martedì 22 dicembre 2020

Come la cucina giapponese sbarcò (e resiste) in Italia: la storia di Hirasawa Minoru (by Gualtiero "Shito" Cannarsi)

 Intervista al Sig. Hirasawa Minoru
titolare del ristorante Poporoya di Milano
presidente dell'A.I.R.G. - Associazione Italiana Ristoratori Giapponesi
 
Raccolta della Dott.ssa Oshima Etsuko e per JapanItaly.com nell'autunno del 2006
Rivista e redatta da Gualtiero Cannarsi nell'autunno del 2016


Faccio una prima strampalata incursione su questo blog a me molto caro, che già avevo spesso commentato, per dare sede a un'intervista per me molto speciale. Conosco e frequento assai sporadicamente il ristorante Popopoya di Milano da quanto? Forse venticinque anni. Ho una smodata ammirazione per quel luogo e il suo fondatore, lo straordinario cuoco (e uomo!) Hirasawa Minoru-san. Tutti i suoi avventori, spesso affezionati e di certo più preziosi di me, lo chiamano "Shiro". Il perché non lo so, ma di mio non riesco a chiamare il signor Hirasawa che "Hirasawa-san". L'intervista che segue, come doverosamente riportato, venne raccolta in altri tempi da altra persona per altra pubblicazione. E poi tutto sparì nei meandri della rete, tant'è che io stesso per recuperarla dovetti improvvisarmi il maghetto digitale che non sono né mai sarò. Dunque mi permetto ora di riproporla pubblicamente, per amore di divulgazione del suo contenuto, che pure mi sono autolegittimato a "ritoccare" un po' nella resa italianistica. Tutta deformazione professionale, si dirà. Ma davvero si tratta di un documento troppo prezioso per lasciarlo smarrito tra le anonime cifre binarie della rete digitale. Sulla quale si trovano pure altri importanti documenti sul signor Hirasawa, articoli blasonati dal taglio internazionale che magari riporterò in calce all'intervista che segue. A mio dire la più significativa di tutte. - gc

 

"Quali sono stati i Suoi primi contatti con l'Italia?"

Sono nato nella Prefettura di Nagano, in Giappone, nell'anno 1946. Da molto giovane ho lavorato presso vari ristoranti giapponesi a Tokyo e in altri posti, facendo pratica di cucina. L'incontro con un famoso professore, Tsuji Shizuo, ha cambiato la mia vita. Il prof. Tsuji era il fondatore della Scuola di Cucina Tsuji di Osaka, all'epoca l'autorità assoluta nel mondo della cucina in Giappone. Era un pioniere che aveva studiato la cucina francese in Francia e conosceva bene anche la cucina italiana. Così, per una coincidenza, ebbi l'occasione di approfondire in modo professionale la cucina giapponese presso la scuola Tsuji. Ogni tanto il prof. Tsuji, per esempio durante gli intervalli tra le lezioni, mi insegnava che cosa fosse il business, ecc. Al tempo erano gli Anni '70 (1970). Mi fece assaggiare il caffè espresso e le arance rosse di Sicilia nella presidenza della scuola. Mi meravigliai molto di quelle cose. Ormai sono passati più di trentacinque anni da quei momenti, e quello fu il mio primo incontro con l'Italia.

 

"Quale è stato il motivo per cui è venuto in Italia?"

Mentre studiavo cucina giapponese presso la Scuola Tsuji, il prof. Tsuji mi chiese: "Non vorresti andare in Italia, visto che a Roma c'è un ristorante giapponese?" Disse infatti che un ristorante giapponese, il Ristorante Tokyo a Piazza di Spagna, cercava un cuoco giapponese. Mentre sorbiva un espresso, mi disse: "La cucina italiana è una cucina magnifica. Quindi, ci vorrà molto tempo per far penetrare la cucina giapponese in Italia. Farla penetrare in Italia sarà tremendamente duro: non vorresti andarci? Non ci vorresti provare?" Nel 1972 arrivai al Ristorante Tokyo di Roma. A quel tempo un dollaro valeva 360yen. In Giappone non c'era nessuna informazione sull'Italia. Il titolare del Ristorante Tokyo mi disse che aveva avuto difficoltà perché, quando si era trasferito a Roma, in città non c'era alcun ristorante giapponese. Per cui aveva deciso di aprire il locale da solo verso l'anno 1962.

 
 

"Come andò il lavoro a Roma?"

