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domenica 13 agosto 2023

Dogville: Recensione



Dogville è un film del 2003 diretto da Lars Von Trier, un regista di cui avevo già sentito parlare ma che non ho mai mai approcciato per puro disinteresse. Detto questo, di recente ho chiesto a un'amica esperta di cinema di consigliarmi un film, e  uno soltanto: considerando il suo bagaglio conoscitivo, tra un'infinità di titoli che ha visionato, ha scelto proprio questo. La sua scelta, dato che lo sto recensendo, direi che è stata azzeccata. Nonostante nel film appaiano attori americani e il regista nonché sceneggiatore e soggettista sia danese, di fatto Dogville è un film tedesco nella sostanza, tant'è che assomiglia a certe pièce teatrali di Bertolt Brecht. Non è un film breve (dura quasi tre ore) e lo sconsiglio alle anime belle a causa della sua "violenza filosofica" (e in ciò si avvicina molto ai manga di Mohiro Kitoh, che guardacaso è giapponese). In questo post ne stendo una breve analisi. 

sabato 15 luglio 2023

Das Boot: Recensione




Un amico mi ha consigliato di vedere questo film. All'inizio ero scettico, dato che non mi piacciono i film sulla guerra, ma poi mi sono ricreduto. Das Boot, oltre a essere uno dei migliori film tedeschi mai girati, è in primis un'opera sugli esseri umani, un qualcosa di involontariamente filosofico. Tratto da una storia vera, Das Boot narra le vicende di un equipaggio di sommergibilisti della Kriegsmarine nazista mandato in missione dai potenti di Berlino in quel frangente della WW2 in cui gli inglesi avevano sviluppato il sonar e decifrato il codice enigma (la codifica criptata che i tedeschi utilizzavano per comunicare la posizione degli U-boot). Ben lungi dai soliti cliché Hollywoodiani, in cui i nazisti sono sempre cattivi e sadici perché sì, in Das Boot vediamo semplicemente ragazzini strappati alle loro madri e padri di famiglia mandati al macello in un Atlantico pieno zeppo di cacciatorpediniere e pattugliato dalla RAF. La parola d'ordine del film è "realismo", sia psicologico che visivo: il set è una riproduzione esatta dell'U-boot 96, le scene sono state girate con la consulenza di veterani di guerra della Kriegsmarine. Nonostante la sceneggiatura serrata che fa rimanere incollati allo schermo dall'inizio alla fine, Das Boot è la negazione dell'intrattenimento: non è stato girato per divertire o far passare il tempo, ma per far riflettere su cosa veramente sia la guerra. 

martedì 18 gennaio 2022

Masculin, Féminin (Maschile, Femminile): Recensione

Regia: Jean-Luc Godard
 Soggetto:  Basato sui racconti La Femme de Paul e Le Signe di Guy de Maupassant
Sceneggiatura: Jean-Luc Godard
Musiche: Jean-Jacques Debout
Anno di uscita: 1966
 
 

Devo ammettere che Masculin, Féminin di Godard mi ha molto colpito per la sua lucidità sociologica (lo potrei tranquillamente inserire tra i miei dieci film preferiti, sia per la sua estetica impeccabile che per i contenuti a me cari). Liquidato dalla critica del nostro paese perlopiù come un "film su come la gioventù dei late 60's francese praticava il sesso", etichetta risibile quasi quanto l'adattamento italiano del titolo (Il Maschio e la Femmina, scelta compiuta al fine di sessualizzare indebitamente l'opera), esso è in realtà una fotografia in bianco e nero della postmodernità nella Parigi pre-sessantottina. Essendo una nouvelle vague frammentaria e didascalica, la trama è ridotta allo scheletro: Paul, giovanotto comunista incapace di definirsi in un mondo molto confuso, si invaghisce di Madeleine, che lavora con lui nella redazione di una rivista giovanile. La ragazza, così come le sue amiche, è più interessata al consumismo americanizzato dilagante che ad una relazione sentimentale, e infatti si mette insieme a Paul quasi apaticamente, dando la priorità alla sua carriera discografica. La gravidanza lascerà indifferente lei e farà impazzire lui, che pur essendo fissato col socialismo e  critico verso l'utilizzo degli anticoncezionali importati dagli States, si dimostrerà troppo immaturo per affrontare l'idea della paternità. Paul cadrà poi misteriosamente dal balcone di una casa comprata con i soldi della madre senza che venga specificato se si sia trattato di suicidio o meno. Chiudono il film l'impassibilità di Madeleine e della sua amica di fronte all'evento. Nel sottotitolo di uno dei capitoli dell'opera, appare l'asserzione: Questo film potrebbe intitolarsi "I figli di Marx e della Coca-Cola"

sabato 13 novembre 2021

La nostalgia del futuro: Vaporwave e City Pop

"Tutti quei colori caldi, estivi, come quelli di Kimagure Orange Road e Sailor Moon, sono parte di me" - MikiMoz

 

