sabato 12 marzo 2016

Ghost Hound: Recensione

Titolo originale: Shinreigari
Regia: Ryutaro Nakamura
Soggetto: Masamune Shirow
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Masamune Shirow (originale), Mariko Oka
Musiche: TENG
Studio: Production I.G
Formato: serie televisiva di 22 episodi
Anni di trasmissione: 2007 - 2008


Un'opera come "Ghost Hound" non passa di certo inosservata, in quanto è il frutto di un cast stellare. Giusto per fare alcuni nomi: Masamune Shirow, Ryotarou Nakamura e Chiaki J. Konaka, tutti e tre assieme, avete capito bene. Sembra quasi uno scherzo, ma in effetti ciò corrisponde a verità. Questo straordinario dream team fa pensare immediatamente ad un capolavoro annunciato, che sicuramente si rivelerà complesso, ricco di tematiche altisonanti, acerbi connubi tra esoterismo e sci-fi coadiuvati da una regia e una sceneggiatura folli, e così via. E' legittimo provare un grande entusiasmo nell'approcciarsi ad un'opera del genere, sopratutto per chi ha vissuto il cyberpunk giapponese nella sua età dell'oro - gli anni novanta -, un tempo ormai lontano in cui il suddetto trittico di autori aveva dettato legge, stabilendo assieme ad un certo Mamoru Oshii le coordinate di quel tipico tecno-orientalismo caratterizzato da una vincente commistione di riflessioni esistenziali e sperimentalismi d'avanguardia. 
 

Eppure tali aspettative, dopo che ci si approccia al titolo, vengono immancabilmente ridimensionate. Si parla di sciamanesimo, un'antica passione di Masamune Shirow; il plot della serie è difatti incentrato sulle vicende di dei ragazzi che sono in grado di esperimentare dei viaggi ultracorporei, congiungendosi con il mondo invisibile agli occhi dell'uomo, popolato da strane entità spiritiche che paiono indissolubilmente legate con il dominio della materia - che in fondo è energia: la cosa fondamentale è il modo con il quale si percepiscono le cose, dopotutto. Lo stato di coscienza in cui ci si ritrova. Un'idea di base del genere, sebbene sia stata presa di peso dall'esoterismo, è indubbiamente brillante, tuttavia a parer mio in "Ghost Hound" non viene sviluppata in tutte le sue potenzialità. Chi ha letto qualche libro di Carlos Castaneda sa di cosa parlo: lo sciamanesimo è una corrente culturale estremamente complessa, densa di allegorie talvolta impenetrabili e significati impliciti che lasciano ampio spazio a riflessioni sulla natura umana tutt'altro che banali. Se poi di mezzo c'è l'ambizione di voler fondere tale corrente di pensiero con la neuroscienza, ci si ritrova a dover inevitabilmente gestire una grande quantità di carne al fuoco. C'è veramente troppo da dire quando ci si fa carico di tali abnormi pretese sincretistiche. E con la consapevolezza di ciò, "Ghost Hound" incomincia a scricchiolare in alcuni punti, talvolta rivelandosi una brodaglia di nozioni mistico/esoteriche/fantascientifiche senza alcuna polarizzazione - fini a sé stesse, in parole povere -, altre volte perdendo tempo in ciance, mostrando poco o nulla, dapprima rallentando quando ci sarebbe molto da dire, e successivamente accelerando nei battenti finali - tra l'altro coronati da uno stridente happy ending che sa molto di deus ex machina - dicendo troppe cose, lasciando trasparire una certa confusione espositiva, troppe ambizioni che si risolvono malamente, soffocate dalla loro eccessiva pretenziosità. 



Ci sono modi e modi di essere postmoderni. Di certo, fatto salvo ciò di cui sopra, se si aggiungono nella pentola a pressione citazioni a colossi della letteratura fantascientifica come "Blood Music" esclusivamente per creare colpi di scena abbastanza telefonati, oppure ci si mette a parlare addirittura di reincarnazione (!) perdendo pezzi per strada - e sopratutto, prendendosi troppo sul serio -, al momento della bollitura la zuppa così creata si riverserà sui fornelli accompagnata da un fischio acuto, fastidioso, che a suo modo testimonia la fine dell'età dell'oro del cyberpunk. Ci si aspettava molteplici stratificazioni concettuali dalla grande complessità tra loro coerenti, come accadeva in "serial experiments lain" sei anni prima, ma ahimé, ciò che rimane a conti fatti è una banalissima storia d'amore tra due pucciosi ragazzini caratterizzati con fin troppa superficialità. 


Ma non sono soltanto i due protagonisti a rivelarsi decisamente mal caratterizzati. Complice un character design di cattivo gusto, anche gli altri personaggi risultano piatti come ferri da stiro, in primis l'evitabile scienziata dai seni enormi la quale, almeno in teoria, dovrebbe stuzzicare gli appettiti sessuali degli adolescenti cliché a cui piace molto viaggiare all'infuori dei loro domini corporei. Detto ciò, molto interessante l'idea di rappresentare le sedute psicoanalitiche del main character con tanto di ribaltamento dei ruoli tra analista e analizzato, anche se ciò mi è sembrato abbastanza inconcludente, ovvero privo di un messaggio esistenzialista degno di nota.
Il grande punto di forza della serie è indubbiamente la regia di Ryotaro Nakamura: sebbene egli non riesca a raggiungere gli apici psichedelici e stranianti dell'inarrivabile "serial experiments lain", con "Ghost Hound" dimostra comunque di saper fare molto bene il suo mestiere, conferendo una certa dignità stilistica alla confusione concettuale partorita dalla mente fracassona di Masamune Shirow e alla svogliatezza di un Chiaki J. Konaka decisamente fuori forma, che ciononostante ammette di essersi ispirato al "Twin Peaks" di David Lynch e allo "Stand by Me" di Stephen King. Detto ciò, rimane un po' l'amaro in bocca nel costatare che determinate scene sarebbero state più incisive con una maggior dose di pathos e violenza visiva, una maggiore incisività nella gestione dell'apparato rumoristico, nonché nella frammentazione della prospettiva. 


Se a parer mio il design dell'opera è abbastanza grezzo, pucci pucci e fuori luogo per le tematiche trattate, anche alcuni aspetti tecnici non stupiscono più di tanto, nonostante dietro vi sia un colosso come Production I.G. Abbastanza infelice la scelta di disegnare e colorare i fondali con una computer grafica assai rozza e minimalista: questo fatto, congiunto alla scarsa raffinatezza del design, contribuisce a rendere il tutto molto più asettico e finto di quanto non lo sia già di per sé. Anche la colonna sonora non si rivela molto incisiva, e contribuisce ad annoiare lo spettatore con un piattume visivo-uditivo che lascia abbastanza il tempo che trova. Perché sì, è proprio così: gli anni novanta sono finiti, è già stato fatto tanto, forse tutto, e anche gli autori che un tempo vissero i loro momenti di gloria, alla luce di un contesto differente si rivelano inconcludenti; non stupisce pertanto lo scarso seguito che ha avuto questo "Ghost Hound", un'opera in bilico tra la gloria del passato e l'aridità concettuale del futuro di un media che a quanto pare ha già giocato tutte le sue carte migliori. 







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