sabato 27 agosto 2016

Digimon Tamers: Recensione

Titolo originale: Digimon Tamers
Regia: Yuko Kaizawa
 Soggetto: WiZ, Chiaki J. Konaka
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Nakatsuru Katsuyoshi
 Musiche: Arisawa Takanori
 Studio: Toei Animation
Formato: serie televisiva di 51 episodi
Anni di trasmissione: 2001 - 2002


Nel 2001, nonostante il passaggio al nuovo millennio fosse già avvenuto, le leggende sul fantomatico millennium bug non erano ancora del tutto svanite. In Giappone – e non solo - nei primi anni della “nuova era” il contesto non era poi così diverso rispetto alla seconda metà degli anni novanta; la transizione verso un orizzonte temporale ignoto e a suo modo “astratto”, assai mitizzato e temuto dai media, portava con sé tutte le vecchie fobie e paranoie di una società decisamente poco disposta al cambiamento, che aveva sperimentato il peso dell'incertezza con la crisi economica novantina e, sin dagli anni ottanta, ricercato una comunione animistica e sacrale con la tecnologia, la quale, venendo percepita come un qualcosa “divino” grazie allo shintoismo, quando s'incominciò a pensare che potesse manifestare i suoi lati negativi - sopratutto se a livello digitale e informatico - inquietò parecchio i giapponesi, che rimanevano spiazzati nell'ammettere che avrebbe potuto trasformarsi da dio benevolo e utile alla vita di tutti i giorni nel peggiore dei demoni, un “oni” il quale, una volta andato fuori controllo, avrebbe minato la società nelle sue fondamenta. La terza serie animata dedicata ai videoludici “mostri digitali” creati dalla WiZ nel 1997 al fine di emulare il successo planetario del Tamagotchi, quasi come se in un contesto del genere l'avesse deciso il destino, viene affidata interamente a Chiaki J. Konaka, uno dei creatori – nonché sceneggiatore – di “serial experiments lain”, uno degli anime più complessi, iconici e profondi mai realizzati, che nella seconda metà degli anni novanta aveva spiazzato pubblico e critica col suo innovativo tecno-animismo duro e privo di compromessi. Nasce così “Digimon Tamers” - non a caso definito da alcuni come un «“serial experiments lain” per bambini» -, la serie più matura e introspettiva del brand.

 
Ben conscio che il target primario della sua opera per volontà dei produttori di giocattoli debba essere quello infantile, Chiaki J. Konaka, abituato a scrivere sceneggiature di anime per adulti, decide di impegnarsi al massimo delle sue potenzialità nella realizzazione della sua nuova creatura, conferendo ai digimon e all'ambiente in cui si muovono un taglio più realistico: innanzitutto, gli “yokai” digitali che danno il nome all'opera diventano delle intelligenze artificiali create dall'uomo, il cui scopo primario, proprio come accade nel regno animale, è combattere tra loro per potersi “mangiare” a vicenda (ovviamente assorbendo i dati dei loro simili uccisi in battaglia). Nondimeno, nel momento in cui il mondo digitale in cui essi vivono e quello materiale si sovrappongono – proprio come accadeva in “serial experiments lain” tre anni prima, in cui il cyberspazio si fondeva col mondo reale per mezzo della risonanza Schumann -, viene contemplata la possibilità di una evoluzione/digievoluzione non più indotta dall'assimilazione dei dati della preda uccisa come prestabilito dalle leggi di digiworld, ma dal contatto con un tamer (ovvero un “domatore” di digimon). Per i “mostri digitali” questa nuova modalità di crescita è strettamente correlata al livello di profondità del rapporto d'amicizia che li lega al loro patner umano; il punto di arrivo di tale percorso è la fusione tra uomo e digimon, che nell'opera equivale ovviamente a un qualcosa di divino: la tecnologia, caratterizzata dalle stesse leggi della natura (di nuovo, shintoismo), diventa tutt'uno con i protagonisti della serie in un'armoniosa unità indivisibile, che oltre a segnare l'avvento della maturità dei bambini e il raggiungimento della comunione spirituale con i loro amici digitali, simboleggia altresì la perfetta fusione animistica tra uomo e macchina, nella quale quest'ultima viene definitivamente “addomesticata”, umanizzata e controllata.


