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domenica 10 agosto 2025

Ubik: Recensione e interpretazione


Questo è il mio primo approccio a Dick; di fantascienza avevo letto altri libri, cose ben più "classiche" e meno genuinamente postmoderne. Lo scrittore è inutile presentarlo: trattasi di un pezzo grosso della letteratura, e su internet è pieno di saggi e materiale biografico su di lui. La cosa che più mi ha colpito del personaggio, comunque, a parte le conclamate neurodivergenze e dipendenze da sostanze, è stato il trauma, mai risolto in vita, della prematura morte della sorella gemella. La grande prolificità di Dick, quindi, mi puzza molto di "strategia di sopravvivenza" a un dolore primigenio, un po' come quella di Enrico Fermi, che decise di dare tutto sé stesso alla fisica dopo la morte del fratello, o di Michelangelo, che  nelle sue madonne sembrava quasi ricercare il volto della defunta madre (addirittura, quando si trattava di vivisezionare i cadeveri per studiarne l'anatomia, l'artista si rifiutava di toccare i corpi femminili, giusto per non rievocare l'antico trauma). Ergo arte e scienza, così come la religione, sono a loro modo forme di cope, di compensazione psicologica di fronte all'insensatezza della schopenaueriana Wille che muove da dietro le quinte la Vorstellung, o velo di Maya che dir si voglia. Tutto torna quindi in questo Ubik, con le sue metafore gnostiche e filosofiche, i suoi sbalorditivi plot twist che mirano a indagare la natura del tempo, della coscienza, del Male e così via, senza mai giungere a una vera e propria risposta, perché una risposta in realtà non c'è, ma si potrebbe soltanto intuire sperando di attingere un po' di polvere dorata da qualche fugace stato superiore di coscienza. 

domenica 27 aprile 2025

Rivedere Ideon nel 2024


Ho provato a vedermi una serie Netflix a tempo perso: ho resistito un episodio, uno soltanto, poi ho smesso. Ho pensato: "Perché devo sprecare il mio tempo così?" E allora niente, siccome ho da poco rivisto La Rivoluzione Utena, decido di rivedermi anche Space Runaway Ideon, un anime che mi ossessionò non poco durante gli anni universitari. Ideon è austero, duro, un calcio sui denti, un po' come lo erano i laboratori al terzo piano sottoterra della facoltà di fisica di Torino. Le vecchie sale computer vicino all'entrata, le lavagnette, il silenzio e poca gente che vagava assorta nei suoi pensieri. I corridoi claustrofobici, che ai miei occhi presero vita soltanto quando li vidi percorsi dal cammino incerto di una ragazza alta e magra col caschetto, che avevo portato lì in qualità di fidanzata giusto per farle vedere i luoghi della mia solitudine (tra l'altro le scrissi una poesia che finiva con qualcosa del tipo "grazie a te non sono più solo"). Ma  prima di lei, quando il professore spiegava i buchi neri alla lavagna, io nel mentre pensavo al robottone che i buchi neri li creava ad hoc per distruggere i nemici. Ero proprio un otaku, sì, uno di quelli veri. E allora a trentaquattro anni (questo post l'ho scritto l'anno scorso) decido di rivedermi Ideon, e la cosa mi manda inevitabilmente indietro nel tempo. Il mondo è cambiato: la pandemia ha resettato la mia vita precedente, portandomi di fatto in un "mondo nuovo" fatto di persone ancora più sole e alienate di prima; alla pandemia è poi seguita la possibilità di una guerra mondiale atomica, più un genocidio tutt'ora in corso. Tante pecore incapaci di pensare, tanta tecnologia, le imminenti intelligenze artificiali, il potere sempre più  potente e sfacciato, nonché le crescenti difficoltà di riuscire a comunicare col prossimo,  sempre se nella testa del prossimo, effettivamente, ci sia qualcosa di diverso dalla spazzatura (quest'ultimo punto tra l'altro è uno dei temi portanti di Ideon). Insomma, il 2024 è il periodo giusto per rivedersi un anime figlio della guerra fredda, una situazione storica molto simile a quella attuale. Paradossalmente Ideon, pur vantando contenuti tremendamente maturi, è un anime rivolto ai bambini; ma ricordiamoci che era pur sempre il lontano 1980. Ora invece per l'intrattenimento ho come l'impressione che valga la regola opposta: opere tremendamente infantili che hanno come target principale gli adulti. Com'è cambiato il mondo, eh?

domenica 9 febbraio 2025

La Pioggia Nera, Cristo si è fermato a Eboli e La Possibilità di un'Isola: tre letture invernali


Nel vecchio Mars di Yokoyama Mitsuteru, le antiche sentinelle piantate dagli alieni nelle profondità terrestri giudicavano la specie umana come "pericolosa" nel momento in cui essa scopriva l'energia atomica. A quel punto il protagonista del manga, una sorta di giudice calato dall'alto in stile Childhood's End, si risvegliava e, dopo un attento studio in merito alla storia e alla bontà della specie, veniva chiamato a decidere se terminarla o no. Questo quesito filosofico, congiunto al trauma del bombardamento nucleare, è molto presente nella (passata) cultura pop giapponese, per interderci anime, manga, film, telefilm e videogiochi. Per un popolo imperiale, provinciale e contadino, infatti, il trauma derivante dalla scienza occidentale ha avuto l'impatto di una congiura cosmica, di una sorta di ritorsione degli dèi o della stessa Natura. Per capire bene questo fatto, tuttavia, a mio parere occorre lasciar perdere l'intrattenimento "pop" e andare a scoprire la letteratura a tema, la fonte diretta del dramma, in cui la disgrazia primigenia viene raccontata in prima persona da chi l'ha vissuta. Le fonti principali da cui attingere sono i romanzi di Ota Yoko e il qui presente La Pioggia Nera di Masuji Ibuse (per intenderci l'autorevole maestro rinnegato da Dazai Osamu poco prima del suicidio). In particolare La Pioggia Nera è una sorta di "coscienza  collettiva" dei vari testimoni di cui lo scrittore aveva raccolto e rielaborato gli scritti, quindi ha un po' il carattere di una vicenda totalizzante, raccontata in prima persona dalla gente comune. Ne La Pioggia Nera, infatti, non vi è alcuna forma di antiamericanismo o condanna politica, a parte qualche frecciata al farraginoso apparato statale dell'epoca: la luce letale su Hiroshima, così come le scellerate decisioni dell'imperatore, sono relegabili a rassegnati eventi di sventura cosmica, che si abbattono su un popolo già di per sé stanco e martoriato dalla guerra. In tutto ciò, dato il livello di maturità della narrazione e dei suoi taciti simbolismi, La Pioggia Nera ascende tranquillamente al rango di capolavoro e di opera intellettuale nel suo senso più profondo. 

