martedì 4 aprile 2017

Ghost in the Shell - live action: Recensione

 Titolo originale: Ghost in the Shell
Regia: Rupert Sanders
Soggetto: Masamune Shirow
Sceneggiatura: Jamie Moss, William Wheeler
Fotografia: Jess Hall
Effetti speciali: Steve Ingram, Andrew Durni
Musiche: Clint Mansell, Lorne Balfe
Casa di produzione: DreamWorks Pictures, Paramount Pictures, Arad Production, Amblin Partners, Reliance Entertainment
Formato: lungometraggio di 106 min.
Anno di uscita: 2017


Settembre 2016, Paramount Pictures pubblica i primi teaser trailer del tanto chiacchierato “Ghost in the Shell”, dando finalmente un corpus delicti ai rumors e alle voci che circolavano per la rete circa il nuovo lungometraggio americano che si propone di riportare in auge il noto brand marchiato Masamune Shirow (il manga originale) prima, e Mamoru Oshii poi (il film del '95 e Innocence)*. Si tratta di un annuncio di una forza dirompente che letteralmente spacca a metà la comunità degli internauti: all'istante si levano i cori indignati dei fan che gridano allo scandalo, profetizzando l'imminente sciagura di una corruzione e distruzione di ciò che fu oggetto di culto, simbolo, nonché masterpiece del cyberpunk nipponico degli anni '90. Non assenti, tuttavia, anche voci contrarie alla generale mancanza di fiducia** che si è poi rivelata, purtroppo, parzialmente veritiera e preconizzante, ma andiamo con ordine.


L'universo di “Ghost in the Shell” (in modo peculiare il film di Mamoru Oshii), radica i suoi topoi su un apparato concettuale che capta i propri semi nella corrente letteraria e artistica del Cyberpunk, nata negli anni '80 grazie al contributo di autori tra i quali spiccano William Gibson*** e Bruce Sterling. La tematica cardine è quella che ruota attorno ai concetti di coscienza e identità che la progressiva meccanizzazione dell'uomo e lo sviluppo tecnologico mettono inevitabilmente in crisi e la cui certezza cominciano ad incrinare: si concretizza una interessante inversione di prospettiva per la quale l'uomo perde parte della sua umanità, avvicinandosi alle macchine, mentre le macchine (in specie le I.A.) subiscono il processo inverso, acquisendo una loro coscienza e imparando ad affermare la propria personalità, auto-riconoscendosi come enti senzienti ed autonomi, possiamo dire: umanizzandosi. "La domanda fondamentale è: cosa è coscienza? La coscienza è programmazione, oppure libertà? Indeterminatezza?" E da questa intuizione emerge il senso del titolo del film: “Ghost in the Shell”, lo spirito nel guscio, l'anima nel corpo, dicotomia di matrice cartesiana che viene però messa in dubbio. Nel momento in cui anche un androide si afferma Essere senziente, cosa distingue realmente l'uomo dalla macchina? Non è forse anche l'uomo una macchina biologico-organica programmata dai suoi stessi geni? L'uomo è conscio di questo dubbio ed è per questo motivo che costruisce gli androidi, è un gioco di specchi: cerca di costruire qualcosa di simile a sé non per il progresso della scienza ma, in ultima analisi, per vedere se stesso e soprattutto capire se stesso. La domanda attorno a cui tutto ruota è se esista effettivamente un Ghost separato dal suo Shell o, piuttosto e al contrario, un'unione dei due, una “Mente” di spinoziana memoria****. Invero, non c'è nessuna autentica differenza tra uomo e macchina, tra organico e inorganico, poiché nessuno dei due è da solo in grado di stabilire l'origine della propria coscienza e se questa sia determinata da un “Dio” o meno. Il film del '95 incarna brillantemente tutte queste tematiche grazie anche ad una raffinatissima regia, che si destreggia attraverso momenti di intenso lirismo visivo, tanto che il film stesso diviene un continuo susseguirsi di simboli e metafore di grande suggestione. 


