domenica 9 febbraio 2025

La Pioggia Nera, Cristo si è fermato a Eboli e La Possibilità di un'Isola: tre letture invernali


Nel vecchio Mars di Yokoyama Mitsuteru, le antiche sentinelle piantate dagli alieni nelle profondità terrestri giudicavano la specie umana come "pericolosa" nel momento in cui essa scopriva l'energia atomica. A quel punto il protagonista del manga, una sorta di giudice calato dall'alto in stile Childhood's End, si risvegliava e, dopo un attento studio in merito alla storia e alla bontà della specie, veniva chiamato a decidere se terminare o no gli esseri umani. Questo quesito filosofico, congiunto al trauma del bombardamento nucleare, è molto presente nella (passata) cultura pop giapponese, per interderci anime, manga, film, telefilm e videogiochi. Per un popolo imperiale, provinciale e contadino, infatti, il trauma derivante dalla scienza occidentale ha avuto l'impatto di una congiura cosmica, di una sorta di ritorsione degli dèi o della stessa Natura. Per capire bene questo fatto, tuttavia, a mio parere occorre lasciar perdere l'intrattenimento "pop" e andare a scoprire la letteratura a tema, la fonte diretta del dramma, in cui la disgrazia primigenia viene raccontata in prima persona da chi l'ha vissuta. Le fonti principali da cui attingere sono i romanzi di Ota Yoko e il qui presente La Pioggia Nera di Masuji Ibuse (per intenderci l'autorevole maestro rinnegato da Dazai Osamu poco prima del suicidio). In particolare La Pioggia Nera è una sorta di "coscienza  collettiva" dei vari testimoni di cui lo scrittore aveva raccolto e rielaborato gli scritti, quindi ha un po' il carattere di una vicenda totalizzante, raccontata in prima persona dalla gente comune. Ne La Pioggia Nera, infatti, non vi è alcuna forma di antiamericanismo o condanna politica, a parte qualche frecciata al farraginoso apparato statale dell'epoca: la luce letale su Hiroshima, così come le scellerate decisioni dell'imperatore, sono relegabili a rassegnati eventi di sventura cosmica, che si abbattono su un popolo già di per sé stanco e martoriato dalla guerra. In tutto ciò, dato il livello di maturità della narrazione e dei suoi taciti simbolismi, La Pioggia Nera ascende tranquillamente al rango di capolavoro e di opera intellettuale nel suo senso più profondo. 
Paradossalmente la "letteratura atomica", a causa delle censure degli alleati, era stata sdoganata soltanto negli anni sessanta, ossia gli anni in cui la letteratura fantascientifica stava iniziando a diventare popolare in Giappone. Da qui forse è stata introiettata dalla generazione successiva (per interderci i figli del benessere che andavano alle Nihon SF Taikai come ad esempio Okada e Takeda, entrambi membri fondatori della GAiNAX), già velocemente postmodernizzata, come una sorta di melodramma spettacolare. Non per niente l'intrattenimento richiesto da questo nuovo tipo di pubblico era quasi sempre sulla falsariga dell'apocalittico (esplosioni su esplosioni, distruzione di pianeti, storie d'amore drammatiche). Non è che in questa sede voglia tornare a parlare di otakuzoku, ovviamente: la cosa da sottolineare a mio parere è che grazie al benessere diffuso e all'americanizzazione postbellica, la società giapponese e i suoi frattali interni, come ad esempio la tribù otaku di cui Okada, Takeda e soci, aveva trasferito nell'intrattenimento l'atavico approccio "naturalistico" e pastorale alla catastrofe. Da qui forse il grande successo delle opere di Miyazaki Hayao, che, con l'avanzare della postmodernizzazione nipponica, andarono a solleticare le corde di un po' tutto il pubblico mainstream dell'epoca.  

Ma torniamo al romanzo. La mattina del 6 Agosto del 1945 Shigematsu, il protagonista narrante de La Pioggia Nera, si trova alla stazione di Yokogawa, a meno di un chilometro dal luogo in cui la bomba esplode. Salvo per miracolo, Shigematsu è testimone dell'inferno in Terra (l'abilità di scrittore di Masuji fornisce un minuzioso ritratto della tragedia che rimane impresso nel lettore con la stessa potenza delle immagini). Il narratore poi è costretto a vagare faccia a faccia con l'Orrore, alla ricerca della moglie Shigeko e della nipote Yasuko. L'espediente narrativo per riunire le varie testimonianze raccolte da Masuji Ibuse, che non era presente in prima persona a Hiroshima il giorno del bombardamento, è quello del diario: Shigematsu, infatti, nel presente, alterna il lavoro dell'allevamento delle carpe (in questo si deduce che il personaggio sia un po' l'alter ego dello scrittore, data la passione di quest'ultimo per l'ittica) alla ricopiatura del suo diario sulla bomba, al fine di utilizzarlo come prova per dimostrare ai pretendenti che la nipote Yasuko non fosse stata colpita dalla terribile "malattia atomica" (che ovviamente viene descritta minuziosamente nei dettagli, suscitando nuovamente l'esperienza dell'Orrore nel lettore). La forma mentis provinciale del narratore, una persona forte ma semplice nei suoi ragionamenti, congiunta alla profondità intellettuale di Masuji, a mio parere sembrano convergere verso un pessimismo cosmico molto simile a quello di Schopenauer: è stata la Natura stessa a permettere che l'uomo arrivasse all'atomica, sostituendosi in un certo senso agli dèi. Ciò che rimane è la rassegnazione e il tentativo di mandare avanti la vita nonostante la vittoria della morte e del caos (e infatti il diario non viene scritto da Shigematsu con finalità narcisistiche o autoterapeutiche, come tra l'altro farebbe il 99% circa degli scrittori contemporanei, ma per permettere a una giovane donna di trovarsi un uomo con il quale fare un figlio). 
Un capolavoro assoluto di altri tempi, insomma, che per quanto mi riguarda non si è mai rivelato pesante o noioso ma, cosa rara per un romanzo, addirittura fortificante per la consapevolezza e lo Spirito. Voto: 5/5. 