Al fine di “sincronizzare” il franchise dei digimon con gli aspetti della vita quotidiana dei piccoli telespettatori, in “Digimon Tamers” viene introdotto il Card Slash, ovvero i protagonisti della serie possono utilizzare delle carte del trading card game dedicato ai digimon (ben noto ai bambini giapponesi sin dal 1998) per potenziare il loro “yokai” durante i combattimenti. In modo analogo a quanto accadeva nei tokusatsu televisivi settantini, l'atto di strisciare le carte da gioco sul digivice (quella specie di Tamagotchi che hanno in dotazione i tamers) assume i connotati di un rituale in piena regola, coadiuvato dalla ripetizione di una sequenza carica di coolness factor la quale, allo stesso modo di quella della digievoluzione, cambia di personaggio in personaggio e viene accompagnata da un incalzante brano di sottofondo. Oltre a coinvolgere i bambini che all'epoca accorrevano nelle sale da gioco per sfidarsi con le loro carte, il Card Slash accresce il realismo voluto da Konaka nell'opera e rende le battaglie tra digimon leggermente più complesse rispetto a quelle delle serie precedenti, in quanto in esse la componente strategica assume una maggiore rilevanza.


Essendo un anime – almeno teoricamente - per bambini, “Digimon Tamers” presenta una narrazione molto lineare, la cui chiave di volta è l'interazione tra i vari personaggi, siano essi adulti, bambini o esseri provenienti dai meandri più remoti di digiworld. Sino al ventiquattresimo episodio le vicende si svolgono lentamente e “pacificamente”, lasciando allo spettatore il tempo per familiarizzare con i vari protagonisti; giunto il trentaquattresimo episodio, invece, l'opera si rivela per ciò che è realmente, ovvero un anime che soltanto nell'apparenza pare user-friendly, sicché nella sostanza presenta tutti i crismi tipici del cupo filone della Nuova Animazione Seriale introdotto da “Evangelion” a metà anni novanta, in particolare dello stile personale di Chiaki J. Konaka – uno dei massimi esponenti della suddetta corrente stilistica -, del quale il reset the world, l'introspezione psicologica dei personaggi, l'esoterismo, il simbolismo e il citazionismo colto sono i tratti fondamentali. Per quanto concerne gli aspetti tecnici, “Digimon Tamers” si rivela nella media per le produzioni Toei del suo periodo: la regia è perfettamente funzionale a quanto narrato – e regala allo spettatore innumerevoli scene commoventi, cariche di pathos e assai ispirate -, mentre invece le animazioni, causa crisi economica ed elevato numero di episodi, sono soggette alle leggi del risparmio. Nonostante abbia fatto molto parlare di sé all'estero, la terza serie sui digimon in Giappone non ebbe un'accoglienza delle migliori (si parla di uno share del 10,2%). E' fondamentale notare che “Digimon Tamers” è una serie del tutto indipendente dalle due precendenti: sebbene Konaka abbia ricevuto durante la lavorazione dell'anime alcune lettere nelle quali i fan lo invitavano ad inserirvi riferimenti a “Digimon Adventure” e al suo sequel, egli, siccome riteneva ingiusto e disonesto da parte di uno scrittore cedere a questo tipo di richieste, si rifiutò categoricamente di inserire del fanservice nell'opera (gli autori di anime dell'oggidì avrebbero molto da imparare da Konaka).