mercoledì 29 settembre 2021

serial experiments lain: Recensione 2.0

 Titolo originale: serial experiments lain
Regia: Nakamura Ryutaro
Soggetto: Production 2nd (ABe Yoshitoshi, Ueda Yasuyuki)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: ABe Yoshitoshi (originale),  Kishida Takahiro
Musiche: Nakaido Reiichi
Studio: Triangle Staff
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 1998
 


Siamo negli anni novanta. Internet era agli albori e ShinSeiki Evangelion era diventato in breve tempo un fenomeno di massa. Da lì in poi ebbe inizio la NAS, la "nuova animazione seriale" da fascia notturna, un trend di anime cupi e maturi che si esaurì dopo qualche anno in preda al suo stesso manierismo. Dato che l'opera di Anno era stata a suo modo sperimentale, TV Tokyo, la piccola emittente televisiva che la mandò in onda, era aperta a trasmettere anche serie televisive tra le più allucinate. Forte di tutto questo contesto, il produttore Ueda Yasuyuki aveva in mente di fare un mediamix (videogioco, anime e cd) con tutte le cose che gli piacevano: una ragazzina misteriosa talmente carina/moeru che lo spettatore si sarebbe dovuto innamorare; un attacco al sistema consumistico americano (asserzione che fa un po' ridere dato che la sigla dell'anime è in inglese e l'opera essa stessa è un prodotto di consumo); del cyberpunk marcio à la William Gibson con tanto di suggestioni musicali new wave. Con le idee ben chiare in testa, Ueda conobbe in una chat su internet ABe Yoshitoshi, che gli disegnò la ragazzina dei suoi sogni incontrando immediatamente il suo apprezzamento (la fissazione di Ueda con Lain puzza molto di lolicon). I due battezzarono il proprio sodalizio in Production 2nd e andarono quindi a caccia di uno sceneggiatore e di un regista, forti dello spazio concesso da TV Tokyo e dai finanziamenti della Pioneer. Ueda era (ed è ancora credo) un punk mezzo otaku, ABe un ragazzo introverso e intellettuale, che in futuro creerà in autonomia capolavori esistenzialistici come Haibane Renmei. Per i due non fu difficile tirare dentro Chiaki J. Konaka, uno sceneggiatore Horror/Sci-Fi reduce di qualche OVA anni ottanta (tipo Bubblegum Crisis 2040 ). Egli infatti era un otaku della stessa generazione di Anno, completamente assorbito dalle sue conoscenze esoteriche, psicologiche, dalle sue bambole artigianali (un altro lolicon), da Lovercraft e dai Tokusatsu come Ultraman (dopo serial experiments lain, che si scrive tutto minuscolo, non a caso Konaka diventerà lo sceneggiatore di punta della NAS). Dopodiché, quando Ueda andò al Triangle Staff per stabilire chi avrebbe dovuto gestire regia e animazioni, incontrò il veterano Nakamura Ryutaro, che aveva lavorato per tre anni come key animator alle dipendenze del leggendario Dezaki Osamu (in particolare in Takarajima, Ashita no Joe 2 e Cobra ). Nakamura, che purtroppo ora è passato a miglior vita, era il più anziano del gruppo ed era già sposato con due figli, mentre gli altri tre erano single. Inquadrate pertanto le personalità dei quattro creatori, una volta formato questo dream team che l'animazione di oggi si sognerebbe, nacque appunto serial experiments lain, uno dei capisaldi del cyberpunk animato giapponese. Già il titolo è tutto un programma: l'opera è strettamente di nicchia, sperimentale, cupa, intrisa di tutto il disagio del suo tempo. Quel "PRESENT DAY, PRESENT TIME!" scandito da una voce psicopatica che ride da sola, parla per un Giappone in piena crisi d'identità e succube  di una nuova forma di occidentalizzazione forzata: quella legata al nascente dominio tecno-informatico sulla vita umana e le relazioni sociali, una delle tante cose che anche noi abbiamo importato dagli USA.  

lunedì 8 febbraio 2021

Fushigi no Umi no Nadia [ Il mistero della Pietra Azzurra ]: Recensione 2.1 (by AkiraSakura & Shito)

Titolo originale: Fushigi no Umi no Nadia
Regia: Anno Hideaki
Progetto: Miyazaki Hayao (non creditato), Kubota Hiroshi
Struttura della serie: Ookawa Hisao,
Sceneggiatura: Ookawa Hisao, Tanami Yasuo (come: Umino Kaoru)
Character Design: Sadamoto Yoshiyuki
Mechanical Design: Yamashita Ikuto, Anno Hideaki
Musiche: Sagisu Shirou
Realizzazione: GAiNAX, Group TAC
Animazione: Touhou, KORAD
Formato: serie televisiva di 39 episodi
Emittente: NHK
Anni di trasmissione: 1990~1991
 
 
«Nadia... donna ni atte mo, ikirou!» 
(«Nadia... per quel che dovesse accadere, vivi!»)
 