- Cristo si è fermato a Eboli, di Carlo Levi (5/5)


La prosa scritta di Carlo Levi è encomiabile: dovessi scegliermi un libro italiano da utilizzare come toolbox per perfezionare l'arte della scrittura, sicuramente opterei per questo, tralasciando tutti gli altri. Avendo un background scientifico non mi sono mai interessato del Carlo Levi "didattico" e delle sfumature politiche del suo lavoro, che spesso tendono a etichettare il personaggio svuotandolo della sua raffinata intellettualità: di mio ho conosciuto il libro per caso e l'ho letto a mente vuota, come avrei letto un Souseki o un Kawabata, e sono rimasto colpito, oltre che dallo stile, dallo spaccato di umanità che ne emergeva, un'immagine che ho ben potuto comprendere grazie alle mie umili origini torinesi e contadine al tempo stesso. In Cristo si è fermato a Eboli l'intellettuale della vecchia capitale narra il suo periodo di confino nel paesello sperduto di Aliano, in Lucania; lì la civiltà non ha mai conosciuto per davvero la sostanza progressista del cristianesimo, che altrove (almeno fino a Eboli, stando al titolo del libro) si era già adeguato all'industrialismo e quindi al pensiero individualista e materialista borghese, sradicando di fatto l'uomo dalle sue radici terrene. Ad Aliano abbiamo quindi una madonna nera che fa da divinità crudele del mondo terrestre, capace di portare buoni raccolti così come pestilenze e sventure; maghi, streghe, credenze popolari ataviche e una mentalità refrattaria alla narrazione del progresso portata dal fascismo, che, come faceva notare lo stesso Carlo Levi, altro non è che la sedimentazione dello spirito piccolo borghese dell'italiano medio (discorso che verrà poi ripreso da Pasolini con i suoi "nuovi fascismi"). 
Ricollegandomi al precedente libro di Masuji  Ibuse – Italia e Giappone, due paesi così lontani ma allo stesso tempo così vicini –, in Cristo si è fermato a Eboli abbiamo un ritratto molto simile di  una civiltà contadina tutta dedita ai ritmi naturali e plasmata psicologicamente da una rassegnazione di fondo in merito alle sventure della vita; il governo di Mussolini, allo stesso modo di quello di Hirohito, viene quindi interpretato dai poveracci come una catastrofe paragonabile a quelle naturali. Mia nonna dopotutto, proprio come i contadini raccontati da Levi, diceva sempre "colpa dei ladri a Roma" con la stessa intensità con cui diceva "s'ha da morì" o "Dio vede lungo,  ma quando paga, paga largo", evocando una sorta di giudizio universale operato più dalla stessa Madre Terra che da un Dio astratto e dedito al progresso, all'accumulo e al profitto. Dopotutto queste erano le persone che Pasolini amava: persone semplici, ma così forti da essere refrattarie a illusioni progressiste di vario genere, e che nella loro miseria avevano intuito la sostanziale sventura che da sempre anima i corpi celesti dell'universo tutto. Ciò detto, gli spaccati di umanità di cui ci racconta Carlo Levi, soprattutto in quest'epoca distopica fatta di sedazione e individualismo stupido, ancora oggi arrivano più potenti che mai, sempre se si ha il coraggio e l'impegno di coglierli. Per il resto, è notevole altresì lo sceneggiato Rai con Gian Maria Volonté e Irene Papas: un piccolo tesoretto da riscoprire, rimpiangendo un'Italia non ancora del tutto animalizzata e in grado di produrre, anche per la televisione, opere di grande spessore intellettuale e sociale. 



