martedì 23 dicembre 2025

Katia vuole fare la scrittrice


 “Siamo una casa editrice che ama investire sui giovani talenti: è da sempre nostra premura organizzare incontri di discussione tra gli autori e il loro pubblico. Inoltre, come avrà già notato, siamo molto, ma molto attenti al sociale”. La facciotta alla Helen Kane di Katia ascoltava entusiasta quella specie di agente immobiliare che gesticolava dall’altra parte dello schermo. Per via delle sue umili origini e della sua tendenza a chiudersi in se stessa, una tendenza a cui un individuo in camice bianco affibbiò l'etichetta di autismo, Katia aveva avuto un’adolescenza a dir poco difficile; a ciò si sommava il suo essere un po’ paffutella e il suo scarso interesse per le mode e l’apparire. Insomma, nonostante la sua giovane età, Katia già si sentiva in qualche modo vecchia, tant’è che arrivò più volte a chiedersi: cosa lascerò di me il giorno in cui morirò? Cosa lascerò di tutto questo mio pensare, di questa mia sete di bellezza, di questa necessità di assoluto che da sempre vaga per la mia mente? Da qui la necessità di scrivere: grazie alla scrittura Katia aveva trovato una sorta di rifugio, di conforto dell’anima; poter pubblicare il suo lavoro, pensò, avrebbe potuto aiutare altre persone con i suoi stessi problemi; o in qualche modo le avrebbe rese testimoni dei suoi pensieri più profondi e rari, che sarebbero rimasti scolpiti in eterno tra le pagine del suo libro. Quella piccola casa editrice, quindi, contando anche il fatto che tutte le altre avevano bellamente ignorato il suo manoscritto, pensò potesse fare al caso suo. 

“Benissimo, siamo lieti di averti a bordo, Katia. Noi e i nostri autori siamo come una grande famiglia... La distribuzione è garantita  nelle principali librerie d’Italia… Per non parlare poi dell’indotto della nostra pagina social, che vanta all’incirca dieci kappa follower!”. 
Più tardi, quando il contratto editoriale fece capolino nel deserto della mailing list di Katia, lei provò una gioia mai sentita prima.  Nel contratto venivano chiesti dei soldi, certo, tanti soldi, ma quella casa editrice sembrava essere molto promettente. La maggiorparte dei suoi risparmi finì quindi sul conto corrente dell’editore, e il suo libro venne pubblicato nel giro di qualche mese, perché la casa editrice era molto indaffarata nel pubblicare decine e decine di esordienti tutti diversi tra loro. Katia era talmente entusiasta di vedere il suo nome  stampato sulla copertina di un libro che non badò al fatto che l’editore, privo di qualsivoglia linea editoriale, pubblicasse libri autobiografici, psicologici, per bambini, di ricette, di teatro, di disegni, di fotografia… Insomma, qualsiasi cosa, e in gran quantità. Di scrittori in Italia ce ne sono proprio tanti, pensò Katia, non nascondendo un certo stupore. Aprendo Instagram vide che ogni libro dell’editore attento al sociale veniva segnalato con un reel e poi, nel giro di qualche giorno, dimenticato a favore di un altro. “Bisogna lasciare spazio a tutti, di autori bravi ce ne sono tanti” gli disse al telefono l’editore quando lei, non del tutto convinta di quel modo di lavorare, trovò il coraggio di esprimere alcune delle sue perplessità. “Dato l’elevato valore sociale e introspettivo del tuo libro, ti consigliamo di prepararti per bene la presentazione, e di portare tutti i tuoi amici e parenti all’evento!”. 

Quindi Katia, per non fare brutta figura, si mise d’impegno per preparare il suo debutto, che avrebbe avuto luogo nella bocciofila del paesello in cui abitava. Ma Katia di amici da portare non ne aveva, se non un gruppetto Telegram di disagiati  che vivevano fin troppo lontano da lei; e i suoi genitori, manco a dirlo, erano perennemente via per lavoro. Katia era sola in una nazione, l’Italia, in cui i rapporti sociali sono praticamente tutto. 
Durante la fatidica presentazione, Katia, per quanto incalzata dall’editore, che si era offerto di intervistarla in prima persona, riuscì a dire poco o nulla; ma in fondo poco cambiava, perché ad ascoltarla non c’era quasi nessuno. Quando invece arrivò il turno della vecchia Peppina col suo libro di ricette fatte col kuore, la sala si riempì di amici e parenti della nonnetta. E Katia scappò via piangendo.

