Titolo originale: Mousou Dairinin
Regia: Satoshi Kon
Soggetto: Satoshi Kon
Sceneggiatura: Seishi Minakami
Character Design: Masashi Ando
Musiche: Susumu Hirasawa
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 2004
Soggetto: Satoshi Kon
Sceneggiatura: Seishi Minakami
Character Design: Masashi Ando
Musiche: Susumu Hirasawa
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 2004
Nel dicembre del 2000 un diciassettenne di Tokyo, subito dopo aver litigato col padre, uscì di casa munito di mazza da baseball e aggredì otto passanti a Shibuya, in preda a un letale miscuglio di rabbia e frustrazione. Sulla base di questo fatto di cronaca, Satoshi Kon decise di creare la sua prima – e purtroppo ultima, causa prematura morte – serie televisiva, “Paranoia Agent”, il canto del cigno di quel cupo e psicologico filone della Nuova Animazione Seriale (NAS) introdotto da “Evangelion” a metà anni novanta, nel quale temi adulti come la critica alla società giapponese, l'alienazione giovanile, la perdita di riferimenti fissi indotta dalla postmodernità et similia venivano di sovente coadiuvati da una regia molto sofisticata e d'autore.
“Paranoia Agent” parla di una psicosi collettiva
che viene esternata mediante la simbolica apparizione di shounen
bat, inquietante ragazzino dotato di mazza da baseball il quale,
nel momento di massima tensione psicologica di un personaggio, ne
cancella il disagio esistenziale mediante un salvifico e brutale
colpo in testa, che con macabra ironia allevia la sofferenza e
l'alienazione della “vittima”.
Il primo episodio della serie è incentrato su
Tsukiko, la designer di Moromi, palese rimando a Hello Kitty e
TarePanda. La ragazza di fatto vive una non-vita, ha un
cattivo rapporto con le colleghe di lavoro ed è isolata e frustrata,
sino al punto di mettersi a parlare con la sua creazione, una
mascotte che compare in ogni dove a simboleggiare una società che
nasconde le sue ossessioni e paranoie dietro la facciata del
culto del kawaii – suggerendo
la mostruosa regressione allo stato infantile di un intero
popolo, che può essere assimilato ai decrepiti infanti di “Akira”,
film tra l'altro diretto da Katsuhiro Otomo, maestro e mentore di
Satoshi Kon. Infatti tutti, ma proprio tutti sono innamorati di
Moromi, non soltanto i bambini e gli otaku: un mostruoso apparato
industriale crea ininterrottamente ogni sorta di gadget su questo
inquietante cagnolino rosa, simbolo poco evanescente della necessità
di fuga dalla realtà di un intero popolo, e lo stesso popolo
ringrazia, in quanto è rimasto invischiato in una catena produttiva
dai ritmi frenetici la quale, oltre a creare disagio e nevrosi, fornisce
altresì i mezzi per evaderle, facendo dell'alienazione una grande
fonte di profitto – si pensi a come viene presentato il mondo
dell'animazione nell'opera: da una parte Kon lo descrive come un
meccanismo fatto di superlavoro, scadenze ravvicinatissime e
precarietà; dall'altro invece esso viene rappresentato come un
potente mezzo di escapismo. In questo contesto, è facile comprendere
perché Tsukiko abbia bisogno di shounen bat per evadere dalla
sua condizione senza via d'uscita.
A questo punto, ignari della reale natura del
suddetto, i due detective Keiichi
Ikari, il quale rimpiange i bei tempi che furono, «quando
tutto era più semplice»,
e Mitsuhiro Maniwa, assai giovane e flessibile, iniziano ad indagare
sulla strana aggressione subita da Tsukiko.
La seconda puntata di “Paranoia Agent” si
focalizza con tagliente ironia sulla selettività della società
giapponese – e non solo -, mettendo in primo piano le vicende di un
ragazzino che vuole apparire a tutti i costi brillante, perfetto e
con il sorriso smagliante, soltanto per rispettare le convenzioni che
gli vengono imposte dall'esterno, delle quali la violazione
implicherebbe l'esclusione diretta da un sistema nel quale
prevaricare il prossimo per farsi strada è la norma. Questo tipo di
atteggiamento - oltremodo cinico – messo in atto da persone così
giovani risulta alquanto sgradevole, e Kon gioca su questo contrasto
distorcendo la prospettiva e convogliando i suoi attori all'interno
di un asettico scenario da incubo, in cui la pressione dei giudizi e
delle aspettative altrui nei confronti dei teenager generano
un fardello molto difficile da sopportare. Ed ecco che la mania di
essere il migliore, di dover per forza piacere a tutti, di portare
sempre il sorriso indossando una maschera, inevitabilmente si fa
nevrosi, una malattia dello spirito che svuota da ogni tipo di vera
identità. Il protagonista di questo episodio rifugge il suo vuoto
interiore proiettando le sue ossessioni e paure nelle altre persone,
generando fraintendimenti e consolidando la sua solitudine in un
crescendo letale – neanche con un compagno di classe amorevole e
comprensivo il ragazzino dalle scarpe d'oro riesce a
socializzare mettendo da parte l'ipocrisia, in quanto lo ritiene un
essere ignobile e inferiore, nonché dotato dei suoi stessi complessi
e capziosi schematismi mentali – che si basano sullo sfruttare il
prossimo per il proprio tornaconto.