Quando crea i suoi personaggi, il geniale sceneggiatore cerca dapprima di caratterizzarli in modo che siano credibili come “esseri viventi”, e poi, soltanto in un secondo momento, li dota di un passato e stabilisce i dettagli del contesto nel quale si muovono. Questo fa sì che, in quanto a loro modo “vivi”, gli attori di Konaka crescano, maturino, si pongano delle domande e agiscano in modo realistico alle circostanze esterne nelle quali si ritrovano invischiati. Per quanto concerne il cast di “Digimon Tamers”, questa regola viene del tutto confermata, grazie altresì al contributo del character designer Katsuyoshi Nakatsuru, del quale Konaka ha dichiaratamente apprezzato la potenza espressiva delle illustrazioni, che sono state per lui una valida fonte d'ispirazione nella creazione di alcune figure indimenticabili.


Takato, il protagonista principale della serie, è un ragazzino come tanti altri, del tutto privo di qualità speciali. I produttori di “Digimon Tamers” si dimostrarono inizialmente refrattari a tale caratterizzazione, in quanto fraintendevano il tipo di normalità voluta dal creatore con l'immagine mentale di un personaggio “silenzioso” e “ritirato”. Dopo numerose insistenze, Konaka ebbe via libera, e prese forma quel bambino ordinario, determinato e solare il cui più grande piacere è costruirsi il proprio digimon – Guilmon - per poi giocarci in tutti i momenti liberi della giornata. Quest'ultimo è liberamente ispirato ai kaijyu, i mostri giapponesi come Godzilla o Gamera; essendo un otaku di prima di generazione – guardacaso la stessa del suo “collega” Hideaki Anno -, Konaka ammette di essere cresciuto con “Ultraman” e i film sui kaijyu, che hanno avuto su di lui un forte impatto formativo. L'amore di Konaka per i digimon deriva dal suo associarli – sebbene egli riconosca che ciò in realtà sia improprio, giacché i “mostri digitali” sono dei “mostri dell'era moderna” e non del passato – ai kaijyu televisivi del suo tempo. E' interessante notare che inconsciamente, come egli stesso ammette, Konaka abbia riversato in “Digimon Tamers” un'idea di base che intendeva utilizzare nel progetto di un film – poi accantonato – sui mostri, da lui concepito e sviluppato con il fratello regista Kazuya Konaka: un bambino incontra un piccolo kaijyu, quest'ultimo lo segue a scuola e poi scoppia il panico. Nelle prime tre puntate della serie, sebbene i dettagli dell'idea originaria dei fratelli Konaka sia diversa, l'artista ha avuto modo di realizzare un progetto a lui doppiamente negato – il concept filmico dei fratelli Konaka era stato da loro scritto e proposto per quel remake di Gamera che in seguito verrà affidato a Kazunori Ito e Shuusuke Kaneko, “Gamera: Guardian of the Universe”, rivolto ai nostalgici e non ai bambini (il pubblico più idoneo a quanto steso dai due Konaka).
Altri riferimenti all'immaginario otaku di prima generazione presenti in “Digimon Tamers” sono la digievoluzione finale di Guilmon, Dukemon, il cui volto ricorda molto quello di “Mazinger Z”, e Justimon, palese omaggio a “Gekko Kamen”, nonché i tipici rimandi apocalittici onnipresenti nelle creazioni dell'autore.