Penso che la nostalgia sia una cosa tutta umana: si vive quasi sempre nella mancanza di qualcosa, perché si nasce come piccoli animali incompleti in perenne conflitto con lo scorrere del tempo. Questo, dopotutto, è uno dei principali crucci dell'umanità sin da quando si disegnavano idoli nelle caverne, o ci si inchinava con una falce in mano a mietere il raccolto seguendo le fasi lunari. Il presente è lì: è ciò che stiamo vivendo, ma immediatamente è già diventato passato. Della sua importanza, uno se ne accorge soltanto a posteriori, perché sul momento, nell'attimo fuggente, lo si dà per scontato. Il futuro invece, la cosa più vicina al presente, era tutto da scoprire, e se faceva paura, c'erano delle soluzioni per credere nella sua buona riuscita (mi vengono in mente i rituali propiziatori, certi aspetti delle religioni, l'astrologia e quant'altro).  Quando vidi per la prima volta il Ghost in the Shell di Oshii Mamoru, rimasi impressionato da una scena in particolare: una persona aveva dei ricordi che non le appartenevano. Passando poi a UruseiYatsura, che visionai successivamente, il protagonista era bloccato in un'eterna estate: l'estate della sua giovinezza, un'estate dai colori accesi: ma questa volta il futuro non esisteva proprio. La poetica del regista, così come quella di altre numerose opere simili alle sue, sia cinematografiche che letterarie, sono fotografie della fenomenologia di un'epoca, del nostro (eterno) presente. Qualcuno parlava di "Fine della Storia", qualcun altro di "fine delle grandi narrazioni", qualcun altro ancora di "morte di Dio". Ma questa volta non voglio dilungarmi in tecnicismi sociologici, ma fornire degli spunti di riflessione molto personali. 

mercoledì 29 settembre 2021

serial experiments lain: Recensione 2.0

 Titolo originale: serial experiments lain
Regia: Nakamura Ryutaro
Soggetto: Production 2nd (ABe Yoshitoshi, Ueda Yasuyuki)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: ABe Yoshitoshi (originale),  Kishida Takahiro
Musiche: Nakaido Reiichi
Studio: Triangle Staff
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 1998
 


Siamo negli anni novanta. Internet era agli albori e ShinSeiki Evangelion era diventato in breve tempo un fenomeno di massa. Da lì in poi ebbe inizio la NAS, la "nuova animazione seriale" da fascia notturna, un trend di anime cupi e maturi che si esaurì dopo qualche anno in preda al suo stesso manierismo. Dato che l'opera di Anno era stata a suo modo sperimentale, TV Tokyo, la piccola emittente televisiva che la mandò in onda, era aperta a trasmettere anche serie televisive tra le più allucinate. Forte di tutto questo contesto, il produttore Ueda Yasuyuki aveva in mente di fare un mediamix (videogioco, anime e cd) con tutte le cose che gli piacevano: una ragazzina misteriosa talmente carina/moeru che lo spettatore si sarebbe dovuto innamorare; un attacco al sistema consumistico americano (asserzione che fa un po' ridere dato che la sigla dell'anime è in inglese e l'opera essa stessa è un prodotto di consumo); del cyberpunk marcio à la William Gibson con tanto di suggestioni musicali new wave. Con le idee ben chiare in testa, Ueda conobbe in una chat su internet ABe Yoshitoshi, che gli disegnò la ragazzina dei suoi sogni incontrando immediatamente il suo apprezzamento (la fissazione di Ueda con Lain puzza molto di lolicon). I due battezzarono il proprio sodalizio in Production 2nd e andarono quindi a caccia di uno sceneggiatore e di un regista, forti dello spazio concesso da TV Tokyo e dai finanziamenti della Pioneer. Ueda era (ed è ancora credo) un punk mezzo otaku, ABe un ragazzo introverso e intellettuale, che in futuro creerà in autonomia capolavori esistenzialistici come Haibane Renmei. Per i due non fu difficile tirare dentro Chiaki J. Konaka, uno sceneggiatore Horror/Sci-Fi reduce di qualche OVA anni ottanta (tipo Bubblegum Crisis 2040 ). Egli infatti era un otaku della stessa generazione di Anno, completamente assorbito dalle sue conoscenze esoteriche, psicologiche, dalle sue bambole artigianali (un altro lolicon), da Lovercraft e dai Tokusatsu come Ultraman (dopo serial experiments lain, che si scrive tutto minuscolo, non a caso Konaka diventerà lo sceneggiatore di punta della NAS). Dopodiché, quando Ueda andò al Triangle Staff per stabilire chi avrebbe dovuto gestire regia e animazioni, incontrò il veterano Nakamura Ryutaro, che aveva lavorato per tre anni come key animator alle dipendenze del leggendario Dezaki Osamu (in particolare in Takarajima, Ashita no Joe 2 e Cobra ). Nakamura, che purtroppo ora è passato a miglior vita, era il più anziano del gruppo ed era già sposato con due figli, mentre gli altri tre erano single. Inquadrate pertanto le personalità dei quattro creatori, una volta formato questo dream team che l'animazione di oggi si sognerebbe, nacque appunto serial experiments lain, uno dei capisaldi del cyberpunk animato giapponese. Già il titolo è tutto un programma: l'opera è strettamente di nicchia, sperimentale, cupa, intrisa di tutto il disagio del suo tempo. Quel "PRESENT DAY, PRESENT TIME!" scandito da una voce psicopatica che ride da sola, parla per un Giappone in piena crisi d'identità e succube  di una nuova forma di occidentalizzazione forzata: quella legata al nascente dominio tecno-informatico sulla vita umana e le relazioni sociali, una delle tante cose che anche noi abbiamo importato dagli USA.  

lunedì 31 maggio 2021

Le pseudo narrazioni: osservazioni di un lettore

Devo ammettere che il post sulla definizione di pseudonarrazione ha generato un certo dibattito tra i lettori. In particolare un certo Seele94 penso che abbia donato al blog un commento molto onesto e lucido che riporto qui per dargli maggiore visibilità:

 

