sabato 13 febbraio 2016

Vital: Recensione

 Titolo originale: Vital
Regia: Shinya Tsukamoto
Soggetto: Shinya Tsukamoto
Sceneggiatura: Shinya Tsukamoto
Musiche: Chu Ishikawa
Produttore: Shinya Tsukamoto
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2004 


"Vital" è un film che parla dell'anima - ma per farlo utilizza il corpo. Attraverso le mani dello studente di medicina Hiroshi, il quale in seguito ad un incidente ha perso la memoria, e ora si ritrova a lezione, a dissezionare il cadavere della sua amata morta nell'accaduto, rivivendo nel suo subconscio i momenti della relazione ormai perduta, Shinya Tsukamoto si addentra nelle profondità viscerali dell'essere umano, facendolo a pezzi dall'interno, con cautela e premura, trasformando e riplasmando ricordi, terminazioni nervose, interiora, lacrime, violenza, passioni, nervi freddi immobilizzati dalla morte. Quella morte che la società contemporanea ha rimosso assieme alla corporeità, adagiandosi nelle proprie tristi illusioni prive del fuoco della volontà di divenire, di elevarsi, di danzare mossi dal dolore - che nella sua immediata concretezza definisce la sostanza dell'essere. I concetti già illustrati dal regista in modo ben più violento e incisivo nei precedenti capolavori "Tetsuo" e "Tokyo Fist", in "Vital" assumono connotazioni quasi escatologiche: nei domini carnali e materiali pervasi dalla morte, ovvero nel corpo femminile della sua metà - si potrebbe dire, simbolicamente, della sua anima, in senso junghiano -, Hiroshi cerca sé stesso, cerca di dare un senso alla sua identità, a ciò che lo circonda, al suo rapporto con l'altro. Cerca la vita nella morte, l'anima, appunto, nel corpo. Le divisioni dettate dalle contingenze esterne, dalle convenzioni sociali e morali lasciano il passo ad un flusso di immagini interiori ed esteriori che rimandano all'unione degli opposti, alla suprema sintesi dell'essere - la presa di coscienza del protagonista, alla fine del film, al termine della dissezione.


Pertanto, per Tsukamoto l'amore è dolore, morte - eros e thanatos, dicevano gli antichi greci -, unità nella molteplicità. E' l'unica cosa reale che permea il tutto, la quale è rimasta assopita nell'uomo moderno addormentato/privo di memoria/identità, e va ricercata attraverso la fisicità, che equivale alla spiritualità, in barba alle divisioni tra sostanza e materia tipiche del pensiero occidentale. Mediante una fotografia magistrale, il regista utilizza delle perticolarissime colorazioni intrise di simbolismi - il blu scuro della solitudine e del dolore; il rosso scuro dell’emozione; i colori reali che coadiuvano i momenti onirici in cui Hiroshi vede danzare furiosamente la sua donna, ci fa l'amore, se ne sta con lei in riva al mare - per trasmettere il suo messaggio parlando direttamente all'inconscio dello spettatore, trascinandolo in una poesia visuale struggente, in cui il meccanico privo d'identità ricerca nella stessa meccanicità il ricordo, l'emozionale, il bello, quell'agognata e simbolica ghiandola pineale in cui il pensiero si fa materia e la materia si fa amore, e pertanto annullamento.
I movimenti portati a frammenti sulla superficie della coscienza dalla danza si susseguono nel corso del viaggio interiore del protagonista; il vero moto è armonico, elegante, quanto mai distante dalla rigidità e dalla vuotezza di una macchina che non è grado di ridefinire sé stessa dopo un'accurata e dolorosa ricerca. La scoperta del sé nella morte è un atto gioioso, carico di una cinetica potente ma allo stesso tempo soffice e struggente. 


Il percorso interiore/esteriore di Hiroshi è pertanto assimilabile ad un processo alchemico di scomposizione/ricomposizione di sé stessi: il Sé può nascere soltanto dal caos, dallo smarrimento, dalle schegge taglienti dell'animo sconvolto dal dolore. E' il caos che genera l'ordine; la macchina riprende a funzionare dapprima venendo a conoscenza del fatto di esserlo, e poi dimenticandolo, lasciando spazio alla nuova identità formatasi dalle sue stesse ceneri, come una novella Fenice.  

 
In conclusione, questa metafora moderna firmata Tsukamoto è grande cinema, un film  coadiuvato da una perizia tecnica magistrale che si fonde con i contenuti che intende evidenziare in modo omogeneo, senza sopraffarli, come se l'intera pellicola si trattasse di un capolavoro della pittura in movimento senza sbavatura alcuna, in cui nessun dettaglio è lasciato al caso. Le musiche minimaliste ma efficaci, i movimenti di telecamera talvolta frenetici e talvolta immobili, i primi piani intensi e l'alternarsi delle immagini, che si destreggiano rappresentando le varie sfumature dell'emotività umana, dimostrano la piena maturità di Tsukamoto e del suo cinema, che ha saputo rinnovarsi e riplasmarsi mediante un processo simile a quello di Hiroshi; una dissezione dello stesso mezzo cinematografico che in questo caso viene esplorato e sfruttato in tutte le sue potenzialità, nonché elevato a un qualcosa dotato d'anima, un'alchimia perfetta in cui ogni elemento contribuisce a creare una maestosa unità carica di significato. 











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