Ora, prendete tale identikit di “Ghost in the Shell”, così come prospettato dall'estensore di questa recensione, e spogliatelo di quasi tutto compiendo un'operazione di mera sottrazione: togliete il lirismo e il simbolismo, togliete i dialoghi penetranti e profondi, togliete l'intero apparato concettuale riducendolo sostanzialmente all'osso, un feticcio, un giocattolo per le masse, ed otterrete con buona approssimazione un'idea di cosa aspettarvi dall'ultima fatica di Rupert Sanders. L'operazione che è stata compiuta è infatti quella di rendere mainstream e abbordabile per il grande pubblico quella che era in origine una storia molto complicata e per un pubblico fondamentalmente di nicchia. Il film in questione infatti mantiene formalmente la medesima struttura di fondo del suo progenitore, costruendo una vicenda dal sapore poliziesco decisamente interessante e ricca di tensione. La sezione 9 torna di nuovo in azione, ritroviamo il Maggiore, interpretato da una bravissima Scarlett Johansson, che ritengo particolarmente indicata per questo ruolo*****, Batou, Togusa, il saggio Aramaki e altri vecchi e nuovi personaggi. Ritroviamo anche le tematiche fondamentali, ma queste assumono, sostanzialmente, una veste maggiormente semplificata e lineare ed incompleta, non vengono portate alle estreme ed elevate conseguenze e conclusioni che ci si aspetterebbe, optando anzi per una soluzione diametralmente opposta. La protagonista si trasforma in un'eroina che vuole scoprire la verità piuttosto che essere la figura profonda e dilemmatica che conosciamo. Il baricentro si sposta da un piano concettuale a quello fattuale della storia. A fare da padrone è un passato rubato da riconquistare, un sopruso compiuto che va punito e corretto per la completa riappropriazione della personale individualità. E sono queste innovazioni, da una parte, e certe mancanze, dall'altra, a mutare profondamente sia il senso che la portata del film, ponendo accenti diversi. L'attenzione si sposta sulla falsificazione dei ricordi, la costruzione di un passato fasullo in un'ottica strumentale alla storia, ma ci si ferma lì, senza compiere passi ulteriori. Manca l'essere totalmente artificiale che dà quel quid pluris al tono del film, perchè qui la figura maggiormente ambigua rimane il maggiore, che però è comunque di matrice umana. Anche i numerosissimi riferimenti e citazioni al film del '95 sono in realtà per lo più mere strizzate d'occhio: un esempio su tutti la scena dell'immersione, che perde molto della suggestività e del senso originario.
Rimane purtuttavia un filo conduttore omogeneo, trattandosi di un soggetto comunque interessante da mettere in scena, e molto bella è per esempio la trovata del “consenso”. Per gli androidi il loro “consenso” non serve, essi sono meri oggetti sottoposti al dominio umano. Ed è così anche per il maggiore, finchè qualcuno non la riconosce come al proprio livello, come umana, chiedendo il suo consenso, ed è così che si pone l'accento sul fatto che ciò che ci rende umani è anche il modo in cui gli altri ci considerano.


Passando al lato tecnico, ci si para innanzi un film diretto piuttosto bene, la cosa che colpisce maggiormente però è il modo in cui è stata costruita l'ambientazione, che riprende in modo fedele l'estetica del film originale, mostrandoci paesaggi urbani molto suggestivi, decorati da proiezioni e ologrammi pubblicitari, che stridono con i sobborghi poveri caratterizzati da palazzoni decadenti che sfidano il cielo nella loro incredibile altezza e grigia monotonia. Si tratta di una tipica ambientazione cyberpunk, dove decadenza sociale, politica e tecnologia si compenetrano, in un mondo sotto il giogo di forti multinazionali e aziende tecnologiche.

In conclusione, si tratta di un bel film d'azione e poliziesco che consiglio di andare a vedere perchè preso a sé rimane un prodotto godibile. Si parla di una incarnazione di GITS che io definirei più disimpegnata, il che non vuole per forza attribuirgli una connotazione negativa, ma riconoscere semplicemente che si tratta di un prodotto adatto ad un pubblico più ampio e generalista che vi lascerà sulle spine fino alla fine, grazie anche alle adrenaliniche scene d'azione.

Buona visione.



*Senza tuttavia dimenticare le serie animate dirette da Kenji Kamiyama.
**Lo stesso Mamuru Oshii si è espresso in modo favorevole al film
***Neuromante
**** Per un approfondimento consiglio di andare a vedere i video di rick du fer.
***** Inutili e faziose le accuse di witewashing mosse al film, la Johansson anzi ricalca fedelmente l'estetica del Maggiore.

Nessun commento:

Posta un commento