Avendo pubblicato con una piccola casa editrice in provincia di Bari, inevitabilmente sono incappato in tutta una letteratura di nicchia che prima mi era ignota. Il mio stesso editore, Giacovelli, è anche lui uno scrittore e nel suo ultimo libro, ad esempio, descrive tutto un mondo provinciale in cui ci sono famiglie supermega coese, i preti che danno consigli di vita, la fidanzatina della giovinezza che ti rimane accanto fino all'età adulta e altre cose che per il me stesso ragazzino figlio di divorziati e delle periferie torinesi, sono robe tipo che ne so, un film di Miyazaki. C'è tuttavia l'intrusione della postmodernità nel contesto provinciale: le prime esperienze con i social, il miraggio di Milano, l'amico che si drogava ecc. Definirei quindi questo tipo di romanzi brevi scritti da ragazzi o ragazze delle province del sud come "narrativa provinciale contemporanea". Contrariamente alla letteratura mainstream, non è un genere politicizzato (e grazie al cielo, aggiungerei), spesso è intimista e personale e comunque, modulo qualche esigenza riparativa derivante dalla perdita di qualche persona cara, presenta solitamente dei finali positivi e non sfocia mai nel nichilismo (addirittura, in uno dei due romanzi che saranno l'oggetto principale di questo post, con molta gentilezza l'autrice si "scusa" nella postfazione per aver messo un finale negativo, cosa che mi ha parecchio colpito). Questa mia riflessione sa molto di Rousseau: sono gli ambienti urbani, quelli più vicini alle industrie, a fomentare il nichilismo. Nelle province di un paese mediterraneo originariamente pastorale, il nichilismo postmoderno è una cosa di cui si sentono sì degli echi, ma poi il tutto si normalizzerà nella bellezza delle proprie cittadine, delle proprie radici e nel conforto dei propri cari (i ringraziamenti nei libri di narrativa provinciale si sprecano: grazie ai miei genitori, grazie a X, grazie a Y e così via, spesso per una pagina intera).
Era l'assenza di Tempesta a rendere tutto un po' più apatico e funereo. Era la nuova forma storpia del mio cuore, a ricordarmi che niente sarebbe mai tornato come prima. [Da "Vic, dopo la tempesta"]
Immaginai quale dovesse essere da ora in poi il mio specchio, ma nessun riflesso animò il vetro liscio della fantasia. Nessuna immagine del futuro, annegata nel sangue del mio tempo presente. [Da "Chiuso"]
Giulia Savarelli è una poetessa, fotografa, scrittrice ed editor, e ho avuto modo di conoscere la sua arte prima ancora che firmassi con Giacovelli (per cui l'autrice ha pubblicato il libro "Miele nero. I legami del Biviere") per via di un contatto in comune su Facebook. Di suo ho letto "Vic, dopo la Tempesta" e "Chiuso". La Savarelli la inquadrerei come una sorta di Yoshitoshi ABe all'italiana: fa storie molto pacate dai connotati simbolici, talvolta vagamente filosofici, il cui tema portante è la giovinezza - "Siate giovani, soltanto giovani", diceva non a caso quella kawaisou della Alda Merini. Non è infatti possibile scrivere poesie senza avere un attaccamento morboso e passionale a ciò che esiste soltanto in gioventù: la stessa passione amorosa, dopotutto, è cosa puramente giovanile - "Ma era troppo tardi per rifarmi una giovinezza. Ci credevo più! Si diventa rapidamente vecchi e in modo irrimediabile per giunta. Te ne accorgi dal modo che hai preso ad amare le tue disgrazie tuo malgrado" osservava, a ragione, il mio scrittore francese preferito. Ma passiamo ora ai due libri in oggetto.
