domenica 9 novembre 2025

Giochiamo a merda? (Un racconto originale by me) - Parte prima

 Quando ero ragazzino, mio padre mi portava al campeggio con il suo Mercedes MB100, un vecchio furgone mezzo scassato senza finestre né arredamento i cui interni puzzavano di sigaretta e umidità. Il trabiccolo, forse aiutato dalla provvidenza divina, percorreva ai novanta all’ora l’autostrada che conduceva nelle immensità della Valle d’Aosta. Il silenzio, qualche grugnito di lui ed ecco finalmente arrivare una galleria: un breve intermezzo e due file di piccoli quadratini gialli presero per qualche minuto il posto del Sole. Quando ebbi modo di tornare a osservare i nembostrati che abbracciavano le piramidi di roccia all’orizzonte, sentii le orecchie tapparsi. Entrammo in una nuova galleria: mio padre iniziò a parlare delle sue solite cose, come un robot, mentre io, senza ascoltare, guardavo fuori dal finestrino tutto il tempo. 
«C’è professione “mi spacco il culo” e professione “figa”, come tua madre. Professione “figa”, capito?».
In realtà, mia madre mi manteneva facendo la contabile, e non lo aveva mai denunciato per tutta una serie di violenze domestiche che fortunatamente li condussero al divorzio, risparmiando al bambino che ero ulteriori scene d’inferno. 
«Perché stai zitto? Perché non rispondi? Perché guardi sempre di là? Perché…?».
Quell’uomo grande e grosso con il faccione largo, lo sguardo incazzoso e un paio di occhiali da sole che lo facevano sembrare una sorta di emulo di Vasco Rossi, ecco, quell’uomo non riusciva proprio a sopportare il silenzio. Di mio stavo semplicemente pensando al fatto che a breve avrei rivisto il mio amico Itti, il piccolo pakistano adottato dal custode del campeggio. Ripensai a quando l’estate scorsa era salito sullo scivolo per farmi vedere il suo pisellino in maniera trionfale, dall’alto verso il basso, come un vero king. 

«Io mi sono scopato miacuggina quando aveva cinque anni! Sono un uomo, io!».
Nel mentre se lo toccava e lo agitava per aria: per fortuna a quell’ora di gente in giro per il campeggio ce n'era ben poca. Io facevo “sì sì” con la testa: a dodici anni non si possono mettere troppo in dubbio i pavoneggiamenti dei propri amichetti.  
«A cosa stai pensando? A cosa pensi?» riattaccò mio padre, tutto incazzato.
«A niente, pa’… tranquillo».
«Tua madre ti monta contro di me! Tua madre ti monta contro di me!».
«Sì, sì, pa’… Mia madre è cattiva, è una troia».
«Esatto! Esatto! Ma non si dicono le parolacce! Il mio compito è quello di darti un’educazione, capito?».
«Sì, sì, pa’… Hai ragione, scusa, mi dispiace».
Ero proprio un genio: avevo trovato la formula magica per metterlo a tacere un po' di tempo, giusto quell'ultima mezz’oretta di nauseabondi tornanti necessari ad arrivare a destinazione. Mi premeva soltanto rivedere Itti, starmene lì a sentire un po’ dei suoi racconti sporcaccioni e giocare a carte con lui. Non mi interessava nient'altro.

Il furgone era qualcosa del genere, ma senza finestra e fiorellini hippie. 
                        