Una volta arrivato al ristorante di Roma fu molto faticoso. Il titolare mi disse: "Sei un cuoco professionista! Devi preparare il sushi, devi preparare una cucina giapponese verace e buona!" Però, a dir la verità, trovai solo del riso per risotti italiani! Gli risposi: "È impossibile, non si può preparare il sushi con questo riso." Ma a quell'epoca, era impossibile importare riso dal Giappone a causa delle leggi vigenti. Gli dissi allora che sarebbe stato meglio produrre riso per sushi qui in Italia. Provammo quindi a produrre del riso giapponese qui. Abbiamo cominciato provando a produrre il "riso giapponese" a Vercelli. Consultando anche la Interriso, abbiamo fatto tutte le prove e gli sforzi chiedendo agli agricoltori locali di provare con del riso adatto per il sushi. Ma non andava bene. Il riso veniva portato in magazzino, ma diventava mangime per maiali. Si accumulava un monte di riso che non poteva essere usato per la cucina giapponese. Per il periodo di prova, il titolare pagava una garanzia agli agricoltori.

In quell'epoca non era possibile importare il riso giapponese, tuttavia riuscimmo a portare un po' di riso Koshi-Hikari, il miglior tipo di riso dal Nord Giappone (Niigata). Da questo, venne fuori lo Ita-Hikari, il primo riso giapponese prodotto in Italia. Si tratta di una parola creata con Ita da Italia e Hikari (Luce) da Koshi-Hikari. Penso fosse l'anno 1976. Il riso era già buono, ma lo migliorammo di volta in volta e, alla fine, introducendo del riso di Aomori (estremo nord del Giappone), il riso giapponese in Italia si perfezionò. Molto probabilmente fu perché la latitudine di Vercelli e quella di Aomori sono uguali, quindi c'è un ugual clima. C'erano voluti quasi tre anni per avere del soddisfacente riso per sushi.

Un'altra sfida fu la produzione delle le verdure. Non si può preparare la cucina giapponese se non si hanno le verdure adatte. Allora abbiamo fatto produrre le verdure giapponesi, come il gobo (bardana), il daikon, eccetera, presso una fattoria di Mentana in provincia di Roma. Ma la terra di quella zona è molto argillosa e quindi inadatta. Le radici di gobo si estendevano profondamente dentro la terra e bisognava usare un bulldozer per raccogliere il gobo, tagliando tutte le radici.

E poi, dovevamo produrre i prodotti alimentari necessari per la cucina giapponese, per esempio miso, tofu, nattou, umeboshi, himono (pesce secco), tsukemono (ortaggi in salamoia), kamaboko, eccetera. In quell'epoca non c'erano i negozi di queste cose. Allora abbiamo creato uno stabilimento di produzione di alimentari giapponesi in Via Salaria, a 25 km da Roma. Io seguivo questo stabilimento in prima persona. Tornando in Giappone, ho seguito una formazione intensiva per questi prodotti e ho portato dal Giappone all'Italia i macchinari per produrli. In Giappone, questi prodotti vengono preparati da produttori specializzati, quindi neppure un cuoco sapeva come si producessero. Credo che il titolare abbia fatto tanta fatica! E anche noi, ma abbiamo avuto delle preziose e belle esperienze. Adesso, questi prodotti tipici giapponesi vengono importati dal Giappone via Germania. Quindi non ci sono più problemi del genere.

In questo modo, al Ristorante Tokyo, potemmo cucinare tutti i piatti giapponesi, anche il nabe (pietanza cotta direttamente a tavola)! Per quanto riguarda i clienti del ristorante, venivano a mangiarci anche delle personalità italiane importanti. E poi, tanti gruppi giapponesi.

 

"Quando si è trasferito a Milano?"

Mi sono trasferito a Milano stabilmente nel 1984. Originariamente ero il responsabile di questo punto vendita di Milano, sin dalla sua apertura nel '77, ma prima ero molto occupato sia per il ristorante di Roma, sia per lo stabilimento dei prodotti alimentari, come ho detto, e non potevo seguire il locale milanese con calma. A quell'epoca c'erano solo cinque ristoranti giapponesi nel territorio italiano, due a Roma, due a Milano (Suntory ed Endo), e cosi via.