La possibilità di un'Isola, di Michael Houellebecq (3/5)


A Michel Houellebecq, figlio viziato della postmodernità dalla forma mentis materialistica e riduttivista (è francese, in fondo, il popolo dei "senza Dio", come diceva la madre del Marchese del Grillo), è risaputo piacciano tanto le ragazzine. Eterno adolescente, cosa che candidamente ammette tra le righe di questo libro, che forse è la sua opera più "matura" e rappresentativa, per lui gli esseri umani sono soltanto meri ingranaggi biologici impegnati nella lotta genetica per la vagina giovane e fresca; vagina che, nella sua crudeltà  intrinseca, complice altresì la perdita di potere delle religioni patriarcali, preferisce adeguarsi al capitalismo leggero e globalizzato, concedendosi ciecamente a immeritevoli ragazzotti giovani e belli e assetati di piacere e non a vecchiacci spiantati e bisognosi di affetto, per quanto ricchi. Insomma, Houellebecq è una sorta di redpillatore ante litteram, e la cosa viene altresì confermata in questo libro, che nonostante la subordinazione dei personaggi e delle loro storie/atteggiamenti alla Weltanschauung dell'autore, rimane pur sempre uno spaccato abbastanza inquietante sulla crisi di valori della contemporaneità (un capitalismo basato sul culto malato della giovinezza e della forza, un po' come il nazismo; un sistema antropofago che dietro la facciata progressista nasconde l'Orrore).  Ciò detto, a parte le vicende ridicole della setta degli Elhomiti (una sorta di parodia di Scientology che riesce a far coesistere tendenze orgiastiche, individualismo capitalista e culto dell'immortalità), il problema del libro a mio parere è il riduzionismo di base dell'autore, che insieme al suo perenne cazzo-centrismo riesce bene nelle provocazioni ma non a cogliere la realtà per ciò che è realmente, inclusa la vera tragedia della femminilità (che equivale a quella dell'umanità, in fin dei conti). I suoi personaggi vaginomuniti, per fare un esempio, sono mere bambole sessuali prive di senno, delle "fiche" con le gambe (dopotutto "riduzionismo" significa ricondurre  i fenomeni naturali a modelli semplicistici), oppure donne in carriera che soffrono per la loro vecchiaia (e quindi sono proiezioni femminili dell'autore, come ad esempio Isabelle, che mi è parsa un copia-incolla al femminile del protagonista narrante/alter ego dello scrittore, tant'è che fa pure la stessa fine). 
Datato 2005, il libro narra di Daniel, un comico cinquantenne molto ricco ma mai contento che passa  la maggiorparte del suo tempo a 1) scoparsi la suddetta Isabelle, che poi lascia perché troppo vecchia; 2) a cazzeggiare nella setta degli Elhomiti, un nonluogo fatto di sesso libero, sottomissione al capo carismatico di turno e pan-scientismo transumanista in pieno stile Elon Musk o Silicon Valley; 3) a scoparsi Esther, una ragazzina di facili costumi che come cliché corrisponde esattamente alle attuali influencer cosmopolite (sesso sfrenato, party alla moda con pillole blu e strisce bianche a complemento, viaggi interminabili in aereo da un luogo all'altro del mondo a inquinare e prender cazzi ecc.). Le vicende di Daniel vengono di volta in volta commentate dai suoi cloni del futuro Daniel25 e 26,  che vivono in un'epoca postapocalittica in cui il transumanesimo, ormai divenuto realtà, congiunto a una società completamente dedita all'eliminazione del dolore, ha infine emancipato i neoumani da istinti e passioni. 
La parte SF del libro penso sia molto ben fatta: le riflessioni di Houellebecq, per quanto già presenti nella fantascienza tradizionale, non rimangono mai appese nel vuoto o fini a loro stesse; il finale, poi, è addirittura poetico, anche se pure lui derivativo e ispirato a certi scritti di René Barjavel. Poi, per il resto, gli esseri umani sono per natura stupidi e cattivi perché mi hanno ammazzato il cane e perché la ragazzina non si è messa insieme a me ma ha continuato a scopare in giro (e tu, Daniel, te lo dico da amico, cosa hai fatto per "salvarla"? Amare non vuol dire soltanto penetrare o possedere, anzi, qualcuno diceva addirittura che amare significa "lasciar andare". Troppo triste la vita, vero?). Ciò detto, data questa "fase orale" d'autore ho trovato il libro molto simile all'epopea di Anno Hideaki: un adolescente ingrifato in corpo di adulto che si innamora di una ragazzina di cui diventa subito succube, accorgendosi poi, nel dolore della perdita, di vivere in una società di kids e di essere un kid lui stesso ("sono un bimbo minorato incapace di vivere. Non sono in grado di accettare consapevolmente la brutalità del mondo; non ci riesco e basta"). Ciò che rimane è la fantascienza, l'apocalisse, l'esoterismo, il transumanesimo, la disperazione nella finzione come mezzo sublimativo: Daniel26 che vaga nel nulla ma anche l'End of Evangelion, la post apocalisse catartica con il "che schifo" alla fine. Questa è un po' la quintessenza della postmodernità tutta, in fin dei conti: la Waste Land con i supermercati intatti di Beautiful Dreamer, l'eterno presente e l'harem di Moroboshi Ataru; ma qui siamo già nello step successivo, con la completa inadeguatezza dell'uomo e la più completa disperazione della femmina (di nuovo, "che schifo!"), che è costretta a lasciarsi appassire perché non è mai stata colta per davvero. La morte dell'amore, dell'umanità e tutto, e l'impotenza di fronte alla macchina. Fuochino! Tre su cinque, dai. 

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