*** Vic, dopo la tempesta***
E' un romanzo simbolico-autobiografico il cui tema principale è il senso di perdita provato dalla protagonista dopo la fine di una importante relazione con la sua ragazza, che viene simbolicamente chiamata Tempesta. La cosa affascinante del libro è che si passa da descrizioni molto accurate di lei (me la sono vista praticamente davanti agli occhi, l'oggetto dell'altrui passione e sofferenza) a sferzate poetiche estremamente suggestive (alcuni passi li avevo letti ad alta voce a mia madre, che essendo come me un animo molto melodrammatico, aveva apprezzato). In tutto questo doloroso smarrimento, infine, appare poi Vic, che è una sorta di redentore idealizzato, non tanto una persona o un personaggio ma a mio parere un agente riparativo inconscio, una sorta di richiamo alla vita, un meccanismo auto-salvifico. La caretteristica principale di Vic, comunque, è quella di essere capace di comprendere il dolore della protagonista, un po' come la mia Lena (che tuttavia non è affatto un personaggio idealizzato, anzi) fa con il mio Ulrico, salvandolo. Arriva poi infine la primavera di provincia, quella delle feste, dei banchetti, delle processioni e così via, e il tutto si risolverà nella Speranza (che poi, alla fin fine, è un sentimento puramente cristiano in senso pastorale, e qui si nota nuovamente l'importanza dell'enviroment in questo genere di letteratura: di certo, se Vic fosse stato un punkabbestia di Rozzano, sarebbe andata diversamente). Ciò detto, la cosa che nobilita molto questo libro, oltre allo stile, è la più completa assenza di vittimismo: Tempesta è stata sinceramente amata, anche dopo che è stata perduta; la relazione con lei è stata veicolo di crescita e ciò viene rimarcato nel finale. Fosse stato un libro più mainstream, sarebbe stato molto facile scadere nella piangina e nella pornografia del dolore. Invece, il ritratto sincero del cuore spezzato che si fa in questa sede, è talmente onesto che il lettore più sensibile può riconoscere anche la propria stessa, personalissima sofferenza in quella narrata in punta di piedi dalla Savarelli.
*** Chiuso ***
"Chiuso" ha una struttura molto romanzesca, uno stile regolare e meno ibrido rispetto a "Vic". Narra del primo amore e del passaggio all'adultità come caduta delle illusioni giovanili, nel contesto della cittadina di Cosenza, che viene descritta molto affettuosamente, quasi come se fosse un personaggio a sé stante. Nell'opera si sente molto il retrogusto cristiano nell'affrontare la tematica della passione carnale: si parla di peccato, si cita la Bibbia (è nelle intenzioni dell'autrice rimarcare il contrasto tra cristianesimo e paganesimo animista), il desiderio viene personificato e chiamato con la D maiuscola (cosa molto buddhista), e così via. In questo libro comunque ho letto, come accennavo in precedenza, un grande attaccamento alla giovinezza, alla sua imperfezione, alle sue emozioni forti. La "chiusura" di cui il titolo è quello stato alla Urashima Tarou di congelamento nel passato, di "chiusura alle nuove possibilità" il quale, a un certo punto, dovrà lasciar spazio alla polvere perché il corpo, che è legato al tempo, inevitabilmente invecchierà e farà il suo corso. Tutto questo mi ha ricordato vagamente, come scrivevo, Yoshitoshi ABe, soprattutto per via dell'implicita narrazione data dallo stereotipo molto giapponese della "loli che cresce in una cittadina agrestre sentendo tuttavia la pressione della postmodernità". Anche in questo caso comunque il romanzo scorre fluido senza alcuna politicizzazione né piangina, con i suoi simbolismi, le sue riflessioni e i suoi emozionali ritratti della cittadina calabrese.
In conclusione, dopo queste esperienza di lettura, sono ancora più convinto che Giappone e Italia siano tanto lontani quanto vicini: due paesi circondati dal mare le cui province sono ancora estremamente ataviche, in cui la differenza tra città e campagna è praticamente un abisso (Milano sostanzialmente in Italia è l'equivalente di Tokyo), e in cui la postmodernità è arrivata per frattali e non in modo totalizzante. L'amore dell'autrice fiorentina per Cosenza, per le passeggiate nei boschi, i suoi rimandi artistici all'animismo, al simbolismo vitalistico e così via, infatti, sono tutte cose altresì molto "giapponesi" oltre che pastorali (dopotutto, questo articolo lo sta scrivendo un tizio che ha costruito il suo stile narrativo leggendo Sanshiro di Souseki, quindi di cosa stiamo parlando). Un sincero abbraccione a tutte queste nuove persone che ho conosciuto grazie a Ulrico Adventures, comunque. Ci si rivede, da qualche parte.
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