Molto incisiva la scena nella quale shounen bat
si rivela al protagonista dell'episodio: quest'ultimo nell'assalitore
vede il sé stesso tutto perfetto e smagliante, quella maschera che
tanto l'ha reso infelice e che in quell'istante, sotto il peso di una
truce bastonata in testa, va in frantumi, conducendo alla totale
apatia. Perché ora il ragazzino dalle scarpe d'oro è
diventato una vittima, e pertanto può stare tranquillo che nessuno
penserà mai più male di lui.
Nel terzo episodio dell'opera viene affrontato direttamente il tema della dissociazione dell'individuo postmoderno, dissociazione che colpisce sia l'integrità personale che la sfera sessuale, sociale e affettiva. Protagonista dell'episodio è Harumi “Maria” Chono, insegnante di supporto del protagonista dell'episodio precedente; di fatto, la suddetta conduce una doppia vita: da un lato è socialmente apprezzabile in quanto ben collocata dal punto di vista professionale, nonché discreta, di bell'aspetto e quanto mai 'perfettina'; dall'altro invece è un'aggressiva ed edonista prostituta dai modi volgari, ovviamente relegata nei gradini più bassi della società. E' palese che questa seconda identità di nome Maria sia la parte rimossa della personalità di Harumi, quell'oscuro lato del sé che la versione “pulita” del personaggio non può accettare, in quanto incompatibile con i dettami imposti dall'esterno, e, più in generale, con i meccanismi di salvaguardia della psiche umana, che tendono a far sì che le pulsioni irrazionali in essa presenti - incompatibili con il vivere sociale e le convenzioni tipiche di un determinato contesto - vengano proiettate verso l'esterno – così nascono i totem -, ovvero su altre persone, cose e/o oggetti – lo stesso shounen bat prende forma proprio grazie a questo meccanismo, che Kon estende alla società giapponese tutta.
Particolarmente sgradevole e incisiva la scena iniziale della puntata, nella quale un otaku che ha appena finito di fare sesso con Maria elogia i presunti poteri delle sue action figures, che considera più vere della persona con cui ha appena copulato; in uno dei successivi episodi della serie - come è tipico del cinema di Kon, in cui realtà e finzione si fondono nel rappresentare le dinamiche dell'inconscio - la situazione si ribalterà, e le action figures prenderanno vita, asserendo che l'otaku che le possiede non è nient'altro che un oggetto: le persone animalizzandosi si trasformano a loro volta in simulacri, in meri ingranaggi della macchina produttiva che li avvolge – si pensi al fenomeno delle idol, trattato dal regista nel suo precedente “Perfect Blue”, nel quale non mancano intelligenti stilettate al mondo degli otaku e al contesto sociale che li ha creati.
Il canovaccio di “Paranoia Agent” prosegue con altri dieci episodi autoconclusivi in cui le vicende vengono spostate su un piano surreale; nel quarto in particolare si assiste ad una metanarrazione in cui un mediocre poliziotto che ama andare a prostitute (in particolare con la ben nota Maria) contrae un debito con la yakuza, e per procurarsi i soldi necessari ad estinguerlo, inizia a compiere alcune banali ed ignobili nefandezze, immaginando tuttavia di essere uno di quegli eroi rivoluzionari e carismatici dei manga gekiga da lui letti. Di nuovo torna il leit motiv dell'ambivalenza e dell'ipocrisia umana: non potendo accettare la sua ombra, l'uomo è costretto a mentire a sé stesso, a spingere il suo egotismo all'estremo immaginando di possedere virtù, poteri e carisma, quando invero non è nient'altro che un perdente totale, perennemente messo sotto scacco da meccanismi più grandi di lui. Molto sarcastica la scena in cui il suddetto eroe/buffone immagina di salvare la sua donna, quando invero non sta facendo altro che rapinare una povera malcapitata: la figura femminile di carta appartenente all'immaginario illusorio del personaggio si confonderà con le banconote da lui rubate - frecciata molto amara nei confronti di chi non riesce a vivere rinunciando alle menzogne.
«Non voglio ritrarre i fatti, ma la verità.»