Guilmon, mostriciattolo innocente e “puro” nella sua “animalità”, è ben diverso da Impmon, il diavoletto problematico che la WiZ intendeva imporre come digimon principale dell'opera (fatto al quale Konaka si era fermamente opposto, dato che voleva il suo illibato kaijyu come protagonista). Impmon è un disadattato, traumatizzato da due padroncini che se lo contendono selvaggiamente come se fosse un pupazzo e fermamente deciso ad accrescere ad ogni costo il suo potere, giacché è perennemente afflitto da un forte senso d'inadeguatezza, che gli impedisce d'interagire con esseri umani e digimon senza manifestare il suo disagio tramite provocazioni e prese in giro. Il sarcastico e tormentato demonietto – in gran parte scritto da Atsushi Maekawa, sceneggiatore che tra l'altro non viene nemmeno accreditato nello staff della serie - è uno dei personaggi meglio caratterizzati di “Digimon Tamers”, la cui crescita passa attraverso un grande errore - proprio come il Faust, egli vende l'anima ad uno degli antagonisti per ottenere il potere che desidera, potere che, preso com'è dalla rabbia e dalla sua psicosi, il digimon utilizza nel peggiore dei modi possibili, creando il massimo danno -, il senso di colpa e la depressione ad esso conseguenti, la rinascita spirituale e la presa di coscienza finale, nella quale questa volta Impmon riesce a trasformarsi in Beelzebumon (la sua digievoluzione ultima, uno dei digimon a parer mio più carismatici e badass del brand) utilizzando questa volta il suo grande potere per redimersi – sia agli occhi dei suoi padroncini che degli amici che ha ferito. Finalmente, una volta maturato, Impmon sarà in grado di accettarsi e di accettare gli altri, nonostante tutti gli errori compiuti in passato (personalmente, nell'epopea di Impmon ho letto una velata critica al modello americano, basato sulla competitività, sulla prevacarizione del prossimo, sul successo a tutti i costi anche a scapito della coesione sociale - valore fondamentale per i giapponesi. Infatti, la redenzione di Impmon, dapprima solitario predone insensato paragonabile a quei cowboy americani senza legge e morale - Beelzebumon che vaga per il deserto senza meta su una moto, armato di due fucili -, consiste proprio nell'accettazione del legame emotivo col gruppo e nella soppressione dell'egoismo cattivo che nasce da un individualismo “strumentalizzato”, malinconico, irragionevole e privo di consapevolezza). Ciò detto, in origine la caratterizzazione del piccolo disagiato non doveva essere quella realistica e sentita sviluppata da Maekawa e Konaka: secondo i piani della WiZ, Impmon avrebbe dovuto essere uno dei cattivi principali sino a metà serie. Infatti il gioco “Digimon Medley” riflette pienamente questo fatto.


