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mercoledì 29 settembre 2021

serial experiments lain: Recensione 2.0

 Titolo originale: serial experiments lain
Regia: Nakamura Ryutaro
Soggetto: Production 2nd (ABe Yoshitoshi, Ueda Yasuyuki)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: ABe Yoshitoshi (originale),  Kishida Takahiro
Musiche: Nakaido Reiichi
Studio: Triangle Staff
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 1998
 


Siamo negli anni novanta. Internet era agli albori e ShinSeiki Evangelion era diventato in breve tempo un fenomeno di massa. Da lì in poi ebbe inizio la NAS, la "nuova animazione seriale" da fascia notturna, un trend di anime cupi e maturi che si esaurì dopo qualche anno in preda al suo stesso manierismo. Dato che l'opera di Anno era stata a suo modo sperimentale, TV Tokyo, la piccola emittente televisiva che la mandò in onda, era aperta a trasmettere anche serie televisive tra le più allucinate. Forte di tutto questo contesto, il produttore Ueda Yasuyuki aveva in mente di fare un mediamix (videogioco, anime e cd) con tutte le cose che gli piacevano: una ragazzina misteriosa talmente carina/moeru che lo spettatore si sarebbe dovuto innamorare; un attacco al sistema consumistico americano (asserzione che fa un po' ridere dato che la sigla dell'anime è in inglese e l'opera essa stessa è un prodotto di consumo); del cyberpunk marcio à la William Gibson con tanto di suggestioni musicali new wave. Con le idee ben chiare in testa, Ueda conobbe in una chat su internet ABe Yoshitoshi, che gli disegnò la ragazzina dei suoi sogni incontrando immediatamente il suo apprezzamento (la fissazione di Ueda con Lain puzza molto di lolicon). I due battezzarono il proprio sodalizio in Production 2nd e andarono quindi a caccia di uno sceneggiatore e di un regista, forti dello spazio concesso da TV Tokyo e dai finanziamenti della Pioneer. Ueda era (ed è ancora credo) un punk mezzo otaku, ABe un ragazzo introverso e intellettuale, che in futuro creerà in autonomia capolavori esistenzialistici come Haibane Renmei. Per i due non fu difficile tirare dentro Chiaki J. Konaka, uno sceneggiatore Horror/Sci-Fi reduce di qualche OVA anni ottanta (tipo Bubblegum Crisis 2040 ). Egli infatti era un otaku della stessa generazione di Anno, completamente assorbito dalle sue conoscenze esoteriche, psicologiche, dalle sue bambole artigianali (un altro lolicon), da Lovercraft e dai Tokusatsu come Ultraman (dopo serial experiments lain, che si scrive tutto minuscolo, non a caso Konaka diventerà lo sceneggiatore di punta della NAS). Dopodiché, quando Ueda andò al Triangle Staff per stabilire chi avrebbe dovuto gestire regia e animazioni, incontrò il veterano Nakamura Ryutaro, che aveva lavorato per tre anni come key animator alle dipendenze del leggendario Dezaki Osamu (in particolare in Takarajima, Ashita no Joe 2 e Cobra ). Nakamura, che purtroppo ora è passato a miglior vita, era il più anziano del gruppo ed era già sposato con due figli, mentre gli altri tre erano single. Inquadrate pertanto le personalità dei quattro creatori, una volta formato questo dream team che l'animazione di oggi si sognerebbe, nacque appunto serial experiments lain, uno dei capisaldi del cyberpunk animato giapponese. Già il titolo è tutto un programma: l'opera è strettamente di nicchia, sperimentale, cupa, intrisa di tutto il disagio del suo tempo. Quel "PRESENT DAY, PRESENT TIME!" scandito da una voce psicopatica che ride da sola, parla per un Giappone in piena crisi d'identità e succube  di una nuova forma di occidentalizzazione forzata: quella legata al nascente dominio tecno-informatico sulla vita umana e le relazioni sociali, una delle tante cose che anche noi abbiamo importato dagli USA.  