Il campeggio era situato in una conca racchiusa da una cerchia di montagne imponenti; una in particolare era percorsa da alcune tubature bianche. Mio padre mi spiegò che servivano a tirare fuori l’energia elettrica dal moto dell’acqua, e la cosa mi affascinò non poco. Oltrepassato il cancello, sulla sinistra vi era la terrazza, alla quale si accedeva tramite una breve rampa di scalini, di un grosso edificio che faceva da ristorante e sala giochi; al suo interno, oltre al banco bar, vi erano tre file di tavolacci di legno unto e poi, più in fondo, cabinati, flipper e biliardini. Dall’altro lato invece stazionava la reception: il magrissimo custode dalla barba incolta e dagli occhi azzurri stava fumando una sigaretta davanti alla porta, sfidando l’aria gelida con la sua canottiera estiva. Al suo fianco faceva capolino un pimpante Itti cresciuto di circa dieci centimetri in più rispetto all’anno precedente. Quando l’MB100 oltrepassò il cancello del campeggio, il mio amichetto, con un sorriso a trentadue denti, iniziò ad agitare energicamente la mano, cercando nel frattempo il mio sguardo dall’altra parte del finestrino.  
Mio padre scese dal furgone, salutò i due, accarezzò la testa di Itti e fece finta di provare simpatia per il loro nevrotico barboncino, che saltellava qua e là stridendo come un uccellaccio. Finiti i convenevoli, con grande pragmatismo, iniziò a trattare il prezzo del soggiorno. 
Scesi dal trabiccolo, abbracciai Itti e lo aggiornai con tutte le note, i votacci e i due di picche che mi ero beccato nel corso dell’anno scolastico. 
Quando i due grandi giunsero a un accordo, vidi mio padre tirare fuori i soldi dal portafoglio con una lentezza esasperante, come se si stesse staccando un pezzo di carne dal braccio per farci un ipotetico kebab. Poi, con aria infastidita, andò a spostare il furgone in mezzo alle roulotte e alle Mercedes che c’erano poco più avanti, nella vasta area di servizio del campeggio. 
Dei bambini e delle bambine di sei-sette anni giocavano nudi in mezzo all’erba passandosi a vicenda una palla della Nike da almeno un centinaio di euro. Li vidi tuffarsi in una piccola piscina gonfiabile sotto gli sguardi vigili dei loro vecchi, che se ne stavano lì a fare il cruciverba riparati dal gazebo annesso alla loro roulotte. Mi colpì particolarmente la camicia elegantissima di uno di loro, un capo palesemente di marca ma tuttavia abbinato a un paio di pantaloncini corti tutti strappati. Pensai che mia madre avrebbe detto che quell’abbigliamento era “disgiunto”; “disgiunto” infatti era la sua parola preferita: guai a indossare una maglietta nera con un pantalone blu: sarebbe stata una scelta disgiunta, sgraziata, proprio come quella dell’ipotetico nonno dei bambini nudi.

 