Ruki Makino, entrata nel cuore del fandom per la sua personalità e verosimiglianza psicologica, è indubbiamente un personaggio memorabile, sebbene le premesse della sua caratterizzazione siano prevalentemente legate al marketing. Inizialmente, il produttore Hiromi Seki voleva che i tre protagonisti principali di "Digimon Tamers" non fossero tutti maschili, e che nel gruppo fosse presente un gaijin o comunque un bambino non cresciuto in Giappone. Ma le alte sfere della Bandai (l'azienda sponsor della serie), in virtù delle indagini di mercato, sapevano che i giocattoli basati su figure femminili non avrebbero riscontrato un buon successo presso il fandom dei digimon (il quale è prevalentemente maschile), pertanto Konaka e i suoi collaboratori ebbero l'idea di rendere l'unica ragazzina del gruppo più forte di tutti gli altri, e di accoppiarla con un digimon altrettanto potente. Nelle fasi preliminari di pianificazione, il creatore della serie aveva in mente di rendere il suo maschiaccio simile alla Trinity di “Matrix” (le bozze iniziali del personaggio stese dal character designer riflettono pienamente questo fatto). Soltanto in un secondo momento Konaka e Nakatsuru vennero illuminati da una formidabile intuizione: l'acconciatura “ad ananas” che fa di Ruki un personaggio a suo modo unico. Nonostante la ragazzina dovesse essere forte per le esigenze di marketing di cui sopra, Konaka non voleva in alcun modo che utilizzasse un linguaggio duro e volgare. Molti sforzi dell'autore furono diretti verso la rappresentazione del contrasto tra il lato più adulto della suddetta e quello più infantile, una dicotomia psicologica la quale, assieme al rapporto conflittuale che la protagonista ha con la madre (che la tratta come amica e la fa vestire da donna, cose che Ruki non accetta in alcun modo), contribuisce a creare una personalità contorta e particolare. E' fondamentale notare che Ruki vive in una famiglia senza padre in quanto Konaka, nel periodo del concepimento di “Digimon Tamers”, aveva fatto delle ricerche sul numero di bambini delle scuole elementari che vivevano senza una figura paterna di riferimento o in una famiglia composta da un solo genitore, scoprendo che questi casi erano molto diffusi nel Giappone dell'epoca. Sebbene l'essenza della personalità di Ruki non sia dovuta all'assenza di una figura paterna di riferimento, mediante la sua situazione familiare Konaka si rivolgeva a quei bambini i quali, proprio come lei, avevano vissuto in prima persona la crisi della famiglia giapponese tradizionale.
Come fa notare l'artista, nell'ultimo episodio della serie Ruki asserisce che «per gli esseri umani non è facile cambiare»; ma, ironia della sorte, ella è proprio il personaggio che alla fine più è cambiato in assoluto – se prima, quando era chiusa in sé stessa e incurante di stabilire un legame affettivo col suo digimon, l'adorabile “testa d'ananas” indossava una maglietta con un cuoricino spezzato, quando avviene la sua maturazione se la toglie, e ne indossa una con un cuore integro. La crescita di Ruki è un percorso che porta da frammentazione a unione, sia interiore che esteriore, e la naturelezza del suo sviluppo è stata percepita anche dallo stesso Konaka, che fa notare come la relazione tra Ruki e Renamon si sia evoluta spontaneamente, senza che gli sceneggiatori se ne rendessero conto. Certi processi creativi, in fondo, vengono direttamente dall'inconscio, che li prestabilisce autonomamente per poi dirigerli verso l'esterno, mediante varie forme che paiono plasmate col cuore. Infatti, lo sceneggiatore di “serial experiments lain” è stato molto felice e soddisfatto del lavoro svolto su “Digimon Tamers”, anche per quanto concerne il film "Runaway Digimon Express", nel quale a suo dire il regista Tetsuharu Nakamura (che nella serie aveva lavorato come assistente alla regia) e lo sceneggiatore Hiro Masaki (presente anche lui nello staff dell'opera televisiva), nonostante egli non fosse presente durante la lavorazione, erano riusciti a prestare la dovuta attenzione agli aspetti psicologici presenti nella serie e a illustrare i retroscena inerenti la famiglia di Ruki che in essa non venivano esposti.
Ritornando alla nostra “testa d'ananas”, è da elogiare la scena nella quale, dopo un momento introspettivo carico di pathos, ella si fonde con Renamon raggiungendo il grado più alto della digievoluzione, una sequenza di grande bellezza accompagnata da un canto melodioso, quasi sacrale – a sottolineare il carattere divino della trasformazione vi è un'analogia di sottofondo tra Sakuyamon e la Dea Lunare del matriarcato, che guardacaso è la digievoluzione successiva a Taomon, il digimon del Tao. Il canto è altresì una delle armi della sintesi tra Ruki e il suo digimon, altro particolare molto brillante voluto da Konaka in persona.