 
L'ennesima revisione di Nadia dei Mari delle Meraviglie, una serie animata che nel passato di chi scrive (e qui sono ben due teste e quattro mani!) ha in qualche modo lasciato un segno, o quantomeno contribuito a un arricchimento personale, non fa altro che reiterare un nostro atavico dubbio. Ossia: ma Evangelion era davvero necessario?
Molto probabilmente, considerando la sua universalità di anime sulla crescita/vita (così come volendo lo era Galaxy Express 999, altro totem dell'animazione giapponese seriale), Nadia potrebbe per paradosso dirsi l'opera più "matura" di Anno Hideaki. Matura proprio perché rivolta ad un pubblico infantile, senza tuttavia essere banale; per i bambini, infatti, è facile subirne il fascino senza coglierne appieno i vari significati. Da adulti, invece, a parte le sbavature dovute a una produzione fin troppo caotica (tratto tipico della GAiNAX, quand'era ancora la GAiNAX), l'opera si rivela come un intreccio brillante di filosofia, psicologia, relazioni umane. E tanta fascinazione fantascientifica. 

domenica 1 novembre 2020

Cyborg 009: Recensione

Titolo originale: Cyborg 009
Regia: Takahashi Ryōsuke
Soggetto: Tratto dall'omonimo manga di Ishinomori Shotarou
Character Design: Ashida Toyoo
Musiche: Sugiyama Kouchi
Studio: Toei Animation
Formato: serie televisiva di 50 episodi
Anno di trasmissione:1978
 
 
Ho sempre visto Cyborg 009 come la miglior risposta supereroistica giapponese agli ovvi rivali americani. Sì, certo: superpoteri, superuomini, superdonne. Forse. 
Il tutto non era comunque banale perché, appunto, quest'opera era giapponese: giapponese nel senso di "dopoguerra". Perché sì, come era facile prevedere, i nove supermagnifici sono invero degli orfani disadattati: chi ex teppista delle strade, chi ex guerrigliero ecc. Per non parlare poi del tedesco che aveva visto morire la sua amata attraversando per disperazione il muro di Berlino; o dell'ex attore/macchietta alcoolizzato. Le etnie che compongono questo gruppo di supereroi sono varie: dal Giappone (il protagonista ovviamente è giapponese) all'Africa, passando per l'America, verso cui i giapponesi dell'epoca avevano una certa avversione. I nove, come intesi originariamente da Ishinomori, sono una "oltreumanità" che ha superato, mediante il dolore, le barriere dettate dalle differenze. Certo, non mancheranno screzi tra i membri del gruppo, ma saranno sempre mirati a una simbolica risoluzione. 

lunedì 5 agosto 2019

Gosenzosama Banbanzai: Recensione per l'anniversario.

Titolo originale: Gosenzosama Banbanzai
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Mamoru Oshii
Character Design: Satoru Utsunomiya
Musiche: Kenji Kawai
Studio: Pierrot
Formato: serie OAV da 6 episodi
Anno: 1989 

Premessa: salve a tutti sono onizuka90, l'amministratore scomparso da tempo immemore, è tantissimo che non scrivo nulla di nuovo sul blog ma ho deciso di tornare per dare un tributo a Gosenzosama Banbanzai, una serie di cui non si parla mai ma che merita l'attenzione degli appassionati, perciò... ecco a voi la recensione su una delle opere più particolari di Oshii! 




Le persone tipicamente dedicano la propria vita alla finzione.

Agosto 1989, il “paese del sol levante” vede sorgere una nuova opera dal genio di Mamoru Oshii, si tratta di Gosenzosama Banbanzai (letteralmente “Lunga lunga vita agli Antenati”), una miniserie composta da sei OAV e partorita in sinergia con Kenji Kawai; il quale successivamente diventerà uno stretto collaboratore del Maestro, curando la colonna sonora di tutti i suoi lavori. 
“Gosenzosama Banbanzai” incarna in modo esemplare il caso di quelle serie animate rimaste ignote al mondo e il cui nome è presto svanito dalle scene, obliato nei meandri del tempo, per rimanere ad appannaggio di pochissimi e fedeli fan. L’occorrenza del suo anniversario, che cade oggi 5 agosto, pare pertanto l’occasione più appropriata per donargli un piccolo tributo, così da far brillare ancora una volta tale inestimabile gemma dell’animazione nipponica, nella speranza di farla riscoprire destando la curiosità di qualche nuovo appassionato, o di far scendere una lacrima di nostalgia a chi già ha potuto goderne la visione.

giovedì 1 agosto 2019

Neon Genesis Evangelion: Recensione 2 .0

Titolo originale: Shin Seiki Evangelion
Regia: Anno Hideaki
Progetto & Soggetto: GAINAX
Character Design: Sadamoto Yoshiyuki
Mechanical Design: Yamashita Ikuto, Anno Hideaki
Musiche: Sagisu Shiro
Realizzazione Animazioni: GAINAX, Tatsunoko Production
Formato: serie televisiva di 26 + 2 episodi
Anni di trasmissione: 1995 - 1996
Disponibilità: edizione italiana in dvd a cura di Dynit