martedì 4 aprile 2017

Ghost in the Shell - live action: Recensione

 Titolo originale: Ghost in the Shell
Regia: Rupert Sanders
Soggetto: Masamune Shirow
Sceneggiatura: Jamie Moss, William Wheeler
Fotografia: Jess Hall
Effetti speciali: Steve Ingram, Andrew Durni
Musiche: Clint Mansell, Lorne Balfe
Casa di produzione: DreamWorks Pictures, Paramount Pictures, Arad Production, Amblin Partners, Reliance Entertainment
Formato: lungometraggio di 106 min.
Anno di uscita: 2017


Settembre 2016, Paramount Pictures pubblica i primi teaser trailer del tanto chiacchierato “Ghost in the Shell”, dando finalmente un corpus delicti ai rumors e alle voci che circolavano per la rete circa il nuovo lungometraggio americano che si propone di riportare in auge il noto brand marchiato Masamune Shirow (il manga originale) prima, e Mamoru Oshii poi (il film del '95 e Innocence)*. Si tratta di un annuncio di una forza dirompente che letteralmente spacca a metà la comunità degli internauti: all'istante si levano i cori indignati dei fan che gridano allo scandalo, profetizzando l'imminente sciagura di una corruzione e distruzione di ciò che fu oggetto di culto, simbolo, nonché masterpiece del cyberpunk nipponico degli anni '90. Non assenti, tuttavia, anche voci contrarie alla generale mancanza di fiducia** che si è poi rivelata, purtroppo, parzialmente veritiera e preconizzante, ma andiamo con ordine.

martedì 20 dicembre 2016

Texhnolyze: Recensione

 Titolo originale: Texhnolyze
Regia: Hiroshi Hamasaki
Soggetto: Production 2nd (Yoshitoshi ABe, Yasuyuki Ueda)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Yoshitoshi ABe (originale), Shigeo Akahori
Musiche: Reiichi Nakaido
Studio: Madhouse
Formato: serie televisiva di 22 episodi
Anno di trasmissione: 2003


«Dentro ogni persona vive un mostro che farebbe tremare dalla paura persino il suo ospite. Quelli che non furono in grado di sopprimere il proprio mostro furono esiliati in un purgatorio sotterraneo. Proprio lui nacque in quel purgatorio sotterraneo creato dall'uomo. Più di chiunque altro, ha amato e odiato il mostro dentro di lui. Assieme alla seconda madre, è giunto nel mondo di coloro che hanno esiliato la sua gente. Una volta arrivato lì, quel mondo e la sua gente stavano lentamente aspettando la loro morte. Il mondo in superficie era il mondo dei morti. Il genere umano, così come il mondo da lui creato, era ormai giunto al crepuscolo.»

E' un'insieme di sensazioni, “Texhnolyze”. Sensazioni dure, forti, viscerali. La morte del mondo, la perdita dell'umanità, lo smarrimento, la crescita e il ritrovamento di quanto perduto. Il nulla. Lo spirito. La materia. La carne, le lacrime e il sangue, che si fondono in un triste gioco di corrispondenze poetiche, malinconiche e allo stesso tempo feroci. Lo sguardo fisso di Ran, spettrale ragazzina che osserva impassibile il tutto, comunicando con la voce della città sotterranea, Lux, l'ultima roccaforte del genere umano, l'ultimo posto in cui l'umanità può ancora cercare un motivo per esistere, anche se ormai, all'infuori del dolore e della perdita, nulla le è più concesso. L'alternativa è il mondo dei morti, quello in superficie, in cui ogni cosa è sempre uguale a sé stessa, monotona, priva d'iniziativa, passione e desiderio. E' il mondo asettico dell'oggidì, con tutta la sua vuotezza spirituale? Oppure è l'estrema sintesi dell'umana condizione, una farsa che trova la sua dignità soltanto nell'elevarsi a tragedia? 

sabato 17 settembre 2016

Malice@Doll: Recensione

Titolo originale: Malice@Doll
Regia: Keitaro Motonaga
Soggetto & sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Shinobu Nishioka
Visual Concept: Yasuhiro Moriki
Musiche: Y-Project
Studio: Arts Magic
Formato: serie OVA di 3 episodi
Anni di uscita: 2001