Il ragazzino immigrato in Giappone voluto dal produttore Hiromi Seki si tratta del terzo membro del trio di personaggi principali, Jianliang Lee, che per volere di Konaka non viene reso completamente straniero, ma mezzo cinese e mezzo giapponese - questa scelta era dovuta all'incremento degli studenti gaijin all'epoca riscontrato nelle scuole elementari nipponiche.
Lee-kun (così inizialmente lo chiama Takato, utilizzando un suffisso che denota rispetto ma anche un certo distacco) è un pacifista convinto, il cui scopo iniziale, a detta stessa del suo creatore, è quello di fornire un punto di vista differente rispetto ai valori e alle credenze infantili di Takato. Ciò premesso, anche questo personaggio andrà incontro ad un graduale processo di crescita, e se dapprima si rifiutava di far evolvere il suo Terriermon (già introdotto dal film di “Digimon Adventure 02” uscito un anno prima del qui presente “Digimon Tamers”), in seguito comprenderà che il pacifismo sterile e fine a sé stesso è inutile. Jianliang Lee è il personaggio che vive il dramma familiare più complesso, e la sua tensione interiore, dapprima sfogata sul suo digimon, con l'avanzare degli episodi colpirà i suoi vari cari, trasmettendo allo spettatore le difficoltà intrinseche presenti nella crescita di un piccolo uomo il quale, per quanto equilibrato, intelligente e dotato di buon senso, si ritrova a dover stabilire con una certa difficoltà quale sia la sua posizione nel mondo e che ruolo giochino le altre persone in tale demarcamento.


L'ambientazione di “Digimon Tamers”, dato che uno degli scopi prefissati di Konaka è quello di rappresentare gli effetti che potrebbe avere l'esistenza dei digimon nel mondo reale, per la maggiorparte della serie consiste nel quartiere di Shinjuku ovest (la tana di Guilmon nel parco, il tunnel in cui i bambini nascondono la sua digievoluzione perché troppo ingombrante, la scuola di Takato ecc. sono tutti luoghi realmente esistenti). Questa scelta stona completamente con le due serie precedenti, nelle quali l'ambientazione prevalente era un mondo digitale fantastico dotato di un certo sense of wonder. Ciò premesso, anche in “Digimon Tamers” ad un certo punto i protagonisti si recheranno a digiworld, ma, nuovamente, esso si rivelerà del tutto antitetico rispetto ai suoi antesignani: il mondo digitale di Konaka è surreale, spietato, e in esso il mondo reale costituisce una sorta di sole oscuro dotato di anelli di campi di dati che “illumina” delle tetre lande desolate (questo suggestivo design è dovuto al consolidato talento visuale di Shinji Aramaki, che cura altresì la CGI delle splendide scene biomerge delle digievoluzioni finali). In tale dimensione “parallela” - liberamente basata sul concetto di World Wide Web - non vivono soltanto i digimon, ma anche i digignomi, delle creature ispirate alla mitologia celtica che si sono evolute in modo indipendente sia dall'uomo che dai digimon. E poi, ibernato nelle profondità dell'abisso virtuale, vi è il D-Reaper, un programma adibito a “resettare” il mondo in cui si trova - riportandolo nello “stato fondamentale” equivalente al vuoto - nel caso in cui il numero di specie viventi in esso presenti sorpassi l'ammontare di RAM necessaria a mantenerlo in vita. Inutile dire cosa possa succedere nell'eventualità in cui esso diventi operativo nel mondo reale postmoderno, così sovraccarico di entropia, simulacri e informazioni fini a loro stesse; ma a questo punto dello scritto, è ancora troppo presto per tentare di imbastire delle riflessioni sulla geniale intuizione narrativa di Konaka.


Sempre nel momento in cui gli abitanti di digiworld – realisticamente parlando – s'insinuano in quello che rappresenta il nostro mondo, è inevitabile che l'agenzia governativa che dapprima monitorava le comunicazioni elettroniche del pianeta - Hypnos, palese citazione all'omonimo racconto breve di H. P. Lovercraft - si prefigga un nuovo scopo, ossia di cancellare tutti i digimon dalla faccia della terra, in quanto ovviamente li considera pericolosi per la salvaguardia del genere umano. Inizialmente, lo scopo di Hypnos – comandata da Mitsuo Yamaki, misterioso “man in black” che indossa gli occhiali da sole anche di notte e apre e chiude compulsivamente un vecchio accendino zippo in qualsiasi circostanza – è di costruire un'arma in grado di distruggere i digimon: questo obbiettivo porterà alla nascita di Yuggoth (marchingegno che porta lo stesso nome di un pianeta immaginario del ciclo di Cthulhu) e Shaggai (citazione del racconto breve “Gli Insetti di Shaggai”, scritto da Ramsey Campbell e basato su un'idea di Lovercraft), temibile arma in grado di strappare via l'anima dei digimon dal loro corpo, dando origine a scene lievemente disturbanti.