Evangelion è Anno Hideaki, ossia uno dei più influenti otaku di prima generazione (ossia quelli che avevano vissuto l’Expo di Osaka ’70 da bambini). Non esiste altra interpretazione dell’opera: essa va letta come l’anima, volendo lo spirito, la vita, di un otaku appartenente a un determinato periodo storico post-WWII (con tutti i mutamenti sociologici del caso), che si è guadagnato da vivere con cose - all’epoca, in Giappone - considerate da bambini/ritardati.
Con quest’opera, il cerchio del sogno otaku inaugurato dalla stessa GAINAX con Daicon III si chiude definitivamente, con un ragazzino che piagnucola dacché non riesce a definire la sua identità in un mondo di solitudine. Dopodiché, travisato nei suoi significati e frainteso da una nuova generazione di otaku ormai radicalmente diversa da quella di Anno, che poco si interessa a inserirsi in una società sempre più inesistente («There is no such thing as society», Margaret Tatcher docet), Evangelion diventerà un fenomeno consumistico di massa, sia in Giappone che all’estero. Le sue protagoniste assumeranno lo status di icone pop, dai videogiochi erotici alle doujinshi pornografiche, e le loro acton figures venderanno più dei modellini delle unità Eva. Nondimeno, la storia verrà sfruttata commercialmente fino alla nausea, con decine e decine di spin-off e storyline alternative (anche ad opera dello stesso autore, si pensi al discutibile Rebuild of Evangelion). Ciò premesso, oltre ad essere una lucida analisi delle problematiche legate ad una determinata condizione sociologica, la magnum opus di Anno è altresì uno degli anime più importanti della storia del suo media, tant’è che il 1995-97 è una linea di demarcazione di cui ogni eventuale “storico degli anime” dovrebbe tenere conto.

giovedì 17 agosto 2017

Queen Millennia (La regina dei mille anni): Recensione

 Titolo originale: Shin taketori monogatari: sennen joō
Regia: Nobutaka Nishizawa
Soggetto: Leiji Matsumoto
Sceneggiatura: Toyohiro Andou, Hiroyasu Yamaura
Character Design: Yoshinori Kanemori
Musiche: Ryuudou Uzaki
Studio: Toei Animation
Formato: serie televisiva di 42 episodi
Anno di trasmissione:1981


Nel millenovecentottantuno, quando la Fuji TV trasmetteva per la prima volta in televisione l'adattamento animato dell'omonimo manga di Leiji Matsumoto uscito un anno prima, Shin taketori monogatari: sennen joō, in italiano La nuova storia di un tagliabambù: la regina dai mille anni, il terrore atomico e le atmosfere tipiche della guerra fredda avevano già raggiunto il paese del Sol Levante. Ad un anno di distanza, i cinema proponevano il truce, misticheggiante capolavoro cinematografico di Yoshiyuki Tomino, The Ideon: Be Envoked, e il versante fantascientifico dell'animazione giapponese, grazie alla deflagrazione indotta dai film Space Cruiser Yamato e Star Wars, era al suo apice. Il pubblico adulto iniziava a interessarsi ad un media rivolto prevalentemente al pubblico infantile, e pertanto in alcuni anime gli episodi autoconclusivi iniziavano a lasciare spazio a complesse trame caratterizzate da una serrata continuity. Shin taketori monogatari: sennen joō - come è lecito aspettarsi dal suo contesto - era una storia apocalittica, in cui l'umanità aveva i minuti contati a causa dell'imminente collisione tra la Terra e l'immaginario pianeta Lamethal (e qui si notava nuovamente, dopo Space Cruiser Yamato, il debito della narrativa Matsumotiana nei confronti della fantascienza statunitense, in particolare di Edmond Hamilton, che non disdegnava collisioni catastrofiche tra corpi celesti in grado di annichilire la razza umana). Per essere più precisi, proprio come Space Cruiser Yamato, che alla fine di ogni episodio aggiornava lo spettatore sui giorni, le ore e i minuti che mancavano alla fine dell'umanità, Shin taketori monogatari: sennen joō faceva suo il mantra, ripetuto ossessivamente nel corso della serie, che la razza umana si sarebbe estinta il giorno nove settembre del millenovecentonovantanove, alle nove e nove minuti e nove secondi. L'atmosfera con ciò era tesissima, e lasciava trasbordare soltanto in parte i toni fiabeschi e poetici Matsumotiani, preferendo i connotati di uno straripante thriller fantascientifico d'autore (buone per l'epoca le animazioni e la regia) caratterizzato da immancabili cliffhanger di fine episodio. 

martedì 4 aprile 2017

Ghost in the Shell - live action: Recensione

 Titolo originale: Ghost in the Shell
Regia: Rupert Sanders
Soggetto: Masamune Shirow
Sceneggiatura: Jamie Moss, William Wheeler
Fotografia: Jess Hall
Effetti speciali: Steve Ingram, Andrew Durni
Musiche: Clint Mansell, Lorne Balfe
Casa di produzione: DreamWorks Pictures, Paramount Pictures, Arad Production, Amblin Partners, Reliance Entertainment
Formato: lungometraggio di 106 min.
Anno di uscita: 2017


Settembre 2016, Paramount Pictures pubblica i primi teaser trailer del tanto chiacchierato “Ghost in the Shell”, dando finalmente un corpus delicti ai rumors e alle voci che circolavano per la rete circa il nuovo lungometraggio americano che si propone di riportare in auge il noto brand marchiato Masamune Shirow (il manga originale) prima, e Mamoru Oshii poi (il film del '95 e Innocence)*. Si tratta di un annuncio di una forza dirompente che letteralmente spacca a metà la comunità degli internauti: all'istante si levano i cori indignati dei fan che gridano allo scandalo, profetizzando l'imminente sciagura di una corruzione e distruzione di ciò che fu oggetto di culto, simbolo, nonché masterpiece del cyberpunk nipponico degli anni '90. Non assenti, tuttavia, anche voci contrarie alla generale mancanza di fiducia** che si è poi rivelata, purtroppo, parzialmente veritiera e preconizzante, ma andiamo con ordine.