«Credo che diventare adulti senza aver avuto la possibilità di vivere una vita affettiva e sentimentale decente, comporti tutta una serie di difficoltà e di problematiche. Come si manifestano tali problematiche? Difficile dirlo, visto che ogni persona reagisce diversamente dinnanzi al medesimo dolore, alla medesima mancanza. Arrivare a 30-40 anni suonati con ancora l'idea in testa della donna angelo, della relazione adolescenziale turbolenta e coinvolgente, della coppia tanto affiatata quanto affamata di felicità, secondo me non è altro che un meccanismo inconscio atto a mettere una pezza su quella che fino a quel momento è stata una vita non vissuta, fatta di storielle sentimentali assenti o molto precarie: una non vita, fondamentalmente. La verità è che se non si ha avuto la possibilità di diventare adulti tramite un percorso funzionale, ci si arriverà in modo "sbagliato", con tutte le problematiche e i disagi che esso comporta. Giunti a 30 anni in tale modo, riuscendo a mettere pezze più o meno grandi alle proprie lacune, ci si ritrova ad avere (generalmente parlando) una posizione socio-economica consolidata, e si è finalmente appetibili dopo anni di invisibilità. Quello che, tuttavia, si può raccogliere ora è ben diverso da quello che si poteva raccogliere qualche anno prima, quando la gente si avvicinava a te mossa da un genuino interesse verso la tua persona, piuttosto che da motivazioni di tipo convenzionale. Ciò che si può raccogliere in questo tipo di scenario diventa così tanto misero, che la pseudonarrazione funge da escapismo; un modo come un altro per tirare avanti ignorando quella che è una realtà, per molti, inaccettabile o troppo dolorosa.» [Seele94] 


Dopo un po' di tempo, il lettore mi ha informato di aver scritto un articolo derivante dalle (sue) riflessioni maturate durante la lettura del mio post. Tale scritto lo potete reperire qui, sul suo blog personale, e dato che potrebbe fornire spunti di riflessione interessanti, con la sua autorizzazione lo riporto per intero a seguire.

venerdì 14 maggio 2021

L'insostenibile potenza delle "pseudonarrazioni"

Per Lyotard, nella sua concezione storiografica, la metanarrazione era una "grande narrazione" del passato, come potevano essere illuminismo e socialismo. Una volta arrivata la postmodernità, ossia l'assetto sociale contemporaneo, le metanarrazioni per come intendeva Lyotard sono state abbandonate. Nel postmodernismo infatti viene meno la pretesa propria dell'epoca moderna di fondare un unico senso del mondo partendo da principi metafisici, ideologici o religiosi, e si ha quindi la conseguente apertura verso la precarietà di ogni sensoNella nostra epoca non esistono quindi più le "grandi narrazioni" o "metanarrazioni" del passato. Esistono tuttavia delle narrazioni mutuate dai prodotti di intrattenimento, che sono l'imprinting principale a cui tutti noi consumatori siamo soggetti. Per differenziare questo tipo di narrazioni simulacro da ciò che Lyotard chiamava "piccole narrazioni", e per evitare confusione col termine storiografico di "metanarrazione", le chiamerò, come suggerito dall'amico G. Cannarsi, "pseudonarrazioni" (il prefisso "pseudo" rende l'idea di un qualcosa di fittizio).  Ciò detto, a parer mio, il termine "piccola narrazione" è impreciso. Infatti il suffisso "pseudo" mi serve per rendere l'idea di una narrazione nata puramente nella finzione, o quantomeno da una pseudo-società quasi ormai caricaturale o teatrale (nel senso di simulacro di esistenze/solitudini individuali, come intendeva Pirandello). Una "piccola narrazione", a mio modo di vedere le cose, è una "grande narrazione" in scala, come ad esempio la storia di Ashita no Joe, che è una credibile rivalsa sociale in un'epoca di malessere e povertà diffusa come il dopoguerra giapponese. Fatte tutte queste premesse, la narrazione simulacro o pseudonarrazione, molto più tiepida delle grandi ideologie del passato,  è una sorta di imprinting: ad esempio, se si passa l'adolescenza a guardare molto intensamente shoujo anime, inevitabilmente, una volta arrivato l'amore nel mondo reale, si cercherà di elaborarlo secondo la pseudonarrazione shoujo assimilata in precedenza (Shoujo Kakumei Utena, con il Principe Azzurro Dios e il suo oscuro corrispettivo Akio, tanto per dire, si prende un po' gioco di questa cosa). Parlo di imprinting perché, nella maggior parte dei casi, la pseudonarrazione appartiene alla sfera infantile, e questo è palese quando si va a considerare il fenomeno otaku (che è l'avanguardia di quanto sta succedendo oggi in occidente: la dipendenza dalla finzione è ormai mainstream). 

domenica 28 marzo 2021

L'origine del male: riflessioni libere


Rivedere G Gundam mi ha fatto molto piacere. Ma dico sul serio. E no, non è soltanto Street Fighter con i robottoni: quelle erano scelte di marketing imposte ad un regista tanto intellettuale quanto nostalgico. La recensione che scrissi anni fa non mi va neanche di cambiarla: non mi va di cancellare o modificare quanto produssi, soprattutto nel punto in cui scrivevo tutto entusiasta dell'Allenby in versione fatina che rinunciava al suo amore per Domon, dato che c'era Rain a dover essere – letteralmente – salvata.  Ci rimasi male, perché in fondo Allenby mi piaceva molto, ma era giusto così. 

