a cui soltanto Anno Hideaki era arrivato (dopotutto il Giappone è sempre stato avanti a tutti in fatto di nevrosi di massa). Ossia "siamo una società di bambini". Questo perché il dolore, che è stato rimosso dal totalitarismo del piacere consumistico, è stato cancellato, oppure – ancora peggio – simulacrizzato al fine di raccattare fama e consensi. E il dolore, quello vero e taciuto, è il principale motore di crescita e consapevolezza, ossia dell'umanità. 

2 commenti:

  1. Questa recensione, questo post, sono perfetti. In forma e contenuti. Un paradigma. Ma davvero, eh. Anche a volergli fare editing, e sono io proprio io a dirlo, non aggiungerei né toglierei una virgola. Indi è perfezione nel senso proprio della parola.
    Cercherò di leggere il libro.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Oh, grazie. E' merito di Diletta P. se questo post è così com'è, più di altri amici online con cui ho discusso per un po' di questo fumetto. Sarebbe interessante comunque avere una tua lista di "preferiti" di questo blog, così me la segno in vista di un eventuale libro sul Bokurà che nessuno leggerà (la rima è voluta).

      Elimina