sabato 20 febbraio 2016

La malinconia di Haruhi Suzumiya: Recensione

 Titolo originale: Suzumiya Haruhi no Yūutsu
Regia: Tatsuya Ishihara
Soggetto: Nagaru Tanigawa
Sceneggiatura: Fumihiko Shimo, Joe Ito, Katsuhiko Muramoto, Nagaru Tanigawa, Shoji Gato, Tatsuya Ishihara, Yutaka Yamamoto
Character Design: Noizi Ito
Musiche: Satoru Kosaki
Studio: Kyoto Animation
Formato: serie televisiva di 14 episodi
Anno di trasmissione: 2006


Il 2006 è stato un anno spartiacque per l'animazione giapponese. A suo modo, "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" è stata un'opera influente nella storia dell'animazione, in grado di rappresentare una nuova generazione di otaku ben diversa da quella cresciuta con "Evangelion" e decisamente agli antipodi rispetto alla storica avanguardia formata dagli ormai decrepiti ragazzi dello studio Nue, ovvero Hideaki Anno, Shoji Kawamori, Toshiki Hirano e soci. Con questo anime prende definitivamente piede il concetto attuale di moe, del quale i primi vagiti - trascurando il lolicon ideato da Hideo Azuma ed esploso nei primi anni ottanta, che a tutti gli effetti rappresenta l'antesignano più vecchio di questa corrente stilistica - erano già comparsi nella seconda metà degli anni novanta, epoca nella quale la messa in onda in fascia serale di "Evangelion" aveva definitivamente canonizzato la cultura otaku. "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" in un certo senso ricorda i pucciosi deliri nonsense delle opere strettamente moe di quel periodo, "Di Gi Charat" in primis, e nondimeno li aggiorna con un nuovo design più curato e attento ai dettagli, uno dei tanti tratti caratteristici di uno stile che in seguito verrà abusato e ripetuto fino alla nausea: "Lucky Star", K-On!" et similia porteranno avanti quanto inaugurato da "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" nel peggiore dei modi possibili, elevando il moe a uno dei paradigmi predominanti del loro media di riferimento. Commercialmente si passa quindi dalla produzione di modellini di mecha alla vendita di figure di personaggi femminili: la via di mezzo indubbiamente è stata "Evangelion", che a suo modo era in parte moe e in parte robotico, ovviamente secondo i canoni della sua epoca (il suddetto tuttavia ha fatto vendere più figure di Asuka e Rei che modellini di unità Eva, il che è tutto dire). Pertanto, per motivi commerciali, l'attenzione dello spettatore viene definitivamente spostata verso i personaggi: non servono più dei robot che si fanno la guerra, non serve più una trama, non servono più melodrammi e contenuti impegnati. L'importante è che l'otaku si "innamori" di un determinato personaggio femminile, pertanto un'ambientazione scolastica e qualche riflessione intellettualoide sono delle cose più che sufficienti a fare da contorno a un vuoto pneumatico in cui si muovono varie ragazze estremamente pucciose e kawaii, nonché sessualizzate secondo i dettami del caratteristico vedo/non vedo che tanto stimola le fantasie erotiche maschili. 


"Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" è quindi una "commedia scolastica" in cui non succede praticamente nulla o quasi: ogni fatto è soltanto un pretesto per mostrare la protagonista - la quale incarna perfettamente il topos della tsundere - intenta a toccare, svestire e rivestire la ragazzina più pucciosa, frignona e moe di tutte, oppure a dilettarsi in altre inezie talvolta ridicole e caricaturali, ma comunque dense di un particolare coolness factor a base di colori sgargianti, fanservice, totem, eventi banali e feticci - il supercomputer che deve monitorare l'insulsa dea annoiata che dà il nome alla serie, le entità integrate di dati (nome che fa figo e non impegna), il bishounen dotato di poteri soprannaturali, il concerto pop, la gita al mare, la viaggiatrice temporale che casca nel solito paradosso - anche lui cliché - e così via. C'è veramente poco da dire: i personaggi incarnano degli irremovibili luoghi comuni e ovviamente non maturano affatto, in quanto le vere priorità dell'opera sono gli aspetti grafici e gli elementi moe dei suddetti.