Questo locale di Milano aveva solo la licenza per la vendita "da asporto", che non ci permetteva di somministrare cibo all'interno del negozio. Venendo a Milano, avevo deciso che qui avrei preparato il sushi ad ogni costo. Ma ottenere la licenza di ristorazione era molto, molto difficile. Molto probabilmente è molto più difficile aprire un singolo ristorante in Italia che aprirne dieci in Giappone. In Giappone basta avere un cuoco con la licenza di cucina e realizzare tutte le attrezzature seguendo le indicazioni dell'ufficio sanitario locale. Poi ci vuole solo un giorno per l'apertura. Invece a Milano ho avuto grande difficoltà per la richiesta della licenza. Tuttavia, verso l'89 ho finalmente aperto questo piccolo ristorantino. 

 

"Come sono andate le cose dopo l'apertura del ristorantino?"

Sì, ero riuscito ad aprirlo, ma in realtà nel primo periodo avevamo solo clienti giapponesi. Grazie ai businessmen giapponesi degli uffici di Milano, oppure ai buyer giapponesi che vengono dal Giappone, siamo riusciti a mantenere il locale in vita. A questo punto, anche per farci conoscere, sono andato in macchina fino a Genova, Firenze, Venezia, Bologna, per fare vendita a domicilio, chiedendo solo i costi dei materiali, senza pretendere pagamento di prestazioni. Ho portato anche una bancarella ambulante presso dei ristoranti, oppure presso famiglie private. Il 70% delle vendite era di tenpura e yakitori, mentre il restante 30% era di pesce crudo, come sushi e sashimi. Provando e gustando queste cose, tante persone mangiavano dicendo: "Buonissimo". Rimanevo aperto anche le domeniche: ho fatto tutti questi servizi da solo.


 

"Quali erano le reazioni degli italiani?"

In quell’epoca, in Italia a mangiare la cucina giapponese e il sushi erano solo le persone che conoscevano il Giappone e la cultura giapponese. Una volta al ristorante venne una coppia, e quando il marito voleva mangiare sushi la moglie si arrabbiò molto dicendo: "Se mangia pesce crudo, mio marito morirà!". Quando chiesi a un mio amico italiano come mai si comportassero così, mi spaventai perché la risposta fu: "È del tutto normale, perché se si mangia pesce crudo, le spine del pesce si conficcano in gola". Capii che tanti italiani immaginavano che si dovesse mangiare il pesce intero! Come se un gatto mangiasse un pesce per intero!

Tuttavia, quella coppia venne di nuovo da me. Gli volevo far provare la mia cucina! Gli feci provare il mio sushi, e mi dissero: "Ottimo!" Quando mi chiesero: "Quanto dobbiamo?", io risposi che non mi dovevano nulla. Con le persone che provano il sushi per la prima volta, io molto spesso faccio in questo modo. Non sono venuto in Italia per fare business. Sono venuto in Italia perché il mio prof. Tsuji mi chiese: “Non vorresti provare?”. Ho voluto provare perché mi disse: "In Italia c’è la magnifica cucina italiana, quindi sarà molto, molto faticoso diffondervi la cucina giapponese". Allora sono venuto in Italia perché volevo raccogliere questa sfida in prima persona. Anche adesso, alle persone che assaggiano la cucina giapponese per la prima volta, faccio provare offrendogli del sushi di dimensione più piccola. Non gli consiglio mai di mangiare per forza. Meglio provare con calma, con molta calma. Si tratta di pesce crudo. Un po’ per volta. Per la prima volta, solo un assaggio. Dopo dieci volte, si può gustare per bene. Non è possibile amare il sushi dalla prima volta.


"Negli ultimi vent'anni, ha visto del cambiamento?"

È tutto cambiato molto. Gli italiani che capiscono il sushi sono molto aumentati. Una volta c’erano persone a cui bastava riempirsi la pancia. Mi chiedevano del sushi più grande! Ma quando gli dicevo: "No, perché di questa grandezza non sarebbe più sushi!", loro rispondevano: "Non importa, tanto a pagare siamo noi!"

Comunque, una volta preparavo del sushi di dimensioni piuttosto grandi, con pezzi più grandi e con riso più abbondante. Altrimenti non si riusciva a soddisfare lo stomaco degli italiani. Ma in questo modo, il profitto del ristorante calava perché bisognava servire molto pesce, e di conseguenza il costo del materiale aumentava.

In Giappone invece i pezzi di sushi sono più piccoli. In alcuni casi, si compra il sushi come spuntino, con il sake. Tuttavia anche in Italia adesso viene ricercato sushi più piccolo rispetto a una volta. Trovo che gli italiani capiscano bene il gusto del pesce crudo.