La razza umana si è estinta. Ciò che rimane di essa sono le sue creazioni, in particolare uno squallido quartiere a luci rosse in cui delle prostitute robotiche vanno alla ricerca di clienti senza mai trovarli – in fondo, proprio a tal fine sono state programmate. Malice, bambola sessuale che si è guastata – le è uscita della colla da un occhio, che è andata a formare un'indelebile lacrima -, un giorno, mentre si reca dal robot adibito alle riparazioni, incontra una bambina fantasma, che la conduce nei meandri del sottosuolo per farla violentare da una gigantesca maschera dotata di tentacoli. Quando Malice si risveglia è diventata umana, e in più ha guadagnato un potere rivoluzionario: baciando i suoi colleghi androidi – «ti darò un bacio, è l'unica cosa che so fare» -, può infondere loro la vita, facendoli diventare degli esseri di carne e sangue. Ma mentre Malice in versione umana è perfetta, le “vittime” del suo bacio diventano delle mostruosità aberranti, grottesche e insensate. Era questa la sostanza dell'umanità che in passato popolò il mondo? Amore significa anche mutamento, perdita del sé e, in ultima sintesi, morte? Che rapporto c'è tra corpo e spirito? E tra sogno e realtà? Di certo, una mera macchina non può saperlo. Non può comprendere.

sabato 28 maggio 2016

Akira: Recensione

Titolo originale: Akira
Regia: Katsuhiro Otomo
Soggetto: basato sull'omonimo manga di Katsuhiro Otomo
Sceneggiatura: Katsuhiro Otomo, Izo Hashimoto
Musiche: Shoji Yamashiro
Studio: Tokyo Movie Shinsha
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1988


Negli anni ottanta in Giappone si affermò una generazione di autori che non aveva ricordi diretti del trauma di Hiroshima e Nagasaki: per ovvi motivi anagrafici, il ricordo più scottante impresso nella memoria di questi artisti era la sanguinosa sconfitta dei loro fratelli maggiori nelle contestazioni – nel 1970, data del totale fallimento del movimento studentesco, alcuni membri dell'Armata Rossa fuggirono in Corea del Nord mediante un dirottamento aereo, e il loro capo, Takamaro Tamiya, dichiarò ai media giapponesi la celebre frase “noi siamo Ashita no Joe”. Ciò premesso, il colpo di grazia ai residui idealistici dell'Armata Rossa arrivò a inizio anni ottanta, con l'ascesa al potere di una destra nazionalista e militarista che si fece carico di numerosi scandali politici – dei quali poco importava ad una nuova generazione di adolescenti quanto mai edonisti, i cosiddetti figli della bolla, consumatori aggressivo-passivi privi di ideologie e assai indifferenti, annoiati, senza uno scopo per vivere. Inutile dire che tutto ciò era la naturale conseguenza del benessere e dell'avanzare, sempre più incalzante, della postmodernità come la intendiamo oggi.
Katsuhiro Otomo - classe 1954 -, con il suo “Akira”, uno dei lavori più rappresentativi della storia dell'animazione, prende come spunto il fallimento ideologico a cui aveva assistito da adolescente, e su di esso costruisce un imponente edificio d'immagini i cui protagonisti sono dei veri e propri Ashita no Joe ottantini, dei delinquenti delle strade che si muovono a bordo delle loro moto in un mondo ipertecnologico, distopico e post-apocalittico, in cui i monolitici grattacieli della cosiddetta Neo-Tokyo rappresentano le invalicabili istituzioni, nonché il potere della vecchia generazione che opprime il nuovo, impedendogli di mutare il paradigma sociale vigente.
Tra i bousouzoku (lett: "gli sfrenati") di Otomo - da lui esplicitamente inseriti nel film in quanto appartenenti ai suoi ricordi giovanili, ma comunque onnipresenti sulle strade della Tokyo degli anni ottanta – è presente Tetsuo, un ragazzino debole, edonista, succube di un complesso d'inferiorità nei confronti del capo-banda Kaneda, che gli fa da padre/fratello maggiore – proprio come Ashita no Joe, i protagonisti di “Akira” sono degli orfani senza radici, abbandonati a loro stessi nei sobborghi decadenti di una città piena di contraddizioni. Alla luce di ciò, Tetsuo - potentissimo esper i cui poteri psichici latenti si risvegliano improvvisamente, dopo il contatto con uno strano bambino-vecchio mutante - ricalca il modello comportamentale della generazione di adolescenti cresciuti durante la grande bolla: è introverso, complessato, frustrato e – inconsciamente - alla ricerca di una figura materna che lo consoli. D'altro canto, Kaneda sembra quasi indietro di dieci anni, in quanto punta tutto sulla fisicità e risolve i suoi problemi direttamente, come se fosse un adulto, senza cercare il supporto di nessuno. La moto/simbolo fallico (a detta dello studioso di cinema Jon Lewis) di Kaneda, che simboleggia il potere, inizialmente non può essere guidata da Tetsuo: l'interazione tra i due ragazzi è in parte l'allegoria di uno strano rapporto padre/figlio e corpo/mente, che si dirama lungo l'ambizioso pastiche postmoderno di Otomo attraverso una rielaborazione simbolica in chiave cyberpunk dei caotici mutamenti sociali del Giappone in corso dagli anni sessanta agli anni ottanta, che vengono raccontati in modo indiretto mediante l'ausilio di un carismatico apparato pseudo-mistico-fantascientifico nel quale, da un nichilismo allucinato e totalizzante, emerge la figura del messia Akira, l'uomo-Dio-bambino-Buddha che si fa portatore del rinnovamento in un mondo corrotto, in cui la perenne stagnazione sociale fa presagire un'incombente fine della Storia. 