 


Il libro di Katia era stato definitivamente bruciato: firmando il contratto ne aveva ceduto i diritti per circa dieci anni, un lasso di tempo che lei, pensando e vivendo alla giornata, non sarebbe mai stata in grado di attendere. Occorreva quindi scriverne un altro, e trovare altri modi per pubblicarlo. Un giorno quella minuta, taciturna Betty Boop di noialtri decise di mettere da parte la sua fissazione per i classici e andò in libreria a comprarsi un po’ di libri di autori e autrici contemporanei; in particolare la colpì una storia di Gina Gingi, una scrittrice affermata con una buona presenza social. Ciò che scriveva Gina Gingi era un po’ banalotto, pensò Katia: questa gente non ha mai sofferto per davvero, quindi scrive di una sofferenza che mi sembra un po’ fasulla, di terza mano, anche se comunque stuzzicante, perché ci vuole un po' di retrogusto sessuale per fare indurir... ehm interessare il lettore. Proust ne Le Temps retrouvé scriveva che la sofferenza di un vero scrittore deve essere un qualcosa di autentico; ma vabbè, i tempi son cambiati, rifletté ancora Katia, quindi pure io renderò la mia sofferenza un po’ più consumabile e alla portata di tutti. Perché il mio sogno è di fare la scrittrice, e sono stufa di arrendermi di fronte agli ostacoli insormontabili che la vita mi pone sempre davanti. 
Gina Gingi era ben disposta verso il suo pubblico, ma quando Katia le scrisse in privato per complimentarsi del libro e farsi dare qualche dritta, non ricevette alcuna risposta. Scavando nel profilo Instagram della scrittrice affermata, tuttavia, Katia riuscì a cavar fuori qualche informazione utile: la prima era che per diventare scrittori per davvero serviva frequentare delle scuole, nelle quali i migliori allievi sarebbero stati cooptati nel cerchio magico dell’editoria che conta; la seconda era che esistevano comunque delle agenzie che valutavano gratuitamente i monoscritti fornendo poi, in caso di responso positivo, la tanto desiderata pubblicazione. 
Ma diamine, le scuole costano botto, pensò Katia quando iniziò a informarsi in merito al primo consiglio di Gina Gingi. Decise quindi di mettere da parte i soldi mentre nel frattempo attuava il consiglio due, spulciando uno a uno i siti delle agenzie elencate dalla scrittrice. 
Agenzia A: valutazione manoscritto: cinquecento euro. 
Agenzia B: valutazione manoscritto: mille euro. 
Agenzia C: valutazione manoscritto: quattrocento euro. 
Agenzia D: valutazione manoscritto: duemila euro, ma abbiamo contatti con l’editore numero uno in Italia e tutti i nostri autori vengono pubblicati al novantanove virgola nove per cento. 
Agenzia F: valutazione manoscritto: gratis, ma il manoscritto va inoltrato soltanto a febbraio, a mezzanotte in punto, e soltanto il primo degli invii verrà preso in considerazione. 
Va inoltrato recitando anche l’Ave Maria al contrario davanti allo specchio? pensò Katia. Vada  per questa agenzia F, comunque, e Katia seguì a menadito la procedura per l’invio del suo nuovo romanzo, aiutandosi con un cronometro per effettuare la sottomissione a esattamente mezzanotte e zero minuti e zero secondi e zero centesimi di secondo.
Passarono sei mesi e, cosa impensabile, l’agenzia F telefonò all'aspirante scrittrice. “Buongiorno, il suo manoscritto ci è piaciuto”. 
“Wow, ma davvero?” rispose Katia, esplodendo di gioia. 
“Certamente, possiamo organizzare un colloquio tra lei e l’editore MedioGrande, lo conosce?”. 
“Sì, certo, i suoi libri stanno in molte librerie” disse Katia pensando al fatto che i libri dell’editore a pagamento non li aveva mai visti da nessuna parte. 
Katia iniziò quindi a prepararsi scrupolosamente per l’incontro con l’editore MedioGrande: un’ulteriore revisione per rendere il manoscritto ancora più accattivante; un discorso scritto a tavolino e imparato a memoria perché ahimè Katia pensava e scriveva molto velocemente, ma quando si trattava di parlare aveva sempre qualche problema. Tutto ciò venne tuttavia eseguito senza alcuna forma di ansia: l’editore MedioGrande è uno serio, pensò Katia, e sicuramente, avendo letto il mio romanzo, avrà senz’altro capito il mio problema. 