Quando l’abbraccio della sera avvolse la conca, mio padre terminò di predisporre in coda al furgone un gazebo, un tavolaccio, delle sedie pieghevoli e un piccolo fornello a gas. 
Non esistevano smartphone all’epoca: avere un Nokia 3310 era già considerato status symbol. Per rincoglionirmi avevo il Game Boy, sì, ma di base preferivo fare lo scemo con gli amichetti piuttosto che giocarci. Non per nulla, io e Itti ci prendevamo a schiaffi urlando scimmiescamente “teffilzoh” a ogni colpo (per la cronaca,“teffilzoh” voleva dire “t’infilzo”).
Il vento muoveva l’erba tutt’intorno all'MB100. A un certo punto sentii lo strimpellio di qualche chitarra gitana: due signori delle roulotte, con una certa indolenza, si erano messi a percuotere le corde con le loro mani nerastre e increspate. Poco più in là notai due ragazzine ballare in modo energico ed elegante al tempo stesso: la loro dimora si trovava a una trentina di metri circa dal gazebo di mio padre, proprio di fronte a noi. Una delle due portava i capelli raccolti in uno chignon alto che la faceva sembrare una testa d’ananas; l’altra, invece, colpì sia me che Itti, al quale dovetti fare “sst!” sicché, appena la vide, iniziò a gridare e parlare ad alta voce come per attirare l’attenzione. La ragazzina aveva una corporatura molto esile e i capelli lunghissimi, che le arrivavano fino al sedere; indossava una maglia viola decorata con ricami floreali e una lunga gonna nera. I lineamenti del suo viso smunto dai tratti vagamente indiani mi infusero un insolito senso di benessere e armonia: era bello stare lì a guardarla mentre ballava con gli occhioni semichiusi lasciandosi trasportare dal ritmo gitano e dall’aria della sera, il vento e la musica che parevano quasi un’unica, sovrumana forza alla quale lei, anzi di opporvisi, si adagiava ondeggiando come i rami di un salice piangente.  
«È lei la regina delle celebrità!» dissi a Itti.
«La ballerina senza pietà!» strillò lui.
«Oh, Itti, ma tu conosci? L’anno scorso non c’era!».
«No, no, non c’era! Senti, Nobo, io me ne torno dal mio babbo. È ora di mangiare».
«Ma non mangi con noi?» gli chiese mio padre togliendosi la sigaretta dalla bocca e mettendosi pure lui a fissare le dirimpettaie. In quel momento, dalle loro parti, notammo l’arrivo di due uomini sulla trentina dall’aspetto abbastanza minaccioso, ciascuno con un sacco trasparente pieno di monete tra le braccia. Erano due sacchi belli grossi, robusti, da almeno sette otto chili l’uno. Le ragazzine smisero di ballare e si chiusero nella roulette insieme agli uomini. Mio padre si fece più serioso del solito, sbarrò gli occhi e spense la sigaretta sul tavolino. Itti dal canto suo fece finta di niente e concluse: «Ora è tardi, devo andare a mangiare… Ciao!».
Silenzio. 
Fissai il suolo e mi voltai verso mio padre: «Hanno smesso di suonare, pa’…».
«Non mi interessa, sono zingari quelli. Mangia comunque, che la zuppa si raffredda».
Feci cenno di sì con la testa e lui, per proteggersi dal silenzio, accese la radio. Il tempo di qualche cambio di frequenza e, mentre inzuppavo il pane raffermo nella sbobba, aggiunse: “Senti, c’è Giorgia... è bella Giorgia, eh? Sembra quasi tua madre».
«Fa musica deprimente, mi fa venire il mal di testa».
«Il suo fidanzato è morto mentre andava in moto…».
    «Non mi interessa» risposi io facendo spallucce. E fu così che mi rassegnai ad ascoltare la musica triste di mio padre, una cosa ben diversa dai miei energici e rabbiosi Iron Maiden e Judas Priest.

 

Vidi le due ragazzine uscire dalla roulotte e andare verso la sala giochi. Ero comunque troppo stanco per seguirle.
«Oh pa’, ma come mai quei due tizi tenevano in braccio sacchi pieni di monete?».
«Boh, sarà il ricavato delle giostre… che ne so, io».
«Ah, ok… capito».
«Comunque tu impara a pensare ai fattacci tuoi. Non fare troppe domande. Ok?».
«Ma se poi non ti dico niente tu ti arrabbi… cosa devo fare, allora?».
«Mi stai prendendo per il culo, Nobo? Sei proprio come tua madre! Sì, sei proprio come lei!».
«Va bene, va bene… scusa…» dissi cercando di trattenere la rabbia.  Lui sbottò: «Andiamo a dormire, va!».
Ovviamente dormii poche ore, dato che il furgone non aveva finestre e mio padre russava molto forte, agitandosi nel sonno. A distanza di molti anni mi ricordo ancora intensamente la sua puzza di calzini sporchi, sudore e sigarette, una commistione di odoracci coronata da un retrogusto dolceamaro di dopobarba. In quelle notti di campeggio, il tanfo degli interni dell’MB100 era come se mi salisse fino al cervello per poi ridiscendere verso la gola: certe volte avrei voluto soffocarci dentro e farla finita, un po’ come quando pensavo di buttarmi giù dalla macchina in corsa quando il mio genitore, tutto teleguidato dalle sue strane paturnie, esagerava con i gesti e le parole. 