sabato 12 novembre 2016

Wet Moon: Recensione

Titolo originale: Wet Moon
Storia: Atsushi Kaneko
Disegni: Atsushi Kaneko
Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: Star Comics
Volumi: 3
Data di uscita: 2011


«Ehi, ascoltami... che aspetto pensi che abbia il lato nascosto della Luna? Nessuno può ancora saperne niente, e sono libera di dare sfogo alla mia immaginazione, no? Però... presto gli esseri umani andranno lassù. E a quel punto, questa mia libertà scomparirà di colpo.»
– Ruri –

Si definisce wet moon (“luna bagnata”) – in italiano nota come “luna a barchetta” – una particolare fase lunare in cui la falce illuminata si ritrova coricata sull’orizzonte con le due estremità protese verso l’alto, assumendo un aspetto simile a un ghigno beffardo. Come un freddo faro nella notte, la Luna si fa da sempre osservatrice esterna delle vicende dell’uomo, che – affascinato dalla sua argentea luce – nel corso dei secoli ha alimentato innumerevoli leggende e credenze popolari ad essa legate. Ed è proprio questo richiamo primordiale e inarrestabile che sta al centro di “Wet Moon”, cupo e onirico manga pubblicato a partire dal 2011 sulle pagine della rivista “Comic Beam” di Enterbrain, e firmato da uno degli autori contemporanei più eclettici e geniali del Sol levante: Atsushi Kaneko.

sabato 8 ottobre 2016

Aula alla deriva: Recensione

Titolo Originale: Hyouryuu Kyoshitsu
Autore: Kazuo Umezu
Tipologia: Shounen manga
Edizione Italiana: Hikari / 001 Edizioni
Volumi originali: 11
 Data di uscita: 1972


In Giappone, all'inizio degli anni settanta, la disfatta del sessantotto era dietro le porte, e ad essa si aggiungevano i numerosi disastri provocati dall'industrializzazione frenetica e incontrollata degli anni cinquanta e sessanta: la baia di Minimata e il fiume Agano erano avvelenati dal mercurio, il suolo della prefettura di Toyama dal cadmio e l'aria di Yokkaichi dal biossido di zolfo e dal biossido di azoto. Le innumerevoli intossicazioni riscontrate dagli abitanti di queste zone avevano mantenuto vivo nel subconscio collettivo giapponese il tetro ricordo delle malattie portate dalla radioattività nell'immediato dopobomba, e avevano altresì innescato un dibattito etico e giuridico che portò le autorità nipponiche ad alcune revisioni in materia legislativa atte a contenere l'inquinamento ambientale. In questo contesto, con il boom economico che svelava i suoi lati oscuri, lo spettro del ricordo dell'atomica e il caos politico derivante dal fallimento dei moti del sessantotto, nel 1972 la rivista Shounen Sunday pubblicava “Hyouryuu Kyoshitsu”, uno dei manga fondamentali del suo tempo - un anno dopo, quasi come se avesse voluto rispondere alla “sfida” della rivista rivale, Shounen Jump diede alle stampe un altro classico del fumetto giapponese post-apocalittico, l'iconico “Hadashi no Gen” di Keiji Nakazawa.
Vagamente ispirato al cupo “Lord of the Flies” di Golding, ma strettamente giapponese e allegorico nella sostanza, “Hyouryuu Kyoshitsu” narra la storia di Sho, studente delle elementari figlio del boom economico – e pertanto strettamente legato alla figura materna e pressoché privo di quella paterna, dacché all'epoca i padri di famiglia erano chiamati a sacrificarsi sul lavoro al fine di ricostruire un paese messo in ginocchio dalla WWII – il quale un giorno si ritrova teletrasportato, assieme a tutta la sua scuola, in un arido futuro in cui tutto ciò che rimane del genere umano è un tetro deserto color pece, colmo di raccapriccianti e minacciosi mostri. Nella scuola circondata dall'abisso tossico del nonsenso non ci sono più regole: spetterà ai bambini costruire una società partendo da zero, dapprima imponendo il razionamento delle scorte alimentari e la democrazia, e successivamente assistendo alla regressione di alcuni componenti del gruppo allo stadio primitivo, una delle tante divisioni interne che lacereranno una comunità allo sbando, succube degli allegorici orrori del dopoguerra i quali, giorno dopo giorno, si manifestano in tutta la loro violenza, proiettandosi indefinitamente in un futuro non troppo lontano nel quale ogni residuo di umanità è andato perduto.

sabato 27 agosto 2016

Digimon Tamers: Recensione

Titolo originale: Digimon Tamers
Regia: Yuko Kaizawa
 Soggetto: WiZ, Chiaki J. Konaka
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Nakatsuru Katsuyoshi
 Musiche: Arisawa Takanori
 Studio: Toei Animation
Formato: serie televisiva di 51 episodi
Anni di trasmissione: 2001 - 2002