Venne quindi il momento della teleconferenza con Greta, una donna sulla cinquantina con un’espressione stizzita e gli occhialini rotondi alla John Lennon. Dopo i soliti convenevoli, cose del  tipo “vede, in lei ho letto una nuova Katherine Mansfield e ciò è raro al giorno d’oggi, in cui tutti scrivono uguale” oppure “si parla sempre poco del disagio mentale e dell’isolamento sociale in Italia, c’è troppo pregiudizio”, Greta, vedendo che Katia non riusciva a inserirsi nel discorso, decise di venire al punto. “Molto bene, l’editore MedioGrande potrebbe stampare il suo libro in duemila copie, che finirebbero, come lei ben sa, in molte librerie italiane. Lei come pensa di poterle vendere queste duemila copie?”. 
Quella domanda lasciò Katia di stucco: in che senso venderle? pensò. Non dovrebbe essere l’editore a vendere e pubblicizzare i libri? Altrimenti a cosa serve? E questo non è un editore da poco come quello che mi aveva chiesto i soldi!
Katia, con tutti questi pensieri che le turbinavano in testa, continuò a tacere, allarmata. 
“Senta, lei quanti follower su Instagram ha? Di solito una persona con almeno cinquantamila follower riesce a garantire la vendita di almeno duemila copie”. 
“Ce… ce… cen…”.
“Centomila?” ribattè subito Greta con una certa eccitazione. 
“Ce…”.
“Ce? Ce cosa?” insistette Greta, affinando lo sguardo come un giaguaro in attesa della sua preda. 
“Cento”. 
Ed ecco che il volto di Greta venne solcato da un’espressione di mal celato disgusto. Dopo qualche secondo di silenzio, vedendo che Katia non reagiva, colei che rappresentava l’editore MedioGrande disse: “Senta, lei ha talento, ma purtroppo al giorno d’oggi non possiamo permetterci di mandare migliaia di copie al macero. Provi a crearsi un seguito sui social, o a partecipare  a qualche concorso di scrittura famoso. Io le lascio comunque il mio contatto, buona fortuna”.
Katia non fece neanche in tempo a dire “va bene, grazie” che la chiamata venne interrotta. Dopo una crisi di pianto e qualche giorno passato a letto senza fare nulla, la ragazza decise di farsi forza e di iscrivere il suo libro a qualche concorso famoso, proprio come le aveva consigliato la signora Greta. Sempre con in mente quest’ultima, passato qualche giorno, Katia iniziò a postare su Instagram delle storie in cui leggeva degli estratti della sua sudatissima opera, alternandoli poi a foto piccanti in reggiseno e jeans nel momento in cui si accorse di avere pochissime visualizzazioni. Ma Katia era grassottella, le sue foto troppo sfocate, e per di più parlava (o meglio, balbettava) di cose tristi. E l’algoritmo, che tanto ci teneva alla felicità e al bell’apparire di tutti, non tardò a rendere invisibili i suoi contenuti. Raggiunti i duecento follower, Katia capì che non avrebbe mai superato quella barriera. Non restava altro da fare che riporre le proprie speranze nella scuola e nei concorsi. 

Passò un anno ma niente, il libro di Katia non riuscì a vincere nulla. Tutti i suoi risparmi vennero quindi versati nel conto corrente della scuola di scrittura tal dei tali, che aveva annunciato un corso che sarebbe stato tenuto da nientepopodimenoche Gina Gingi in persona. Il corso consisteva in un laboratorio di dieci lezioni da sette ore l’una in cui la scrittrice affermata, nonché vincitrice di numerosi premi letterari, avrebbe aiutato i partecipanti a migliorare i loro manoscritti. Ma alla prima lezione, ahimè, di Gina Gingi non c'era neanche l'ombra. “Do… do... dov’è Gina Gingi?” chiese Katia all’organizzatrice del corso, che alzando la voce in modo da catturare l’attenzione dei presenti le rispose: “A causa degli impegni della scrittrice, il corso sarà tenuto da Gianni Giangio, suo editor di fiducia e principale collaboratore. Con lui avrete modo di esplorare i vostri manoscritti in modo estremamente accurato, data l’importanza del suo mestiere nella buona riuscita di un romanzo”.
“Ah, ottimo” disse Katia, vedendo che tutti gli altri tacevano soddisfatti. Gli iscritti al corso oltre a lei erano cinque: il figo, un bel ragazzo con gli occhi azzurri che gestiva una propria pagina Instagram di successo; la politica, una donna di mezza età che vantava anni di militanza nel partito a cui era anche iscritto Gianni Giangio; l’imprenditore, un quarantenne con un manoscritto autobiografico che parlava della sua startup; il campagnolo, uno scrittore minore con qualche pubblicazione presso piccole case editrici di narrativa rurale (anche lui, come Katia, viveva fuori città). E infine la poetessa, una bella ragazza sulla ventina a cui piaceva scrivere racconti macabri e intervistare le prostitute delle strade con il microfono attaccato alla sua borsetta di Hermès. Manco a dirlo, appena arrivata in aula, Katia decise di sedersi vicino a lei, nell’ultima fila di  posti, perché gli altri le facevano un po’ paura. 