Passò qualche giorno in cui solitamente, quando ero libero dalla presenza ingombrante di mio padre, mi mettevo a giocare o al Game Boy (il mio gioco preferito del periodo era Donkey Kong Land) o a solitario. Mi sedevo sempre allo stesso tavolo sulla veranda del bar ristorante con i cabinati, un posto strategico che mi permetteva di ammirare il panorama montano e di osservare la gente che andava e veniva dal locale. Mi capitava spesso di incrociare la zingara vestita di viola e nero, che ogni tanto mi sorrideva facendomi un cenno con la mano.
Arrivò poi il sabato: mio padre se ne andò in paese e per un po' di tempo fui completamente libero. Dopo averlo salutato, mi diressi subito al bar per fare colazione. C’erano anche la zingara in viola e nero e la testa d’ananas: fissavano il paesaggio montano con i gomiti appoggiati alla ringhiera di legno di abete della veranda, parlando in una lingua che non conoscevo. Ero troppo timido e insicuro per salutarle o attirare la loro attenzione: per di più, ogni volta che incrociavo gli occhioni grandi e i lineamenti fini della prima delle due, dell’inarrivabile regina delle celebrità senza pietà e così via, mi sentivo profondamente turbato. Dopo aver ordinato la colazione mi sedetti a un tavolino lì fuori, il più lontano possibile da loro, facendo finta di niente. Osservai un po’ Itti giocare con una macchinina telecomandata sulla ghiaia dell’ingresso del campeggio; la colazione arrivò e mentre stavo pucciando un croissant alla crema nel cappuccio, l’oggetto dei miei desideri, contro ogni mia previsione, venne verso di me, si lisciò i capelli con la mano piena di anelli d’oro e sorrise. Era vispa, piena di energia ma allo stesso tempo sottile come un foglio di carta.
«Ehi, ciao! Giochiamo a Merda? Sai giocare, no? Ti ho visto ogni tanto giocare a carte da solo».
«Eh?» risposi io. «Che gioco è? Io so soltanto giocare al solitario».
«Dai, finisci di mangiare che ti insegno...». La zingara in viola e nero, dopo essersi arrotolata una ciocca di capelli con l’indice, guardò indietro e, alzando leggermente la voce, si rivolse alla testa d’ananas: «Giochi pure tu, Catiuscia?».
«Chiamami Cati, non Catiuscia! Mi fai sentire vecchia!» ribatté l’altra.
«Va bene, va bene…». La regina delle celebrità si voltò verso di me e fece una faccia tanto buffa quanto sconsolata: «Eh, ’ste sorelle…”. Poi diventò subito euforica: “E tu? Tu come ti chiami?».
«Mi chiamo Nobo, piacere… Sei… sei… ehm… molto… b… bella».  
Catiuscia, o Cati o testa d’ananas che dir si voglia, ormai giunta pure lei nei pressi del mio tavolo, trasalì per poi mettersi a ridere con malizia.

«Grazie, Nobo. Io mi chiamo Laura. Vado a prendere le carte» e con passo felpato la regina entrò nel locale. Il mio cuore si mise a battere forte forte; inspirai ed espirai malinconicamente, senza rendermene neanche conto. Non avevo mai provato una cosa del genere per qualcuno: le mie compagne di scuola mi erano pressoché indifferenti: con loro non mi ero mai sentito istintivamente “a casa” come era appena successo con quella strana ragazzina.
«Bene, questa è la pila di merda» osservò ridacchiando Laura. «È un po’ come la vita» e si mise a mescolare il mazzo con un’abilità quasi da professionista. «Allora, Nobo: quando dico “via” si ruota… Giusto per spiegare: tu prendi una carta che ti dà mia sorella Cati e ne dai una a me. Chi si ritrova quattro carte uguali deve gridare “merda!” e mettere la mano sulla pila di merda, capito? Così, ciaff!».
«E chi vince?» chiesi io.
«Non pensare a chi vince, pensa a chi perde. Quando uno dice “merda!” tutti gli altri devono seguirlo e buttare in fretta la propria mano sulla pila. Il più lento prende merda, cioè pesca. Un Re, una Donna o un Fante sono dieci chili, i numeri valgono sette, sei, cinque chili e così via. Ok?».
Laura parla proprio bene, pensai. Sicuramente meglio di me, che facevo fatica a formulare un discorso sensato. 
«Dai, giochiamo!» esclamai, facendo finta di aver capito.