La riflessione che voglio qui esprimere è da dove provenga il male, o quantomeno cercare di definirlo. Perché il Devil Gundam, che è la stessa cosa del Lavos di Chrono Trigger, virus che infettava il mondo nella sua intima struttura spazio-temporale, o del Deus di Xenogears, arma di distruzione di massa organica senziente, mi ha dato molto da riflettere.  I protagonisti di G Gundam, Domon e Rain, partono come se fossero già praticamente marito e moglie, ma poi arrivano un "virus" (il suddetto Devil Gundam) e una rivale in amore (Allenby) a creare disordine. L'unità viene quindi spezzata, ma poi, mediante coscienza e sacrificio, il virus debellato e il nucleo familiare infine riunito. Questa struttura è molto comune nella tragedia: l'elemento di disturbo indubbiamente è il male, perché minaccia l'ordine e l'armonia delle cose, la cui sintesi suprema è l'unione (vuoi spirituale, vuoi tra uomo e donna, vuoi nel gruppo). Se non fosse esistito il male, non ci sarebbe stato alcun concetto di risoluzione, né alcun concetto di "rafforzamento" (volendo si potrebbe anche parlare di "senso"). Gli antichi Kabbalisti ebraici raffiguravano questa cosa con la rottura di un vaso primordiale dal quale ebbe origine l'universo. Ma in fondo, anche il mito dell'Eden era così: unità primigenia e dopodiché dissoluzione causata da un elemento di disturbo (in questo caso il frutto della conoscenza del bene e del male). E volendo risoluzione (a volontà dell'individuo/credente/praticante o che dir si voglia). Ovviamente, se non vi è alcuna volontà (la mancanza di volontà è una cosa tipica dell'apatia dell'epoca moderna, che è priva di vere finalità a parte il consumo reanimalizzato), non vi può neanche essere alcuna risoluzione. E da qui abbiamo l'esistenzialismo, ossia la "narrazione dell'irrisoluzione" delle vite moderne. In pratica delle tragedie a metà, come molte dinamiche sociali/affettive dell'oggidì (vorrei dire la maggior parte, ma non ho dati statistici alla mano). Fatta questa premessa, procediamo provando a classificare i vari tipi di "male".

mercoledì 24 marzo 2021

DEADMAN: Recensione (by AkiraSakura & Shito)

 Titolo originale: DEADMAN
Autore: Egawa Tatsuya
Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: Dynamic Italia
Volumi totali: 6
Anni di uscita: 1998~2000 (JP), 1999~2003 (IT)

 

«Lo scorrere di un fiume non si arresta mai... e per questo... non è mai uguale a se stesso.
Nell'acqua che ristagna... la schiuma può unirsi ad altra schiuma... ma non resta mai ferma a lungo.
Gli uomini e il dolore che affligge il mondo... non mutano mai.
»

Dopo una laurea ottenuta presso l'antica e prestigiosa università nazionale di educazione di Aichi (una sorta di Scuola Normale), Egawa Tatsuya decide di abbandonate la carriera di insegnante e di dedicarsi al fumetto, diventando un mangaka. Per un brillante giovane giapponese, nato nel 1961, si trattava di una scelta a dir poco controcorrente, considerata l'assai conformistica società della sua patria, soprattutto ai tempi, ma forse – come capirà al volo chi conosce la sua opera – il già intellettuale Egawa aveva in mente una forma di educazione più anticonvenzionale, se non rivoluzionaria. Nelle sue opere, infatti, mai scevre di una esplicita componente erotica, si direbbe ai limiti della pornografia, eppure del tutto assente di quella nota di voyeurismo ozioso che ne è tipico, l'autore innanzitutto critica con feroce intelligenza proprio il sistema educazionale giapponese: debutta con BE FREE!, l'antesignano del più noto, ma ben più frivolo e pecoreccio GTO, e in seguito, raggiunge grande notorietà con GOLDEN BOY, che non è affatto una mera commedia dai toni erotico-demenziali, come lascerebbe pensare la trasposizione animata. Divenuto ormai una contrastata personalità televisiva da salotti intellettuali, Egawa continua a condurre la sua critica del sistema scolastico giapponese, spingendola verso la svalutazione della formazione universitaria e della società nipponica essa tutta. Giunti negli Anni Novanta, sarà poi il turno anche di DEADMAN, che in effetti non è neanche più un manga vero e proprio, quanto una sorta di saggio di misticismo e filosofia politica travestito da storia gotica di vampiri. Dal punto di vista narrativo, DEADMAN è infatti organizzato (e disegnato) pressoché come una mera serie di dialoghi e racconti tra i personaggi, tanto da far pensare alla forma di trattato filosofico tanto amata da Platone, solo con l'aggiunta dei disegni: si tratta di una vera destrutturazione del medium narrativo chiamato "manga". 

martedì 7 luglio 2020

OFF: Recensione

Sviluppatore: Mortis Ghost (Martin Georis)
Piattaforma: PC (Rpg Maker 2003)
Character Design: Mortis Ghost
 Musica: Alias Conrad Coldwood
  Durata: 4 ore di gioco circa
     Anno di uscita: 2007


OFF, insieme a Yume Nikki, è uno dei videogiochi amatoriali più "strani" e "famosi" mai creati da un singolo individuo utilizzando Rpg Maker 2003. Allo stesso modo di Yume Nikki, OFF, pur essendo sviluppato da un ragazzo belga, ne condivide il mood estremamente cupo e malato: OFF è una vera e propria odissea nel mal di vivere contemporaneo. 
Dotato di un fandom molto ristretto e underground, nel quale figura altresì Toby Fox, il creatore del ben più famoso Undertale (il quale è palesemente ispirato a OFF), il gioco si presta a più livelli di lettura, il cui denominatore comune è certamente il nichilismo e il senso di vuoto che ne deriva. 
Se Yume Nikki era una rappresentazione di solitudine e violenza interiore, OFF, la cui (non)narrazione si contorce su famiglia nucleare e società dei consumi, portando di fatto al nulla (come dice il titolo stesso del gioco: la switch OFF che spegne ogni cosa, ogni ideale, la stessa vita), sebbene sia anch'esso a suo modo incentrato sul tema della solitudine, è molto più filosofico in senso lato. Il protagonista è "Il battitore", un giocatore di Baseball (!) con la sacra missione (a suo dire) di purificare il mondo, ed è aiutato dai suoi tre add-ons Alpha, Omega e Epsilon, i quali rimandano alla trinità divina Cristiana. Il mondo in questione è infantile (infatti una delle interpretazioni del gioco è che il suo enviroment sia il prodotto della fantasia di un bambino), ma allo stesso tempo alienante, in cui degli impiegati denominati "Elsens", contrariamente al battitore, sono deboli e privi di ideali, e si fanno esplodere la testa a furia di fare lavori monotoni che riguardano numeri, produzione di zucchero (che nel gioco è un vero e proprio elemento naturale, assieme ad esempio alla plastica e al metallo, materie prime dei prodotti di consumo) e così via.