 


Dopo essersi presentato con una certa dose di umiltà e savoir faire, Gianni Giangio iniziò a lamentarsi del fatto che suo partito avesse perso le elezioni nella sua regione d’origine; di conseguenza la politica e l’imprenditore intercettarono subito il malcontento dell’insegnante e iniziarono a parlarsi l’una sull’altro per attirare l’attenzione. Fu così che la discussione si fece talmente accesa che l’intera mattinata venne trascorsa a parlare di quanto fosse ingiusto che un partito così buono avesse perso le regionali. Le uniche persone a non inserirsi nel discorso, manco a dirlo, furono Katia, la poetessa e il figo, ossia i più giovani tra i partecipanti. Il figo si faceva i fatti suoi al computer come se gli altri non esistessero, tirando ogni tanto fuori un sorriso beffardo; Katia, dal canto suo, non sapeva proprio come comportarsi con quella gente, tant’è che rimase tutto il tempo a fissare il proprio laptop nel mutismo più spinto, facendo finta di rileggere il manoscritto quando invero la sua mente, tramite strani meccanicismi di compensazione, cercava in tutti i modi di contrastare la sensazione di essere stata nuovamente fregata. La poetessa invece chattava tutto il tempo su Instagram, aprendo ogni tanto lo specchietto da makeup per darsi un’occhiata. Quando arrivò il momento della pausa pranzo e tutti gli altri se ne furono andati, le due vicine di banco finalmente si salutarono: “Piacere” disse la poetessa. “Pia… piacere” rispose Katia con un certo imbarazzo. 
“Hai visto, il figo ha centomila follower, guarda qua!” fece la poetessa a Katia, mostrandole la schermata del proprio smartphone. 
A sentire quel “centomila” a Katia tornò in mente Greta della casa editrice MedioGrande, un pensiero seguito da un’improvvisa fitta allo stomaco. 
“C’è qualcosa che non va?” chiese la poetessa. 
“No, no, figurati”. 
“Come mai balbetti?”. 
“Boh, sono fa… fatta così”. 
“Ah, mi dispiace… La tecnologia ormai è molto avanti, comunque… Secondo me un giorno con un chip nel cervello potrai tornare a parlare normalmente… Potrai anche rifarti la faccia, se ti andrà, o dimagrire a piacimento e senza sforzi”. 
A quelle parole, Katia si sforzò di non scoppiare a piangere. 
“Ho detto qualcosa che non va?” fece la poetessa, accarezzandole i capelli crespi. 
“No, no, a… assolutamente. Fi… figurati” rispose Katia, tremando.