[Satoshi Kon]
I due commissari di polizia sulle tracce di shounen
bat, che nella loro interazione mettono in scena un ferreo
divario generazionale, si trovano entrambi spiazzati di fronte ad un
sospettato mitomane e alienato dai videogiochi di ruolo; mentre
Keiichi, il più anziano dei due, affronta l'interrogatorio senza
riuscire a comprendere la “malattia postmoderna” del presunto
aggressore, Mitsuhiro, l'ispettore più giovane, entra di peso
nell'immaginario distorto del suddetto, rimanendo a sua volta
alienato. Più avanti nella serie, un ex ladro di altri tempi
asserirà al vecchio ispettore fallito che «shounen bat
è un mostro figlio del suo tempo.» Infatti, il
mondo ideale di Keiichi che compare negli ultimi due episodi della
serie non è nient'altro che una riproduzione di cartapesta del
Giappone degli anni cinquanta; quando il poliziotto penetrerà
all'interno della sua nostalgica illusione, un negoziante gli dirà
che lì dentro, in quel mondo fittizio e confortevole, «shounen
bat non può entrare.» E così il passato viene mitizzato,
diventa un luogo imperturbato e perfetto pieno di figuri di cartone
sorridenti, un rifugio dall'impermanenza nel quale si può
fuggire dal caos, dalla dissociazione, dalla paranoia e dalla paura.
Eppure, si tratta soltanto di una mera illusione, e le illusioni non
durano a lungo.
«La verità è che il mio mondo non esiste più,
è questa la realtà in cui vivo!» [Keiichi Ikari]
D'altro canto, l'unico personaggio di “Paranoia
Agent” in grado di tener testa a shounen bat si tratta di
una donna, in particolare la moglie dell'ispettore Keiichi: a lei è
dedicato un intero episodio, che consiste in uno scontro
psicologico frontale tra colei che guarda sempre in faccia la realtà,
mettendo la coesione familiare prima di ogni cosa, e la malattia
collettiva della società che s'ingrossa sempre più, senza tuttavia
riuscire a colpire quel bersaglio che Kon inserisce come se si
trattasse di una sorta di suo alter-ego, che invita lo spettatore a
diventare meno cinico e più umano – sebbene in tale messaggio non
manchi della sottile ironia, che lascia presagire il tetro eterno
ritorno presente nel finale; dopotutto, dalla postmodernità e
dal nichilismo dilagante non si può in alcun modo fuggire.
Negli ultimi due episodi della serie ritorna in
scena Tsukiko, e Kon imbastisce una disamina psicologica del senso di
colpa e delle sue devastanti conseguenze sulla psiche, che culmina in
un epilogo catastrofico alla Otomo di inaudita potenza visiva. Prima
di arrivare a ciò, l'autore si destreggia in episodi in cui non
mancano all'appello tendenze incestuose – due vittime “resettate”
da shounen bat sono un padre pedofilo e la sua giovane figlia,
che veniva spiata da quest'ultimo mediante una telecamera nascosta
nella sua camera – e parodie della comunicazione su internet – in
particolare si assiste alla bizzarra storia di tre persone che si
conoscono in una chat per aspiranti suicidi, le quali si ritrovano
dal vivo per mettere in atto il loro cupo sogno di morte, sebbene di
fatto siano già morti (di nuovo ritorna la tematica secondo la quale
nella postmodernità le vite diventino assimilabili a delle non-vite).
Per concludere, sotto alcuni aspetti affine al
precedente sperimentalismo televisivo “Boogiepop Phantom”, nel
quale tuttavia veniva enfatizzato il passaggio dall'adolescenza
all'età adulta, “Paranoia Agent” è registicamente impeccabile,
come è lecito aspettarsi da (quello che fu) uno dei maggiori talenti
del cinema d'animazione giapponese. Ciò premesso, le animazioni
presentano alti e bassi, sebbene questo aspetto venga mitigato dalla
regia e dai numerosi, stranianti effetti visivi presi di peso dal
cinema occidentale d'essai. Il design dei personaggi inoltre è
meno dettagliato di quello dei lungometraggi del regista, in modo
tale da accrescere la patina surreale e psichedelica dell'opera, che
assume connotati acidi e frammentari grazie altresì alle stranianti
musiche del compositore Susumu Hirasawa, che si diletta nel
sottolineare la schizofrenia e la psicotropia delle immagini mediante
scelte armoniche atonali ripetute a oltranza. Il risultato finale è
un pugno nello stomaco che si risolve in una nuvola di fumo, una
riflessione impietosa e sarcastica che non lascia presagire alcuna
emozione positiva, riflettendo pienamente la depressione che mina alla base della società postmoderna e ai maldestri tentativi che l'uomo
animalizzato compie per sedarla, cercando una felicità surrogato
dalle false premesse. Perché, come dice lo yakuza del quarto
episodio, «in questo mondo la felicità si costruisce
sempre sull'infelicità altrui.»
Nota
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