lunedì 5 agosto 2019

Gosenzosama Banbanzai: Recensione per l'anniversario.

Titolo originale: Gosenzosama Banbanzai
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Mamoru Oshii
Character Design: Satoru Utsunomiya
Musiche: Kenji Kawai
Studio: Pierrot
Formato: serie OAV da 6 episodi
Anno: 1989 

Premessa: salve a tutti sono onizuka90, l'amministratore scomparso da tempo immemore, è tantissimo che non scrivo nulla di nuovo sul blog ma ho deciso di tornare per dare un tributo a Gosenzosama Banbanzai, una serie di cui non si parla mai ma che merita l'attenzione degli appassionati, perciò... ecco a voi la recensione su una delle opere più particolari di Oshii! 




Le persone tipicamente dedicano la propria vita alla finzione.

Agosto 1989, il “paese del sol levante” vede sorgere una nuova opera dal genio di Mamoru Oshii, si tratta di Gosenzosama Banbanzai (letteralmente “Lunga lunga vita agli Antenati”), una miniserie composta da sei OAV e partorita in sinergia con Kenji Kawai; il quale successivamente diventerà uno stretto collaboratore del Maestro, curando la colonna sonora di tutti i suoi lavori. 
“Gosenzosama Banbanzai” incarna in modo esemplare il caso di quelle serie animate rimaste ignote al mondo e il cui nome è presto svanito dalle scene, obliato nei meandri del tempo, per rimanere ad appannaggio di pochissimi e fedeli fan. L’occorrenza del suo anniversario, che cade oggi 5 agosto, pare pertanto l’occasione più appropriata per donargli un piccolo tributo, così da far brillare ancora una volta tale inestimabile gemma dell’animazione nipponica, nella speranza di farla riscoprire destando la curiosità di qualche nuovo appassionato, o di far scendere una lacrima di nostalgia a chi già ha potuto goderne la visione.

domenica 21 gennaio 2018

Ultra Heaven: Recensione

  Titolo originale: Ultra Heaven
 Autore: Keiichi Koike
  Tipologia: Seinen Manga   
Edizione italiana: D/Visual (interrotta al secondo volume)
 Volumi: 3 (in corso) 
Anno di inizio pubblicazione: 2001 


In un futuro non troppo lontano, in cui le droghe pesanti sono state liberalizzate, il tossico Kabu è alla ricerca di esperienze sempre più forti. Abituale consumatore di Peter Pan, una delle poche droghe proibite dall'ufficio igiene (una sorta di psicopolizia che "cura" i drogati più gravi ripulendogli il cervello), dopo l'ennesima crisi di astinenza l'antieroe incontra un misterioso pusher, che lo introduce ad un nuovo tipo di sostanza ancora più potente del Peter Pan: l'Ultra Heaven, che permette di andare direttamente in paradiso, esaudendo tutti i propri desideri.
Manga più unico che raro, l'estremo Ultra Heaven rappresenta quantomai bene i tempi in cui viviamo. Nell'opera di Koike, ogni struttura narrativa viene meno, a favore di un bad trip allucinogeno iperrealistico in cui del becero esoterismo new age (con tematiche cyberpunk annesse) si perde in un vortice di deliri metafisici, coadiuvati da trasformazioni velocissime del corpo scandite da una furia surrealistica senza appiglio alcuno, in cui reale e finzione si fondono e il senso del tempo va perdendosi in quel "nulla" che viene richiamato più volte nel corso della lettura. Stile di disegno e tematiche fanno il verso al ben più noto Akira di Katsuhiro Otomo, sopratutto nella tecnologia esasperata e negli ambienti urbani decadenti; ma anche nella ricerca della definizione di una pseudo-identità nell'ottica delle fluttuazioni dell'io indotte dalla mancanza di radici ideologiche e sociali, in un contesto in cui ciascuno mira soltanto al desiderio fugace, al piacere istantaneo; la definizione di una figura "divina" e lo studio del rapporto che gli uomini hanno con essa nel momento in cui si rivela un mero simulacro soggetto al relativismo (i.e., "la morte di Dio"). 

martedì 20 dicembre 2016

Texhnolyze: Recensione

 Titolo originale: Texhnolyze
Regia: Hiroshi Hamasaki
Soggetto: Production 2nd (Yoshitoshi ABe, Yasuyuki Ueda)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Yoshitoshi ABe (originale), Shigeo Akahori
Musiche: Reiichi Nakaido
Studio: Madhouse
Formato: serie televisiva di 22 episodi
Anno di trasmissione: 2003


«Dentro ogni persona vive un mostro che farebbe tremare dalla paura persino il suo ospite. Quelli che non furono in grado di sopprimere il proprio mostro furono esiliati in un purgatorio sotterraneo. Proprio lui nacque in quel purgatorio sotterraneo creato dall'uomo. Più di chiunque altro, ha amato e odiato il mostro dentro di lui. Assieme alla seconda madre, è giunto nel mondo di coloro che hanno esiliato la sua gente. Una volta arrivato lì, quel mondo e la sua gente stavano lentamente aspettando la loro morte. Il mondo in superficie era il mondo dei morti. Il genere umano, così come il mondo da lui creato, era ormai giunto al crepuscolo.»