 


Catiuscia prese le sue quattro carte in mano con svogliatezza, mentre sua sorella Laura dava il via alla partita con un sorriso carico di soddisfazione. 
«Via! Via! Via! Merda!» e buttai le carte per ultimo. 
«Via! Via! Via! Via! Merda!». 
«Via! Via! Via! Via! Merda!». 
«Via! Via! Via! Via! Merda!» e Laura vinse la partita.
Qualche altra mano di carte e Catiuscia disse: «Io me ne vado, fra poco arriva Shon».
«Va bene, io resto ancora un attimo» le rispose Laura.
«Chi è Shon?» chiesi io quando rimanemmo soli.
«Nessuno, non ti preoccupare». La regina delle celebrità cercò di fare una faccia comprensiva e proseguì: «Ma come fai a dormire in quel furgone? I miei fratelli ieri sera ti hanno riso dietro».
«Intendi quei due tizi lì con i sacchi pieni di monete?».
«Sì…».
«Mio padre ha deciso così, e io non posso farci niente».
«E tua madre dov’è?».
«I miei hanno divorziato quando avevo sei anni... Hanno l’affidamento congiunto e vengo sballottato di qua e di là tutto il tempo…».
Laura mi guardò come se le avessi fatto una gran pena. Mi toccò la mano con dolcezza ma io, preso dall’imbarazzo, la ritrassi. Le chiesi quanti anni aveva.
«Ho tredici anni, Nobo. E tu?».
«Undici».
«Ah, sei grande allora! Fra poco potrai cercarti moglie!».
«Eh? Ma non sono troppo piccolo?».
«Ma no, dai. A me dicono già di sposarmi…».
«Ma il prete ti lascia sposare a tredici anni?».
«Quando ci vogliamo sposare scappiamo via con il nostro ragazzo e quando torniamo siamo già sposati. I preti non servono a niente, credimi».  
«Che cosa romantica… Piacerebbe pure a me sposarmi così».
Le labbra sottili di Laura formularono un sorriso caloroso, puro, la definizione stessa di “vita”. Mi accarezzò nuovamente la mano, che questa volta non ritrassi. 
«Non essere troppo triste, siete tutti tristi voi gagé!». 
La regina delle celebrità si alzò dal tavolo, mi diede la schiena e fece qualche passo molto lento verso l’uscita del bar, voltando ogni tanto di lato la testa come se si aspettasse che le dicessi ancora qualcosa.
«Ehi, ehi! Ci rivedremo?».
Lei si fermò, si toccò i capelli e sorrise di nuovo. «Siamo vicini di casa, no?». 
 «Certo!» e rimasì lì inebetito a contemplare il solco che le sue piccole natiche lasciavano lungo quella lunga gonna nera che indossava. Lei non tardò ad accorgersene e mi lanciò un’occhiata vagamente languida, uno sguardo che mi fece trasalire. «Oh, ma co.. co…  cosa vuol dire gagé? No… No...  Non ho mai sentito questa parola…».
«I gagé sono quelli che non sono come noi» rispose lei facendosi subito cupa.
«Ed è un problema per te, questo?».
«No, non ti preoccupare, Nobo. Tu non sei poi così diverso da me». E Laura, dopo avermi salutato, se ne andò via. [Continua]

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