Se nella prima parte dell'anime Mitsuo Yamaki si rivela un pericoloso antagonista che agisce nell'ombra, col proseguire della storia capirà di aver sbagliato, e si unirà alla causa dei bambini aiutando i creatori di digiworld e dei digimon – il Wild Bunch Group, ispirato al team di menti geniali che creò lo Xerox Alto a inizio anni settanta e il primo gioco di ruolo in rete, nonché ad Alan Kay, il creatore del Dynabook -, tra i quali è presente Jiang-yu Lee, padre di Jianliang Lee e adulto meglio caratterizzato dell'opera, giacché nello sviluppo delle tematiche di “Digimon Tamers”, l'interazione padre-figlio per Konaka è fondamentale. Come molti anime del suo tempo che tentano di affrontare l'avanzare della postmodernità con ricette tipicamente giapponesi quali amicizia e coesione sociale/familiare, la terza serie dedicata ai digimon, sebbene ciò non sia stato inizialmente previsto dal suo creatore, fornisce dei ritratti familiari molto umani e credibili. In particolare, il settimo e il ventiquattresimo episodio si focalizzano principalmente sul rapporto tra genitori e figli, genitori che, escluso lo “straordinario” Jiang-yu Lee, sono persone normali, di tutti i giorni, che nel momento in cui i figli rivelano loro che dovranno recarsi a digiworld per il bene di tutti, rischiando anche la vita - Konaka, in modo molto coerente con i suoi intenti educativi, non vuole assolutamente mostrare dei figli che mentono ai genitori o che spariscono senza avvisarli -, rimarranno sconvolti, in parte contrariati e in parte fieri del coraggio dei loro bambini. Konaka elogerà apertamente il lavoro fatto dallo sceneggiatore Hiro Masaki nel quarantesettesimo episodio, quello in cui viene mostrata la reazione del padre di Juri alla psicosi della figlia: stando alle parole del creatore, che inizialmente aveva concepito il suddetto come un genitore freddo e distaccato, Masaki ha saputo approfondire al meglio questo piccolo particolare, espandendolo sino al nucleo dei drammatici risvolti dell'opera.


«Ehi, possiamo cambiare il destino?»
«Certo che possiamo.»
«[...]»
«Non possiamo cambiare il passato, ma...
Possiamo cambiare noi stessi in modo tale da poterlo accettare.»
«Intendi dire che non dovremmo curarcene?»
«Anche se non possiamo cambiare il passato, possiamo cambiare il presente.
Cambiando il presente, possiamo cambiare il futuro.
Comunque...
Non possiamo imporre questa idea a ognuno.
Juri deve cercare di cambiare da sé.» [Dialogo tra Ruki e Renamon]