Nel 2001, nonostante il passaggio al nuovo millennio fosse già avvenuto, le leggende sul fantomatico millennium bug non erano ancora del tutto svanite. In Giappone – e non solo - nei primi anni della “nuova era” il contesto non era poi così diverso rispetto alla seconda metà degli anni novanta; la transizione verso un orizzonte temporale ignoto e a suo modo “astratto”, assai mitizzato e temuto dai media, portava con sé tutte le vecchie fobie e paranoie di una società decisamente poco disposta al cambiamento, che aveva sperimentato il peso dell'incertezza con la crisi economica novantina e, sin dagli anni ottanta, ricercato una comunione animistica e sacrale con la tecnologia, la quale, venendo percepita come un qualcosa “divino” grazie allo shintoismo, quando s'incominciò a pensare che potesse manifestare i suoi lati negativi - sopratutto se a livello digitale e informatico - inquietò parecchio i giapponesi, che rimanevano spiazzati nell'ammettere che avrebbe potuto trasformarsi da dio benevolo e utile alla vita di tutti i giorni nel peggiore dei demoni, un “oni” il quale, una volta andato fuori controllo, avrebbe minato la società nelle sue fondamenta. La terza serie animata dedicata ai videoludici “mostri digitali” creati dalla WiZ nel 1997 al fine di emulare il successo planetario del Tamagotchi, quasi come se in un contesto del genere l'avesse deciso il destino, viene affidata interamente a Chiaki J. Konaka, uno dei creatori – nonché sceneggiatore – di “serial experiments lain”, uno degli anime più complessi, iconici e profondi mai realizzati, che nella seconda metà degli anni novanta aveva spiazzato pubblico e critica col suo innovativo tecno-animismo duro e privo di compromessi. Nasce così “Digimon Tamers” - non a caso definito da alcuni come un «“serial experiments lain” per bambini» -, la serie più matura e introspettiva del brand.

sabato 16 luglio 2016

Patlabor 2 - The Movie: Recensione

Titolo originale: Kido Keisatsu Patlabor 2 - The Movie
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Kazunori Ito, Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Character Design: Akemi Takada, Masami Yuki
Mechanical Design: Yutaka Izubuchi, Shoji Kawamori, Hajime Katoki
Musiche: Kenji Kawai
Studio: Production I.G
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1993


«Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell'uomo saranno quelli stessi di casa sua.» [Dal Vangelo secondo Matteo, 10,32-11,5]

Il secondo film del celebre franchise di “Patlabor”, ideato e sviluppato dal gruppo HEADGEAR (composto da Mamoru Oshii, Kazunori Ito, Akemi Takeda, Yutaka Izubuchi e Masami Yuki), a scanso di equivoci, si tratta di uno dei più grandi capolavori del cinema di animazione di tutti i tempi. Il lungometraggio - un thriller politico intellettuale e filosofico dai molteplici livelli di lettura -, si trova completamente agli antipodi rispetto al mood leggero e scanzonato tipico dell'usuale universo animato di “Patlabor”. Con esso, oltre a nascere quella storica collaborazione tra Mamoru Oshii e Production I.G. che nel 1995 porterà all'epocale “Ghost in the Shell”, si conclude il sodalizio tra i cinque artisti dell'HEADGEAR, i quali, una volta lasciata carta bianca al loro talentuoso regista, donano alla storia un film splendido, inarrivabile, lento, complesso – a detta del critico cinematografico Tony Rains, “Patlabor 2” è il «primo, inequivocabile grande film» di Oshii -, elegante, sontuoso ed estremamente autorale. 

sabato 18 giugno 2016

The Red Spectacles: Recensione

Titolo originale: Akai Megane
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Kazunori Ito, Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Musiche: Kenji Kawai
Produzione: Shigeharu Shiba, Daisuke Hayashi
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1987


Ispirandosi vagamente al romanzo “The Man in the High Castle” di Philip K. Dick, verso la fine degli anni ottanta Mamoru Oshii creò la Kerberos Saga, una narrazione multimediale il cui primo passo fu il qui presente “Akai Megane”, storico esordio dell'irrequieto regista nel campo del cinema live action tout court (percorso che condurrà al notevole “Avalon”, che sancirà la maturità dell'Oshii regista di film dal vivo). Fatto salvo ciò, la Kerberos Saga continuò con il manga “Kenrou Densetsu”, pubblicato tra il 1988 e il 1999, e poi con un secondo live action, “Stray Dog: Kerberos Panzer Cops” (1991). Il prodotto più notevole di questa insolita epopea dal sapore di thriller fantapolitico si tratta indubbiamente di “Jin-Roh” (1999), un lungometraggio – inizialmente concepito come serie OAV - scritto da Oshii e diretto dal giovanissimo talento Hiroyuki Okiura.
“Akai Megane” è un film molto insolito, permeato da un bizzarro alone di “B-Movie” coadiuvato da una scarna commistione tra il noir distopico à la “Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution” (film seminale nel suo genere targato 1965 e ovviamente molto apprezzato da Oshii) e la commedia teatrale dell'assurdo (genere che il regista trasporrà in animazione due anni dopo, con il suo particolarissimo e brillante “Gosenzosama Banbanzai!”). Protagonista del lungometraggio è il fuggitivo Koichi Todome, un ex membro del corrotto gruppo speciale di polizia denominato Kerberos Panzer Cops, ormai smantellato dalle alte sfere del potere e ritenuto illegale. Ritornato in Giappone al fine di ritrovare i suoi compagni scomparsi, Koichi viene catturato da alcuni spietati agenti governativi – il cui simbolo è un gatto, che si contrappone all'identità “canina” del protagonista -, i quali lo torturano e tormentano al fine di carpirne i segreti politici inerenti il corpo di polizia “pirata” che intende riesumare, che secondo loro sono contenuti nella borsa che lo sventurato si porta sempre appresso (sulla quale è presente un adesivo raffigurante un basset hound, il marchio di fabbrica del regista). Inizialmente gli ex compagni di Koichi sembrano averlo tradito, tuttavia la natura umana è molto complessa, e pertanto certe dinamiche sociali si riveleranno imprevedibili. 