E' un'insieme di sensazioni, “Texhnolyze”. Sensazioni dure, forti, viscerali. La morte del mondo, la perdita dell'umanità, lo smarrimento, la crescita e il ritrovamento di quanto perduto. Il nulla. Lo spirito. La materia. La carne, le lacrime e il sangue, che si fondono in un triste gioco di corrispondenze poetiche, malinconiche e allo stesso tempo feroci. Lo sguardo fisso di Ran, spettrale ragazzina che osserva impassibile il tutto, comunicando con la voce della città sotterranea, Lux, l'ultima roccaforte del genere umano, l'ultimo posto in cui l'umanità può ancora cercare un motivo per esistere, anche se ormai, all'infuori del dolore e della perdita, nulla le è più concesso. L'alternativa è il mondo dei morti, quello in superficie, in cui ogni cosa è sempre uguale a sé stessa, monotona, priva d'iniziativa, passione e desiderio. E' il mondo asettico dell'oggidì, con tutta la sua vuotezza spirituale? Oppure è l'estrema sintesi dell'umana condizione, una farsa che trova la sua dignità soltanto nell'elevarsi a tragedia? 

sabato 10 settembre 2016

Zettai Shounen: Recensione

Titolo originale: Zettai Shounen
Regia: Tomomi Mochizuki
Soggetto: Ajia-do, Genco, Kazunori Ito, Sogou Vision, Toys Works
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Character Design: Masayuki Sekine
Musiche: Hikaru Nanase
Studio: Ajia-do, Genco
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anno di trasmissione: 2005


«E’ dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, […] ma lagrime ancora e tripudi suoi. […] Noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena meraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nell’età matura, perchè in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima donde esso risuona.» [Giovanni Pascoli]

Ayumu Aizawa è un adolescente introverso, apatico e di poche parole, che durante l'estate si reca dal padre, che risiede in una piccola cittadina di campagna. Mentre vaga senza meta per le strade di un luogo privo di attrattive, egli incontra Miku, una bambina che parla e ragiona come un'adulta, la quale lo invita a cercagli il suo amico scomparso, Wakkun.
Per caso, in un giorno apparentemente noioso e ordinario come tanti altri, finalmente Ayumu incontra Wakkun, ma quest'ultimo, ben lungi dall'essere un bambino in carne ed ossa, si tratta di una sorta di Zashiki-warashi con gli stessi abiti e le stesse sembianze che Ayumu aveva in tenera età. Wakkun interagisce con alcuni strani yokai che paiono più degli UFO che delle creature del folklore giapponese, delle “fate materiali” le quali, all'occorrenza, da bizzarri oggetti meccanici luminosi si trasformano in bolle di energia che vagano per l'aria allo stesso modo del polline. Come se da questo incontro Ayumu avesse recuperato un frammento smarrito della sua anima, egli si reca assieme al sé stesso bambino a giocare nel bosco, ammirando la semplicità della natura e delle cose, senza pretesa alcuna. Ma dopo questo evento, in città incominciano a diffondersi voci indiscrete, secondo le quali dei kappa sono apparsi in un ambiente ormai violato dalla precarietà del misterioso e dell'inaccessibile. La giornalista Akira Sukawara, attratta da questo clima insolito, incomincia ad indagare sulle misteriose apparizioni, interagendo con gli asettici ritratti di una giovinezza svuotata e malinconica la quale, con la dovuta sofferenza interiore, sta muovendo i primi passi verso l'adultità. 

sabato 3 settembre 2016

Mushishi: Recensione

Titolo originale: Mushi-shi
Regia: Hiroshi Nagahama
Soggetto: Yuki Urushibara
Composizione della serie: Hiroshi Nagahama
Character Design: Yoshihiko Umakoshi
Musiche: Toshio Masuda
Studio: Artland
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 2005-2006


"Mushishi", serie animata del 2005 tratta dall'omonimo manga di Yuki Urushibara, può definirsi alla stregua dell'identità interiore di un Giappone ormai iper-modernizzato, ma che al contempo ha sempre gelosamente conservato quelle caratteristiche ancestrali che si concretizzano nel legame spirituale con la natura, nel rapporto con gli antenati e nella fedeltà alle proprie tradizioni. Anche nel vastissimo campo dell'animazione i modelli pratici di tutto ciò sono svariati – si pensi al capolavoro miyazakiano "La città incantata", riconosciuto a livello internazionale con il premio Oscar – e spesso si ritrovano nascosti e integrati persino all'interno di opere di tutt'altro genere o contesto. È per questo che ritengo "Mushishi" – che si fonda esclusivamente sulla magnificenza del folklore nipponico – una serie profondamente giapponese, tanto nella forma quanto nei contenuti; nell'estrema rarefazione dei modelli visivi e narrativi incontra e riporta alla luce l'identità culturale del Sol levante, sopita ma al contempo sempre viva e rimpianta.
In un vortice di emozioni, filosofia e padronanza del mezzo espressivo, "Mushishi" si impone così come una delle migliori serie animate degli anni Duemila.