Nel primo pomeriggio, Gianni Giangio diede a tutti l’opportunità di presentarsi. Il figo ne approfittò per pubblicizzare la sua pagina Instagram, che tra i follower vantava di alcune grandi case editrici e scrittori di rilievo. “Perché hai scelto di frequentare questo corso?” gli chiese quindi Gianni Giangio. “Gli agganci li hai, da quel che ho capito. E non scrivi neanche male, direi”. 
“Perché sono pigro, questo corso mi serve per darmi degli obbiettivi, step by step”. 
Katia osservò l’imprenditore e la politica sbiancare di fronte alla dimostrazione di potenza del figo. La poetessa, dal canto suo, sembrava tutta eccitata (“Madonna mia, Katia, guarda che begli occhi che ha!”). L’unico indifferente era il campagnolo, l’uomo dalla barba folta e la camicia felpata. Dopo la politica e l’imprenditore, che fecero di tutto per non far sembrare le proprie vite e i propri scritti un qualcosa di banale, il campagnolo disse di aver vinto un premio letterario minore col suo romanzo d’esordio, stampato con una tiratura di duecento copie presso una casa editrice locale. “Duecento copie ma tutte vendute”, precisò con un certo orgoglio.   
“Beh, non male, dai, pensa che in media un partecipante allo Strega ne vende cinquecento” rispose Gianni Giangio, lasciando tutti allibiti. 
“Io potrei venderne almeno cinquemila” disse il figo. 
“Co… co… con cinquantamila…” fece Katia, cercando di inserirsi nel discorso. 
“Cinquantamila che?” rispose Gianni Giangio. “Dicci pure, non avere paura, Katia”. 
“Con cinquantamila follower almeno duemila copie si vendono, ecco… Me… me l’ha detto la tipa di casa editrice MedioGrande…”. 
“Ah, quindi sei entrata in contatto con Greta di casa editrice MedioGrande, ottimo!” le rispose Gianni Giangio. “Molto bene”. Poi si rivolse a tutti: “Siete una classe fenomenale, dai! Ora leggetemi un pezzo del vostro manoscritto, a turno, così mi faccio un’idea dello stile e possiamo parlarne tutti insieme”. 

Katia non  badò molto a ciò che leggevano gli altri: i testi venivano proiettati di volta in volta sulla parete, con tutti i loro vistosi errori grammaticali e di punteggiatura, delle inesattezze più o meno gravi che tuttavia Gianni Giangio non notava o faceva finta di non notare. Il figo leggeva racconti che riguardavano le sue esperienze sessuali e con la droga; la politica leggeva un libro in cui parlava della lotta delle femmine contro i maschi, esprimendo il suo odio verso il genere maschile con situazioni e dialoghi artefatti; l’imprenditore raccontò di una rapina che aveva subito e del trauma e della rabbia che ne erano conseguiti. E dei suoi debiti, che molto probabilmente era convinto di colmare grazie a un ipotetico successo letterario. La poetessa, dal canto suo, con gran svogliatezza, lesse qualcosa riguardante un’orgia che aveva organizzato con le sue amiche durante una vacanza a Berlino (madonna mia quanto ho goduto, disse poi sottovoce a Katia,  che a ventidue anni era ancora vergine). 
“Bene Katia, manchi soltanto tu. Cosa ci leggi?” fece Gianni Giangio dopo aver buttato un occhio all’orologio. 
“Io… io…  so… sono autistica. Preferirei che lei leggesse il mio manoscritto a casa... fa… farei fatica a pa… parlare di fronte a gente che non conosco... o che mi mette a di… ehm... ecco... disagio. Mi… mi scusi, grazie”. 
Le parole di Katia gettarono l’auletta nel silenzio, una tensione che venne subito interrotta dalla voce stridula della politica, che digrignò i denti per poi dire: “Qui nessuno ti sta mettendo a disagio, cara...”. Ma Gianni Giangio, che evidentemente voleva tornarsene a casa il più presto possibile, tagliò corto: “Molto bene Katia, non serve che leggi ad alta voce. Appena avrò tempo darò un’occhiata al tuo manoscritto”. Dopodiché attirò l’attenzione di tutti e concluse: “Vi consiglio di provare a leggere qualche racconto di Fabio Assolo, non importa quale. Magari può servire a migliorarvi. Ora devo andare, un saluto a tutte e tutti”. 