sabato 28 maggio 2016

Akira: Recensione

Titolo originale: Akira
Regia: Katsuhiro Otomo
Soggetto: basato sull'omonimo manga di Katsuhiro Otomo
Sceneggiatura: Katsuhiro Otomo, Izo Hashimoto
Musiche: Shoji Yamashiro
Studio: Tokyo Movie Shinsha
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1988


Negli anni ottanta in Giappone si affermò una generazione di autori che non aveva ricordi diretti del trauma di Hiroshima e Nagasaki: per ovvi motivi anagrafici, il ricordo più scottante impresso nella memoria di questi artisti era la sanguinosa sconfitta dei loro fratelli maggiori nelle contestazioni – nel 1970, data del totale fallimento del movimento studentesco, alcuni membri dell'Armata Rossa fuggirono in Corea del Nord mediante un dirottamento aereo, e il loro capo, Takamaro Tamiya, dichiarò ai media giapponesi la celebre frase “noi siamo Ashita no Joe”. Ciò premesso, il colpo di grazia ai residui idealistici dell'Armata Rossa arrivò a inizio anni ottanta, con l'ascesa al potere di una destra nazionalista e militarista che si fece carico di numerosi scandali politici – dei quali poco importava ad una nuova generazione di adolescenti quanto mai edonisti, i cosiddetti figli della bolla, consumatori aggressivo-passivi privi di ideologie e assai indifferenti, annoiati, senza uno scopo per vivere. Inutile dire che tutto ciò era la naturale conseguenza del benessere e dell'avanzare, sempre più incalzante, della postmodernità come la intendiamo oggi.
Katsuhiro Otomo - classe 1954 -, con il suo “Akira”, uno dei lavori più rappresentativi della storia dell'animazione, prende come spunto il fallimento ideologico a cui aveva assistito da adolescente, e su di esso costruisce un imponente edificio d'immagini i cui protagonisti sono dei veri e propri Ashita no Joe ottantini, dei delinquenti delle strade che si muovono a bordo delle loro moto in un mondo ipertecnologico, distopico e post-apocalittico, in cui i monolitici grattacieli della cosiddetta Neo-Tokyo rappresentano le invalicabili istituzioni, nonché il potere della vecchia generazione che opprime il nuovo, impedendogli di mutare il paradigma sociale vigente.
Tra i bousouzoku (lett: "gli sfrenati") di Otomo - da lui esplicitamente inseriti nel film in quanto appartenenti ai suoi ricordi giovanili, ma comunque onnipresenti sulle strade della Tokyo degli anni ottanta – è presente Tetsuo, un ragazzino debole, edonista, succube di un complesso d'inferiorità nei confronti del capo-banda Kaneda, che gli fa da padre/fratello maggiore – proprio come Ashita no Joe, i protagonisti di “Akira” sono degli orfani senza radici, abbandonati a loro stessi nei sobborghi decadenti di una città piena di contraddizioni. Alla luce di ciò, Tetsuo - potentissimo esper i cui poteri psichici latenti si risvegliano improvvisamente, dopo il contatto con uno strano bambino-vecchio mutante - ricalca il modello comportamentale della generazione di adolescenti cresciuti durante la grande bolla: è introverso, complessato, frustrato e – inconsciamente - alla ricerca di una figura materna che lo consoli. D'altro canto, Kaneda sembra quasi indietro di dieci anni, in quanto punta tutto sulla fisicità e risolve i suoi problemi direttamente, come se fosse un adulto, senza cercare il supporto di nessuno. La moto/simbolo fallico (a detta dello studioso di cinema Jon Lewis) di Kaneda, che simboleggia il potere, inizialmente non può essere guidata da Tetsuo: l'interazione tra i due ragazzi è in parte l'allegoria di uno strano rapporto padre/figlio e corpo/mente, che si dirama lungo l'ambizioso pastiche postmoderno di Otomo attraverso una rielaborazione simbolica in chiave cyberpunk dei caotici mutamenti sociali del Giappone in corso dagli anni sessanta agli anni ottanta, che vengono raccontati in modo indiretto mediante l'ausilio di un carismatico apparato pseudo-mistico-fantascientifico nel quale, da un nichilismo allucinato e totalizzante, emerge la figura del messia Akira, l'uomo-Dio-bambino-Buddha che si fa portatore del rinnovamento in un mondo corrotto, in cui la perenne stagnazione sociale fa presagire un'incombente fine della Storia. 

sabato 26 marzo 2016

Xenogears: Recensione

 Titolo originale: Xenogears
Sviluppatore: Squaresoft
Soggetto: Soraya Saga, Tetsuya Takahashi
Character Design originale: Kuniko Tanaka
Musiche: Yasunori Mitsuda
Formato: PSX
Durata: 80 ore di gioco circa
Anno di uscita: 1998


"Xenogears" ha fatto molto parlare di sé, sin dalla sua uscita, guadagnandosi in poco tempo lo status di grande totem dei giochi di ruolo giapponesi di tutti i tempi, assieme a titoli del calibro di "Final Fantasy VII" e "Chrono Trigger", con i quali condivide alcuni membri del team di sviluppo. Classificarlo come mero jrpg sarebbe comunque riduttivo, sicché la cosa che è stata in grado di colpire visceralmente l'audience - sino al punto di generare alcuni casi di fanatismo a dir poco esasperato - non è tanto il suo status di "videogioco" tout court, bensì l'estrema complessità di trama, tematiche e personaggi. Dall'uccisione di Dio di nicciana memoria, sino alla frammentazione dell'identità tanto cara alla psicoanalisi, passando per lo gnosticismo, la mitologia ebraica e alcuni profondi rimandi alla letteratura fantascientifica americana, "Xenogears" si eleva ad altezze inimmaginabili, coronando nel migliore dei modi la poetica dell'otaku di prima generazione, rimanendo tutt'ora imbattuto per quanto concerne carisma e messaggio finale.
Opera senz'altro postmoderna ma non decostruttrice del suo genere (come invece lo è l'"Evangelion" a cui è stato ingiustamente paragonato dai fan), questo oggetto di culto trattasi di una grande narrazione che si snoda attraverso molteplici incarnazioni dei protagonisti, dalla creazione dell'uomo sino alla sua apocalisse, ma anche di una delle più belle storie d'amore mai scritte da un giapponese.
Ciò premesso, addentriamoci nell'analisi minuziosa di questo particolarissimo titolo, del quale riporterò alcuni importanti retroscena che meglio chiariranno gli intenti dei suoi autori nel tessere un mosaico così complicato e indimenticabile.