giovedì 28 luglio 2016

Shinsekai Yori: Recensione

Titolo originale: Shinsekai Yori
Regia: Masashi Ishihama
 Soggetto: Yusuke Kishi
Sceneggiatura: Masashi Sogo
Character Design: Chikashi Kubota
 Musiche: Shigeo Komori
 Studio: A-1 Pictures
Formato: serie televisiva di 25 episodi
Anni di trasmissione: 2012 - 2013


«Non ti pare che veniamo trattati alla stregua del vasellame? Una volta che il forno viene aperto e la ceramica ispezionata, tutti i pezzi che presentano crepe o deformazioni sono destinati ad essere distrutti. Dato che tutto ciò che ci attendeva era il destino di una ceramica fracassata, abbiamo deciso di fuggire, nella speranza di trovare un futuro diverso.» [Dalla lettera di Maria a Saki]

Inevitabilmente, nel contesto della società giapponese, la “morte” dell'individuo avviene col suo ingresso nell'età adulta e nel mondo del lavoro. Ad una fanciullezza libera, spensierata e privilegiata, giunta una precisa scadenza, seguono una pressoché completa rinuncia alla propria identità personale e una totale dipendenza dal gruppo di appartenenza, il cui invadente sguardo s'insinua in tutti gli aspetti della vita del singolo, inclusi quelli più intimi e privati. Nell'adulto nipponico non è pertanto ammesso un “lato oscuro”: l'ombra va rimossa, e i tratti psicologici incompatibili con i dettami imposti dall'esterno devono essere soppressi, pena la totale esclusione dalla società. Gli individui che non si adeguano al sistema vengono considerati alla stregua del fango, isolati e demonizzati, in modo tale che la loro carica “sovversiva” non possa danneggiare un meccanismo costruito sulle fragili fondamenta del formalismo, dell'apparenza e, in primis, della vergogna. La vergogna di non essere all'altezza delle aspettative altrui; la vergogna di esternare le proprie emozioni; la vergogna che si prova nella gestione del rimosso psicologico, che rimane sempre in agguato nel subconscio, pronto a minare la coesione sociale del gruppo. Giusto per rendere l'idea della rigidità della società giapponese, in seguito all'arresto dell'otaku serial killer di bambine Tsutomu Miyazaki (1989), gli otaku che si recavano nei negozi per comprare o noleggiare videocassette contenenti cartoni animati, venivano schedati dalla polizia come se fossero dei potenziali criminali, anche se nei fatti erano innocenti ed innocui. Da questo esempio – una goccia nel mare – si deduce che, inevitabilmente, all'interno di un insieme di persone basato sulla totale dipendenza dal gruppo, la paura per il diverso e la paranoia diventano delle reazioni meccaniche immediate, che inevitabilmente portano a crudeli “cacce alle streghe” coadiuvate da misure repressive prive di giudizio, figlie di psicosi collettive ben mascherate da volti brillanti, puliti e sorridenti.
Dal canto suo, “Shinsekai Yori” (lett. “From the New World”, palese citazione all'omonima sinfonia di Dvořák, che fa da leit motiv all'intera opera), oltre ad interrogarsi sulla legittimità di una società del genere, va molto più a fondo, decostruendola e sezionandola mediante potenti strumenti allegorici. L'anime tratto dal corposo romanzo di Yusuke Kishi (grande successo di pubblico e critica in madrepatria), unisce geniali trovate grafiche e registiche ad un coacervo di riflessioni sulla natura umana, rivelandosi uno degli anime più meritevoli, innovativi e complessi recentemente creati.

sabato 23 luglio 2016

Hell Girl: Recensione

Titolo originale: Jigoku Shoujo
Regia: Takahiro Omori
Soggetto: Hiroshi Watanabe
Sceneggiatura: Kenichi Kanemaki
Character Design: Mariko Oka
Musiche: Yasuharu Takanashi, Hiromi Mizutani
Studio: Deen
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 2005-2006


«In questa pazzia, incertezza,
riusciremo a lasciare il ricordo delle nostre emozioni?
In questa pazzia, mi hai dato la vita,
come possiamo proteggere le nostre emozioni?
In questa pazzia, incertezza,
come possiamo proteggere noi stessi?»

Il filone della Nuova Animazione Seriale (1995-2006) ha prodotto innumerevoli anime sobri, adulti, intellettuali e dai significati profondi, nei quali venivano messe a nudo l'incertezza, la pazzia e la confusione caratteristiche del periodo in cui opere come “serial experiments lain” e “Paranoia Agent” vedevano luce. I valori tradizionali sui quali si fondava il Giappone in seguito alla crisi economica novantina erano venuti meno, e l'intera nazione era disorientata, nonché succube del vuoto interiore postmoderno, altro fattore che ne lacerava – e ne lacera tuttora – l'identità nazionale e culturale, nonché quella coesione sociale estrema e quanto mai emozionale – di difficile comprensione per un occidentale - sulla quale si basano i ferrei valori gerarchici insiti nello spirito giapponese.

«Questo mondo è governato dal destino.
Un filo che si avvolge intorno ad un fragile e inutile pregiudizio.
Rabbia, odio, rancore, dolore e sofferenza.
A mezzanotte ascolteremo la tua vendetta.»