E' da notare come l'anime in un certo senso cerchi di elevarsi a qualcosa di più ambizioso: il protagonista Kyon è completamente diverso dai personaggi che lo circondano: egli pensa come un otaku e vive tutte le assurdità tipiche del suo mondo apaticamente, passivamente, prigioniero di un'eterna estate che concettualmente rimanda - o meglio, scimmiotta - il ben più sostanziale "Beautiful Dreamer" di Mamoru Oshii. Kyon è un disincantato, cinico e molliccio figlio della postmodernità, imprigionato nella sua eterna adolescenza: uno dei tanti Urashima Tarou dell'animazione giapponese tutta. Il fatto ch'egli esperimenti la noia portata dal suo stesso mondo conferisce a "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" una dignità che i suoi successori non avranno, anche se c'è da sottolineare che l'ampia varietà di spunti forniti dall'opera non vengono mai coronati in modo efficace e introspettivo, ma lasciati per strada a favore della commercialità e di un sensazionalismo vano e fine a sé stesso. 


Tecnicamente, nulla da eccepire: le animazioni sono ben curate e la regia, sebbene sia abbastanza standardizzata, talvolta si abbandona a qualche gradevole sperimentalismo visivo a base di citazioni e giochi di prospettiva. Le musiche non sono particolarmente memorabili, ma in fondo un'opera completamente priva di spessore e pathos non ha bisogno di chissà quale sottolineatura musicale atta a infondere vita in determinate scene che necessitano di essere evidenziate. Detto ciò, sia ben inteso che ci sono vari modi di non far succedere nulla: in fondo i film di Michelangelo Antonioni si basano su una trama quasi inesistente, così come innumerevoli anime giapponesi di indubbia qualità. Il punto è che nel momento in cui i cliché vengono narcisisticamente portati all'estremo, svuotando l'opera delle sue potenzialità e sottomettendola completamente al soddisfacimento egotico del suo pubblico di riferimento, ciò che rimane è un deserto a dir poco rattristante, in cui quelle che erano delle ottime opportunità artistiche si sono trasformate in dei feticci da ammirare, consumare e riporre nel cassetto una volta che saranno passati di moda. 


In conclusione, a parer mio anche questa pietra miliare della cultura otaku ormai ha fatto il suo tempo. La prossima generazione di consumatori non sarà più formata dai vari Kyon benestanti, annoiati e indolenti, che vivono le cose più paradossali e strampalate con indifferenza, ma dai chuunibyou, dei veri e propri malati di mente il cui unico scopo è l'alienazione totale dalla realtà. Quando l'animazione giapponese passerà nelle loro mani, anche i più ferventi detrattori del moe arriveranno a rivalutare il qui presente "Suzumiya Haruhi no Yuuutsu" come un qualcosa di profondo e sensazionale. E questo è abbastanza inquietante. 










3 commenti:

  1. Allego un divertente dibattito contestualizzato su otaku e moe, tratto dal Little Boy di Murakami.

    http://www.gwern.net/docs/eva/2004-okada

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  2. Partendo da premesse simili alle tue – a proposito, condivido il grosso della tua analisi relativa al postmoderno – arrivo tuttavia a conclusioni che non implicano necessariamente una stroncatura così netta di HS. Sicuramente ha segnato il passaggio di testimone tra gli otaku di due generazioni contigue. Senza dubbio ha eretto il moe a canone di rappresentazione della figura femminile. Peggio di ogni altra cosa, da lì ha preso piede la tendenza ad uno sperimentalismo formale fine a sé stesso, con queste serie animate (lo studio Shaft, ahimè, ne sa qualcosa) ridotte a vuoti contenitori di suadenti, astruse, pseudo-artistiche e pseudo-intellettuali cazzabubbole.
    Pur tuttavia, la prima saga aveva delle potenzialità. C’erano dei guizzi, delle suggestioni, degli spunti interessanti, in quei tragici pomeriggi trascorsi a far passare il tempo tra un gioco in scatola e l’altro; il tutto mentre, al di là del finestrone dell’aula in cui ha sede la Brigata SOS, si dipana di fronte agli occhi malinconici di Kyon (non di Haruhi, tutta compresa – a dispetto del titolo – nel suo gioco di ruolo) lo spettacolo della Vita.
    Su HS ne ho sentite tante, nel corso del tempo. In tutta onestà, senza spaccarmici troppo la testa, io ci vedo la parabola di una ragazzina che si sente sperduta nell’anonimato di una vita grigia, piatta, anonima in mezzo ad una massa indifferenziata di individui. Solo che il suo metodo di distinguersi e di recuperare un’individualità è fallace, vano, illusorio e alienante. Diversamente, non saprei come interpretare l’ultimo episodio (con quello spaccato inquietante di una giornata-tipo della Brigata SOS, 3’17’’ di camera fissa su Nagato, e l’ultima scena da classicissimo school-drama) se non come l’avvio di una timida presa di coscienza su ciò che è passibile di rendere davvero unica e speciale la nostra esistenza su questa terra – niente di sconvolgente, si capisce, ma se non altro…