sabato 12 marzo 2016

Ghost Hound: Recensione

Titolo originale: Shinreigari
Regia: Ryutaro Nakamura
Soggetto: Masamune Shirow
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Masamune Shirow (originale), Mariko Oka
Musiche: TENG
Studio: Production I.G
Formato: serie televisiva di 22 episodi
Anni di trasmissione: 2007 - 2008


Un'opera come "Ghost Hound" non passa di certo inosservata, in quanto è il frutto di un cast stellare. Giusto per fare alcuni nomi: Masamune Shirow, Ryotarou Nakamura e Chiaki J. Konaka, tutti e tre assieme, avete capito bene. Sembra quasi uno scherzo, ma in effetti ciò corrisponde a verità. Questo straordinario dream team fa pensare immediatamente ad un capolavoro annunciato, che sicuramente si rivelerà complesso, ricco di tematiche altisonanti, acerbi connubi tra esoterismo e sci-fi coadiuvati da una regia e una sceneggiatura folli, e così via. E' legittimo provare un grande entusiasmo nell'approcciarsi ad un'opera del genere, sopratutto per chi ha vissuto il cyberpunk giapponese nella sua età dell'oro - gli anni novanta -, un tempo ormai lontano in cui il suddetto trittico di autori aveva dettato legge, stabilendo assieme ad un certo Mamoru Oshii le coordinate di quel tipico tecno-orientalismo caratterizzato da una vincente commistione di riflessioni esistenziali e sperimentalismi d'avanguardia. 

sabato 30 gennaio 2016

Corazzata Spaziale Yamato: Recensione

Titolo originale: Uchū Senkan Yamato
Regia: Noboru Ishiguro
Soggetto: Studio Nue, Yoshinobu Nishizaki
Sceneggiatura: Leiji Matsumoto
Character Design originale: Leiji Matsumoto
Mechanical Design: Studio Nue
Musiche: Hiroshi Miyagawa
Studio: Academy Productions
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 1974 - 1975


"Corazzata Spaziale Yamato" è uno dei grandi pilastri dell'animazione giapponese tutta, il classico dei classici il quale, molto coraggiosamente, nel 1974 defini' l'animazione fantascientifica a seguire, nobilitando un media dapprima ritenuto di serie B a vera e propria opera d'arte impegnata. Per tutti gli appassionati, "Corazzata Spaziale Yamato" è un titolo imprescindibile, da vedere e rivedere, nonché contestualizzare e comprendere in tutti i suoi aspetti storici e sociologici. 

martedì 1 dicembre 2015

20th Century Boys: Recensione

 Titolo originale: Nijuu seiki shounen

Autore: Naoki Urasawa

 Tipologia: Seinen Manga 

 Edizione italiana: Planet Manga

Volumi: 22

Anno di uscita: 1999

 


“20th Century Boys” è uno dei manga più rappresentativi degli anni novanta. Si tratta di un'opera di ampio respiro, che si fa carico di grandi ambizioni senza tuttavia risultare prolissa e indigeribile; un monumento narrativo carico di rimandi alla cultura popolare – giapponese e non – in cui viene raccontato un sogno tradito, quello dei ragazzi del ventesimo secolo che nel 1970 vissero l'Expo di Osaka e l'impatto ideologico del primo uomo sulla Luna, dell'epocale concerto di Woodstock, della stessa Torre del Sole, che con il suo volto dorato sembrava protesa verso un sogno di sviluppo e armonia della razza umana completamente antitetico rispetto al nichilismo della società contemporanea. “20th Century Boys” è una sorta di testamento della postmodernità nipponica, dai suoi albori (1970) sino al fallimento ideologico indotto dal clima di terrore del Giappone degli anni novanta, in cui il ben noto attentato alla metropolitana di Tokyo del '95 messo in atto dalla setta religiosa Aum Shinrikyo terrorizzò i giapponesi - migliaia di persone furono avvelenate con il gas sarin in nome dell'irrazionalità e della follia. Il problema delle sette terroristiche che affliggeva il Giappone di quell'epoca – tra l'altro quanto mai attuale in tutto il mondo civilizzato, si pensi alla recente strage di Parigi – era dovuto all'alienazione che la società viveva in quel periodo buio, caratterizzato da una vera e propria psicosi collettiva; non per nulla, l'imminente passaggio al ventunesimo secolo era stato mistificato dai mass media mediante tenebrose suggestioni inerenti un'ipotetica catastrofe che avrebbe abbattuto il genere umano – personalmente, mi ricordo ancora quel clima di incertezza: il fantomatico millennium bug, la violenza degli attentati terroristici e l'orrore che si provava di fronte ai notiziari; alcuni, addirittura, rifacendosi alle teorie complottistiche in voga all'epoca, immaginavano misteriosi antagonisti avvolti nell'ombra che avrebbero dominato il genere umano e decretato la sua fine, magari distruggendo il mondo allo scoccare della prima mezzanotte del ventunesimo secolo.