In un turbinio di cattiveria, incomprensione ed egotismo – e pertanto odio, dacché non si può odiare senza identificarsi col proprio ego/soggetto -, in una società che sta perdendo di vista la sua ragion d'essere, alcune persone, giunta la mezzanotte, si collegano a internet al fine di contattare la Jigoku Tsūshin, ovvero la Corrispondenza per L'inferno. Di sovente in preda ad un miscuglio di ansia e terrore, in soggezione o in lacrime, i suddetti malcapitati, una volta inoltrata la richiesta, vedono apparire Enma Ai, una ragazzina dallo sguardo fisso e dai capelli lunghi e neri, che consegna loro una bambola di paglia attorno alla cui testa è legato un filo rosso come il sangue. 

sabato 16 luglio 2016

Patlabor 2 - The Movie: Recensione

Titolo originale: Kido Keisatsu Patlabor 2 - The Movie
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Kazunori Ito, Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Character Design: Akemi Takada, Masami Yuki
Mechanical Design: Yutaka Izubuchi, Shoji Kawamori, Hajime Katoki
Musiche: Kenji Kawai
Studio: Production I.G
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1993


«Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell'uomo saranno quelli stessi di casa sua.» [Dal Vangelo secondo Matteo, 10,32-11,5]

Il secondo film del celebre franchise di “Patlabor”, ideato e sviluppato dal gruppo HEADGEAR (composto da Mamoru Oshii, Kazunori Ito, Akemi Takeda, Yutaka Izubuchi e Masami Yuki), a scanso di equivoci, si tratta di uno dei più grandi capolavori del cinema di animazione di tutti i tempi. Il lungometraggio - un thriller politico intellettuale e filosofico dai molteplici livelli di lettura -, si trova completamente agli antipodi rispetto al mood leggero e scanzonato tipico dell'usuale universo animato di “Patlabor”. Con esso, oltre a nascere quella storica collaborazione tra Mamoru Oshii e Production I.G. che nel 1995 porterà all'epocale “Ghost in the Shell”, si conclude il sodalizio tra i cinque artisti dell'HEADGEAR, i quali, una volta lasciata carta bianca al loro talentuoso regista, donano alla storia un film splendido, inarrivabile, lento, complesso – a detta del critico cinematografico Tony Rains, “Patlabor 2” è il «primo, inequivocabile grande film» di Oshii -, elegante, sontuoso ed estremamente autorale. 

sabato 11 giugno 2016

Paranoia Agent: Recensione

Titolo originale: Mousou Dairinin
Regia: Satoshi Kon
Soggetto: Satoshi Kon
Sceneggiatura: Seishi Minakami
Character Design: Masashi Ando
Musiche: Susumu Hirasawa
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 2004


Nel dicembre del 2000 un diciassettenne di Tokyo, subito dopo aver litigato col padre, uscì di casa munito di mazza da baseball e aggredì otto passanti a Shibuya, in preda a un letale miscuglio di rabbia e frustrazione. Sulla base di questo fatto di cronaca, Satoshi Kon decise di creare la sua prima – e purtroppo ultima, causa prematura morte – serie televisiva, “Paranoia Agent”, il canto del cigno di quel cupo e psicologico filone della Nuova Animazione Seriale (NAS) introdotto da “Evangelion” a metà anni novanta, nel quale temi adulti come la critica alla società giapponese, l'alienazione giovanile, la perdita di riferimenti fissi indotta dalla postmodernità et similia venivano di sovente coadiuvati da una regia molto sofisticata e d'autore.
“Paranoia Agent” parla di una psicosi collettiva che viene esternata mediante la simbolica apparizione di shounen bat, inquietante ragazzino dotato di mazza da baseball il quale, nel momento di massima tensione psicologica di un personaggio, ne cancella il disagio esistenziale mediante un salvifico e brutale colpo in testa, che con macabra ironia allevia la sofferenza e l'alienazione della “vittima”. 

sabato 7 maggio 2016

Mawaru Penguindrum: Recensione

 Titolo originale: Mawaru-Penguindrum
Regia: Kunihiko Ikuhara
Soggetto: ikuni chowder (Kunihiko Ikuhara)
Sceneggiatura: Kunihiko Ikuhara, Takayo Ikami
Character Design: Lily Hoshino (originale),Terumi Nishii
Musiche: Yukari Hashimoto
Studio: Brain's Base
Formato: serie televisiva di 24 episodi
Anno di trasmissione: 2011


Tredici anni dopo aver dato alla luce il capolavoro “La Rivoluzione di Utena”, Kunihiko Ikuahara torna nuovamente in scena con un'altra opera dall'indiscutibile valore, “Mawaru Penguindrum”, adattamento (in)fedele e molto autorale di uno dei racconti più celebri della letteratura giapponese, il “Ginga Tetsudou no Yoru” di Kenji Miyazawa. Commistione postmoderna tra fiaba, commedia dell'assurdo e tragedia greca, l'anime in primis è un vero e proprio atto d'amore del suo regista nei confronti degli emarginati, di coloro i quali sono stati confinati nell'anonimato ai limiti della società giapponese, che nell'opera viene rappresentata mediante molteplici, toccanti metafore in un geniale andirivieni di situazioni estreme, riflessioni e dialoghi brillanti. Protagonisti della storia sono i due fratelli Shouma e Kanba Takakura, i quali - allo stesso modo del Miyazawa che nel 1924 iniziava a scrivere il suo racconto in preda al dolore - stanno vivendo il dramma della perdita dell'adorata sorellina Himari, la quale soffre di una grave malattia incurabile. Ha così inizio il loro viaggio a bordo del “Treno della Via Lattea” - il treno del destino -, che nell'anime diventa la metropolitana di Tokyo; all'inizio di questo percorso, che si snoda tra una puntata e l'altra della serie – ogni “fermata” è un episodio dell'anime, scelta abbastanza metanarrativa – tra allegorie ed eventi realmente accaduti, Himari torna misteriosamente in vita grazie ad un copricapo a forma di pinguino, il quale tuttavia la possiede per alcuni brevi frangenti trasformandola nell'impertinente Principessa del Cristallo, una surreale madamigella la quale reclama a gran voce ai due sfortunati fratelli il penguindrum, un oggetto magico che le permetterebbe di avere salva la vita.