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  3. Circa Kyon, permettimi un’osservazione. Secondo me, Kyon non è otaku, così come non lo è Kyosuke di Orange Road. Il punto è che entrambi, a loro modo, si prestano egregiamente ad essere identificati come modelli di riferimento dagli adolescenti che inclinano al nerd delle rispettive epoche di appartenenza. Negli anni ’80 non c’erano Internet, la web TV, lo streaming on demand e gli smartphone; e i videogames non riuscivano (per i limiti della tecnologia di allora) a costituire vere e proprie esperienze immersive. Poche storie: di fatto, ad un certo punto, eri costretto ad uscire di casa e a confrontarti con un mondo nel quale tu, bravo ragazzo goffo, impacciato e pieno di ottimi sentimenti, ti sentivi un tantino fuori posto, se paragonato ai ragazzi c.d. vincenti (veri o presunti tali) di allora. Ed ecco spuntare il mito consolatorio di Ayukawa, con il sottotesto: non importa quanto tu sia – passami il termine – sfigato; se il tuo cuore è puro e sei animato da ottime intenzioni, riuscirai (?) ad attirare l’attenzione di una ragazza figa, tosta, carismatica, con mille talenti, diecimila abilità e centomila qualità. E ora concedimi due minuti di raccoglimento per l’esercito di friendzonati che tale sciagurato mito ha prodotto.
    Scherzi a parte, mutatis mutandis, nel 2006 abbiamo un personaggio maschile come Kyon, che non si impappina (grazie al cielo!) se solo una ragazza piacente gli sfiora la mano; che non sbava per partito preso dietro a nessuna delle graziose comprimarie, ma sa gestirle tutte con disinvoltura e savoir-faire; che è provvisto di una certa dose di ironia e autoironia (non cinismo, come dicono tutti, ma disincanto: è diverso…) e ti butta ogni tanto, nella conversazione, un riferimento alla mitologia greca o a Maeterlinck… era anche ora, mi vien da dire!
    Che poi Kyon sia diventato un mito per gli otaku - i quali ora, nel loro solipsismo, si sentono in qualche modo legittimati (se non addirittura cool); che le quattro pareti nelle quali si consuma l’esistenza della Brigata SOS siano diventati la metafora di una vita da NEET; che le protagoniste femminili soddisfino ciascuna una fantasia sessuale diversa dell’otaku odierno, siamo tutti d’accordo. Però io penso che Tanigawa abbia anche delle idee, sia pure espresse in modo ruffiano e ammiccante – e naturalmente è grazie alla ruffianeria, non alle idee che è riuscito ad andare in pensione alla mia età.
    In conclusione, secondo il mio modesto parere, se ci limitiamo alla prima saga da sei episodi, ci sono comunque delle potenzialità, per quanto inespresse. Gli altri episodi fan solo numero, a meno di considerarli come una sorta di immenso (e assai poco digeribile) prologo al finale, che qualcosa da dire mi pare ce l’abbia, dopotutto. Sia chiaro, nel complesso grande delusione, ma non arrivo a lanciare gli strali che scagli tu, anche se comprendo benissimo le ragioni della tua stroncatura.

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