Titolo originale: Ikiru
Regia: Akira Kurosawa
Soggetto: Akira Kurosawa
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto
Musiche: Fumio Hayasaka
Casa di produzione: Toho
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1952
Soggetto: Akira Kurosawa
Sceneggiatura: Akira Kurosawa, Hideo Oguni, Shinobu Hashimoto
Musiche: Fumio Hayasaka
Casa di produzione: Toho
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1952
Le giornate scorrono tutte uguali per l'impiegato Watanabe. Circondato
da centinaia di migliaia di fogli giallastri, se ne sta curvo su sé
stesso, con il volto inespressivo, a timbrare documenti su documenti.
Timbrare e timbrare. Tutta la vita. Per più di trent'anni, in un ufficio
comunale come tanti altri, nel caotico Giappone in fase di
industrializzazione, Watanabe ripete continuamente lo stesso gesto.
Timbrare e timbrare. Tutti i giorni. Al di là di quel movimento
meccanico, grigio, degno d'un orologio rotto, c'è l'indifferenza del
figlio e dei colleghi di lavoro. C'è il nulla. Tuttavia, un giorno come
tanti altri, arriva l'incombenza della morte. A causa di una malattia
incurabile, a Watanabe restano sei mesi di vita. Cosa farà adesso, dato
che solamente ora si è reso conto di non aver mai vissuto? Come potrà
dare in soli sei mesi un senso alla sua non-vita?
Come suggerisce il titolo, "Vivere", alias "Ikiru", è una grande metafora della condizione dell'uomo moderno. Non si applica solamente al Giappone del dopoguerra, frenetico, competitivo, in cui si doveva ricostruire tutto partendo da zero; quella di Kurosawa è un'analisi più ampia, che riguarda anche noi e la nostra società: quella dei giochi di potere, dell'indifferenza, nella quale le istituzioni sono sommerse da un apparato burocratico dalle sembianze mostruose, che soffoca le iniziative dei singoli e avvantaggia i soliti uomini di potere che vogliono conservare il loro posto. La riflessione del regista avviene in modo diretto, attraverso l'analisi della presa di coscienza di Watanabe e delle azioni che quest'ultimo compirà in seguito ad essa: in un primo momento, egli capirà che il figlio non l'ha mai amato, e che l'ha sempre visto come un conto in banca vivente, non come un padre; dopo aver fatto conoscenza di uno scrittore fallito, il morituro verrà guidato, come un novello Dante, nell'inferno dei divertimenti urbani sino ad allora ignorati: prostitute, sobborghi sovrappopolati in decadenza, alcool, Pachinko... che sia questo il vero valore della vita? Kurosawa si spinge ben oltre la semplice retorica/morale buonista. Colpisce direttamente la società giapponese - e non - al suo nocciolo, dimostra che anche dei piccoli gesti, delle piccole imprese, possono in qualche modo galvanizzare degli automi assuefatti dalla carriera e dal consumismo. L'uomo deve maturare una volontà, deve avere il coraggio di cambiare le cose, altrimenti c'è il nulla - quel vuoto peggiore della morte; quella morte che nel film ha valenza positiva, in quanto è l'unica cosa che in qualche modo riesce ad indurre un cambiamento, seppur minimo, in Watanabe e nelle persone che lo circondano.
Forse, Watanabe, con la sua improvvisa presa di coscienza, riesce a
recuperare l'idealità dell'infanzia perduta; - quando sto con te mi
sento come se fossi tornato bambino - dice ad una sua collega con la
quale, finalmente, si decide a prendere un appuntamento. Anche il suo
commovente gesto finale in qualche modo lo raffigura come un novello
bambino il quale, iniziando a vedere le cose ordinarie con meraviglia, è
riuscito - almeno nella morte - a sconfiggere il grigiore opprimente che
l'aveva reso un automa. Un bambino dall'infantile, pura, incontaminata
innocenza.
Il film è basato per la maggior parte sui dialoghi. La regia utilizza
tecniche di ripresa opprimenti, momenti di silenzio e inquadrature di
spazi ristretti, trasmettendo efficacemente allo spettatore le
sensazioni provate dal povero, disilluso e afflitto protagonista. Ci si
chiede se veramente, un giorno, i freddi meccanismi di cui egli è
vittima non imprigionino anche noi; e se essi, sempre quel maledetto
giorno, non ci facciano diventare delle marionette incapaci di uscire
dalla loro condizione di non-felicità.
In definitiva, "Ikiru" è un film molto profondo, che racconta un dramma
attualissimo in modo assolutamente semplice, con riflessioni, sguardi,
gesti, grande cinema che chiama in causa anche lo spettatore con i suoi
contenuti di indubbio spessore. Al di là della grandezza dell'opera in
questione, devo ammettere che alcuni passaggi nella sceneggiatura sono
eccessivamente lenti e prolissi. Questa è una cosa tipica di molti film
impegnati, che più che mere opere di intrattenimento sono veri e propri
moniti autorali verso determinati disagi esistenziali figli della
modernità. Detto questo, a mio avviso "Ikiru" rimane uno dei migliori
Kurosawa di sempre.
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