sabato 9 aprile 2016

Ghost in the Shell: Recensione

 Titolo originale: Koukaku Kidoutai
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Masamune Shirow
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Character Design: Hiroyuki Okiura
Mecha Design: Shoji Kawamori
Musiche: Kenji Kawai
Studio: Production I.G.
Formato: film cinematografico
Anno di uscita:1995


Ghost in the Shell è uno dei maggiori capolavori che l'animazione giapponese abbia saputo donare al mondo della cinematografia. Quest'opera è stata realizzata nel 1995 dal regista Mamoru Oshii, traendo ispirazione dal manga omonimo di Masamune Shirow. Importante è il valore di Ghost in the Shell come film per l'innovazione stilistica, di regia e di realizzazione tecnica che ha portato. Gli sfondi, la fotografia, le animazioni per essere del '95 tengono ancora testa a quelle di film molto più recenti.  

sabato 11 luglio 2015

Dennou Coil: Recensione

 Titolo originale: Dennō Coil 
Regia: Mitsuo Iso
Soggetto: Mitsuo Iso
Sceneggiatura: Toshiki Inoue, Mitsuo Iso
Character Design: Takeshi Honda
Musiche: Tsuneyoshi Saito
Studio: Madhouse
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anno di trasmissione: 2007


Nella città di Daikoku, realtà virtuale e materiale si sovrappongono, lasciando spazio ad un nuovo modo di intendere la percezione delle cose. Mediante l'impiego di particolari occhiali dotati di una tecnologia all'avanguardia, è possibile connettersi permanentemente al cyberspazio, il quale si presenta vivido, tangibile, ma allo stesso tempo sfuggente e denso di enigmi. In questo mondo in bilico tra reale ed irreale - ma poi, che cos'è effettivamente la realtà? -, dei bambini delle elementari si avventureranno in domini sconosciuti, inizialmente per fini ludici e successivamente per scoprire la verità inerente l'altra parte, un luogo fatto di ombre e di frammenti di ricordi nel quale sono sopiti atavici misteri in attesa di essere svelati.

venerdì 13 febbraio 2015

Key the Metal Idol: Recensione

 Titolo originale: Key the Metal Idol
Regia: Hiroaki Sato, Takashi Watanabe
Soggetto: Hiroaki Sato
Sceneggiatura: Hiroaki Sato
Character Design: Kunihiko Tanaka
Mechanical Design: Takashi Watabe
Musiche: Tamiya Terashima
Studio: Studio Pierrot
Formato: serie OVA di 15 episodi
Anni di uscita: 1994 - 1997