 

"Come si procura il pesce?"

Compro il pesce a mercati generali di Milano. Frequento il mercato dal 1977. Ogni mattina vado al mercato verso le 5:30. Prendo pesce proveniente da vari posti. Anche da Ragusa, dalla Sicilia e dalla Sardegna, oppure anche dal mare più vicino. Oppure dal Senegal, dalla Spagna. I grossi tonni dalla Spagna, anche i calamari, i polpi dalla Spagna. Per quanto riguarda la varietà di pesce, non c’è limite ai desideri. Adesso sono abbastanza contento rispetto ad una volta.

 

"Perché Lei tiene così tanto fortemente al sushi?"

Al mio ristorantino, la specialità è il sushi. Francamente qui vorrei offrire solo sushi, ma ci sono altri menù disponibili perché ci sono persone che non riescono a mangiare il pesce crudo. Come giapponese, vorrei comunicare quanto è buono il gusto del pesce. Dal punto di vista degli affari, sarebbe più conveniente usare il pesce piccolo, che costa meno. Ai mercati giapponesi, il pesce costa più caro di prima mattina, mentre poi ci sono tante offerte di pesce che costa poco. Ma penso che sia di fondamentale importanza usare pesce di buona qualità e preservare questa pietanza.


 "Cosa pensa del recente fenomeno di boom di ristoranti giapponesi e sushi bar in Italia?"

La cucina giapponese è una cucina fatta di salute. Su questo punto non dobbiamo sbagliare a nessun costo. La cucina salubre è il fondamento della cucina giapponese. Ma tutti quanti gestiscono i ristoranti per fare affari. In un simile ambiente non sarà facile mantenere il gusto verace della cucina giapponese. Il problema più grave sono i cuochi. Per i cuochi giapponesi che vogliono venire in Italia. è molto, molto difficile ottenere il visto di lavoro. Di conseguenza, senza cuochi giapponesi, non sarà possibile proteggere il sapore verace dei ristoranti giapponesi.

Per quanto riguarda i ristoranti giapponesi gestiti da italiani, esprimono fenomeni uguali ai ristoranti italiani in Giappone gestiti da giapponesi. Quindi mi chiedo se possa dirne o meno qualcosa. Ma come potrei valutarli? Una cosa che potrei dire è che non mi sembra ragionevole pensare di aprire dei ristoranti giapponesi perché rendono bene in quanto il costo netto per il pesce crudo di qualità è molto elevato. Rispetto ai ristoranti specializzati in sushi, i ristoranti di cucina giapponese generalista godono di un elevato livello di profitto in quanto è possibile utilizzare anche pesce per la cottura alla griglia, oppure i brodi e le verdure che a paragone costano molto meno.

 

"Infine, Lei che cosa pensa della cucina italiana?"

Secondo me, anche la cucina italiana si trova in una fase di cambiamento. La cucina italiana stessa sta prendendo qualcosa di nuovo. Non riscopre soltanto dalla generazione dei nonni, ma introduce anche elementi nuovi. Attualmente i ristoranti italiani assorbono l’impatto diretto e indiretto della cucina giapponese e usano anche la salsa di soya come ingrediente segreto. Utilizzano anche il nori (alga marina), oppure il gari (zenzero sottaceto). Il famoso cuoco Gualtiero Marchesi ogni tanto veniva al mio ristorantino. Anche adesso vari titolari di ristoranti italiani frequentano il mio locale. Vedo una piccola giapponesizzazione della cucina italiana, di cui il Prof. Tsuji diceva "sarà molto duro penetrarvi". Sia negli ingredienti, sia nel modo di servire i piatti, sia nelle salsa con parti di soya, oppure nei condimenti.

*  *  *

In addendum, non come fonti di questo testo, ma come riferimenti ulteriori, si propongono i seguenti link:

Articolo in inglese su thejapantimes dedicato al signor Hirasawa Minoru
Articolo in inglese su JETRO dedicato al Poporoya di Milano

Enjoy! :-)

4 commenti:

  1. Dai, appena finisce questo calvario del virus ci andiamo. :)

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  2. Non sai quanti "pranzi offerti" ho accumulato da Milano a Napoli durante le farie fasi dei vari lockdown. Tra pizze veraci e sushi genuino (amo entrambi!) dovrò rimettermi a dieta! :-)

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  3. Benvenuto sul blog Shito! È un piacere avere tra i nostri un articolo scritto da te :) e spero ancora molti altri ahah

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