Passarono le lezioni: il figo iniziò ad assentarsi, la poetessa si fece cambiare di corso, l’imprenditore continuò imperterrito a cercare di inserirsi tra Gianni Giangio e la sua allieva prediletta nonché compagna di partito, ma senza alcun successo. Durante una lezione il campagnolo si sedette vicino a Katia e le disse sottovoce: “Secondo me hai talento: ho molto apprezzato il tuo scritto e ti ringrazio di avermelo passato... Ma a Gianni Giangio non interessi, purtroppo. Ti consiglio di farti cambiare di corso”. 
“E tu perché non ti fai cambiare di corso?” gli rispose Katia. “Io so… sono sstufa, sinceramente”. 
“Non mi faccio cambiare di corso perché una vocina dentro di me continua a ripetermi che non importa in che corso io vada o a che scuola io decida di iscrivermi: il mondo letterario in Italia sarà sempre ’sta roba qui, purtroppo. Bisogna fare le cose nel piccolo, e  accontentarsi. La letteratura è come l’artigianato, un artigianato dei propri ricordi e delle proprie fantasie in cui non si deve mai e poi mai mentire, anche se tutt’intorno c’è soltanto menzogna”. 
“E allora perché mi hai co… mi hai consigliato di cambiare?”. 
“L’ho fatto così, mi è venuto spontaneo: mi dispiace che un talento come il tuo finisca per passare inosservato”. 
“Gia… Gianni Giangio non ha letto il mio libro, co… comunque. Ogni vvolta mi dice cose che non c’entrano niente con quello che ho sscritto”. 
Improvvisamente Gianni Giangio terminò l’usuale sfilza di complimenti rivolti al quotidiano monologo della politica per dire: “Cos’è  che non avrei letto, scusa?”. I suoi occhi piccoli piccoli puntarono Katia come fucili, e l’aula semivuota piombò nel silenzio assoluto. Gianni Giangio era ufficialmente incazzato. 
“No, ma cioè,  ma lei non ha letto un ca… non ha letto un cazzo di quello che ho sscritto… No, ma… ma io mi chiedo: ma come è possibile che uno col su… col suo status non capisca un cazzo di niente… un testo che addirittura quella stro… ehm... quella sbronza della Greta aveva lodato… Ma com’è possibile? Io non lo so!”.
“Ma che cazzo stai dicendo! Ma come cazzo parli!” si mise a gridare Gianni Giangio. “Io ho il mio lavoro, le mie conferenze, le mie traduzioni! Non posso passare la mia vita a leggere le vostre puttanate!”. Ma quel tono di voce squillante e adirato non bastò a fermare Katia, che proseguì: “Lei ha consigliato Fabio Assolo… Ma… ma come cazzo si fa a leggere Fabio Assolo… Noi non siamo mica ri… ritardati, suvvia! Mi consigli Kafka, mi consigli Huxley, mi consigli Cărtărescu… Ma cioè… Fabio Assolo… La… la prossima volta li brucio, i miei soldi, piuttosto che darli a lei!”. 
“Fabio Assolo è un narratore di grande successo, da cui c’è molto da imparare, e i classici che dici tu non vendono! Sono noiosi, superati! E tu sei una cazzo di maleducata, questo sei! Vergognati! E non pubblicherai mai niente in Italia, te lo assicuro!”. 
Katia scoppiò a piangere e gridare, fino a mettersi a sbattere la testa sul tavolo (cosa facilitata dalla sua bassa statura). Il campagnolo si alzò, la fermò tenendola per le braccia e, con un’espressione di rimprovero, disse all'insegnante: “L’aveva detto di essere autistica…”. 
“Mollala, non toccarla!” si mise a urlare la politica seguendo l'isteria del momento. 
Gianni Giangio, per nulla abituato a essere criticato o contraddetto, se ne andò via rabbioso e sconvolto al tempo stesso, con l’imprenditore che lo rincorreva impugnando un pezzo stampato del suo manoscritto. “Mi dica che ne pensa, la prego! Mi dica che ne pensa!”. “Fa cagare!”  tuonò Gianni Giangio per levarselo dai piedi. 
Un giorno il Sole si spegnerà, e della Terra non rimarrà più nulla, pensò Katia con le lacrime agli occhi e le mani nei capelli. Pure Proustino aveva scritto qualcosa del genere ne Le Temps retrouvé, no? Lui era consapevole che il suo capolavoro prima o poi sarebbe comunque andato distrutto o dimenticato, perché niente è per davvero eterno. Quindi a cosa serve che io faccia la scrittrice? Perché devo scrivere se tanto verrò comunque presa in giro? Devo accontentarmi di fare dell'artigianato soltanto per me stessa, come ha detto il campagnolo, sapendo che verrei dimenticata a prescindere da tutto?

Quando l'aula si svuotò Katia chiuse il suo laptop, lo mise nello zaino e se ne andò via. Era una bella giornata dopotutto: il Sole splendeva alto nel cielo e le rondini svolazzavano da un tetto all'altro dei  palazzi, pronte a migrare verso altri luoghi più adatti alla vita. A un certo punto planarono tutte insieme, di traverso, come un unico essere. Vorrei tanto essere una di loro, pensò Katia prima di incamminarsi verso la stazione, con quell'immagine di volo, libertà e transitorietà fissata nella sua mente.  

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