Assieme al "Giant Robo" di Imagawa, "Key the Metal Idol" è l'OAV più significativo della prima parte degli anni novanta, quella antecedente allo storico ed epocale "Evangelion". Significativo in quanto in esso sono già contenute alcune delle innovazioni tipiche della seconda metà degli anni novanta e dei primi anni del duemila, il cosiddetto "dopo Eva" (il quale, a mio avviso, è il periodo più fecondo della storia dell'animazione, assieme all'anime boom di fine anni settanta e inizio anni ottanta). "Key the Metal Idol" è quindi un OAV che mescola assieme le varie tendenze dei suoi anni plasmandole un anno prima di "Evangelion", dando origine a uno pseudo cyberpunk più cupo e violento del solito, nonché dotato di un inquietante substrato mistico intimamente connesso con la tecnologia e il folklore (ma comunque risibile rispetto a quello ben più sofisticato presente nelle opere di Oshii, ABe e Nakamura). Nella sostanza, l'opera è più vicina a Imagawa che a Hideaki Anno: la trama di "Key the Metal Idol" è infatti molto complessa, e in ogni episodio vengono proposti una certa quantità di enigmi e di misteri apparentemente sconnessi i quali, al momento delle rivelazioni finali - in questo caso si parla di due episodi conclusivi di due ore circa, pieni zeppi di spiegoni e tecnobubbole - s'incastreranno tra loro formando un mosaico senza alcuna falla. 

martedì 16 dicembre 2014

Avalon: Recensione

 Titolo originale: Avalon
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Kazunori Ito, Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Musiche: Kenji Kawai
Casa di produzione: Bandai Visual, Media Factory, Miramax
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2011


 2001, Mamoru Oshii torna sul palcoscenico internazionale con una nuova opera: "Avalon". Questa volta il "maestro" si destreggia nel girare un film in "carne e ossa", anziché animato, e la sua mano è chiaramente visibile anche solo per quanto riguarda le inquadrature, il ritmo lento e lo stile minimale (senza dimenticare l'immortale "Bassethound").
Tuttavia è il lato tematico quello che rispecchia maggiormente l'influsso artistico da parte dell'autore. Oshii sfodera le sue lame più affilate e le fa danzare assieme, nuovamente, per colpire in modo incisivo e tagliente il cuore dello spettatore. Non penso che corrisponda a empietà l'affermare che questo film riunisca la maggior parte dei suoi topoi più caratteristici, dalla critica sociale all'indagine dei sensi attraverso la realtà virtuale. Nondimeno, ciò che è vecchio e ciò che è nuovo qui si mescolano, dando vita a un film estremamente brillante e piacevole da seguire.

venerdì 16 maggio 2014

Ghost in the Shell - Stand Alone Complex: Recensione

Titolo originale: Ghost in the Shell - Stand Alone Complex
Regia: Kenji Kamiyama
Soggetto originale: Masamune Shirow
Sceneggiatura: Kenji Kamiyama
Character Design: Hajime Shimomura
Mechanical Design: Kenji Teraoka, Shinobu Tsuneki
Musiche: Yōko Kanno
Studio: Production I.G
Anno:  2002
Formato: Serie televisiva di 26 episodi
Disponibilità italiana: Dynit


Con "Ghost in the Shell - Stand Alone Complex" il concept del noto manga di Masamune Shirow viene trasposto finalmente su serie animata, dico concept poiché veramente poco sopravvive delle vicende proprie del fumetto originario, si opta invece per una strada del tutto diversa che cerca di proporre qualcosa di nuovo, seppur tuttavia senza tradire troppo lo spirito cyberpunk che contraddistingue il suo progenitore. A onor del vero non credo si possa però parlare, in senso stretto, di cyberpunk vero e proprio, ma le tematiche della serie sono affini a questa corrente letteraria tanto da permettere più di un timido accostamento.