Nel progetto di “Digimon Tamers” che presenta ai suoi datori di lavoro, Konaka dichiara di voler comunicare ai bambini postmoderni, che secondo lui sono fin troppo passivi, a sviluppare una propria volontà (infatti Takato si “costruisce” il suo digimon da solo e, come tutti gli altri protagonisti della serie, possiede un vasto potere decisionale). In seguito, durante la lavorazione dell'opera, lo staff si chiede in che modo vada affrontata la morte di un digimon: se esso debba rinascere o se la sua scomparsa debba essere una cosa definitiva, drammatica, che lasci un senso di vuoto attorno a sé, proprio come la morte di una persona nel mondo reale. Sin dall'inizio della lavorazione dell'anime, Konaka aveva in mente la seconda opzione. Per lui in un cartone per bambini la morte non va trattata con leggerezza: infatti, la tragica dipartita di un personaggio a serie inoltrata diventerà il punto di partenza per trasmettere un messaggio molto forte ai piccoli telespettatori, ovvero che vita e morte non sono affatto cose insensate, e che il destino va compreso e accettato positivamente, senza alcuna tendenza al nichilismo – potente monito al limite del religioso decisamente confortante ed educativo per dei bambini che percepiscono la perdita di valori, la solitudine, la vuotezza interiore e il disagio esistenziale dei loro fratelli maggiori. La triste vicenda della dolce, allegra e solare Juri, che una volta fatta l'esperienza diretta della morte di un amico, si chiude nel suo dolore, ossessionata da un trauma appartenente al passato (la morte della madre, avvenuta quando ella era ancora molto piccola) e da un destino che non riesce a comprendere, soffocata com'è dalla sofferenza e, in ultima sintesi, dalla paura che tutto ciò che sta vivendo sia privo di ogni finalità, non era stata inizialmente prevista da Konaka. Quest'ultimo, nonostante assieme al regista Yukio Kaizawa (è sua l'idea di rendere Juri una ventriloqua che ama giocare con un pupazzo da mano) avesse già deciso nelle fasi iniziali della lavorazione il passato del personaggio, decise di non rivelare il suo trauma infantile sino al momento in cui non fosse servito allo sviluppo della trama.


Come dicevo, essendo firmato da Chiaki J. Konaka, “Digimon Tamers” non rinuncia all'esoterismo e ad alcune incursioni nella filosofia e nel folklore orientale. Si pensi ai Deva, le bestie sacre che dominano digiworld, che si rifanno al mito buddhista dei Dodici Generali Celesti protettori del Buddha della Medicina Bhaiṣajyaguru; nel buddhismo giapponese, queste figure mitologiche vengono associate ai dodici animali dello zodiaco cinese, pertanto, alla luce di ciò, è ben chiaro da che fonte derivi l'aspetto fisico di questi digimon che tra l'altro, allo stesso modo delle loro controparti mitologiche, sono dotati di delle “armi divine” - ad esempio, i generali Śaṇḍilya and Indra erano armati con uno scudo e una lancia, allo stesso modo delle loro controparti digitali Sandiramon e Indramon. Gli attacchi finali di tali bestie sacre, invece, posseggono gli stessi nomi dei Naraka (gli “inferni” del buddhismo) citati nel Purana di Vishnu. Sempre in modo coerente col buddhismo – ma anche col taoismo -, “Digimon Tamers” invita a non alimentare rabbia ed emozioni negative, tutte forme di attaccamento alle cose del mondo che impediscono la crescita dell'individuo, negandogli l'accesso al mistero dell'esistenza (il trentaquattresimo episodio sotto questo aspetto è ineccepibile).


«Avevate ragione maestro. I Deva possiedono un loro senso della giustizia.»
«E' come il tempo.
Adesso è nuvoloso, ma più avanti diventerà sereno.
Che sia sereno o nuvoloso, noi definiamo il tutto come yin o yang.
Ma ciò che yin e ciò che è yang è in perenne mutamento.»
«E' proprio come quello che sta accadendo ora...»
«Due mondi sono andati oltre i loro domini.
Ma gli esseri umani, o piuttosto, coloro che vivono in ogni mondo, credono che la loro via sia quella giusta.»
«Che cos'è “la via giusta”?»
«Se scopri che la tua via è sbagliata, continua a cercarne una migliore.
Questo è il significato della vita per gli esseri umani, così come lo è per coloro che sono nati nell'altro mondo.» [Dialogo tra Jianliang Lee e il suo maestro di Tai-chi]

Parlando attraverso il saggio cinese, Konaka riconduce in modo totalizzante quello che accade nel suo anime ad una manifestazione dei mutamenti del Tao, l'attività unificatrice del dualismo cosmico yin e yang. La digievoluzione - che è indissolubilmente legata all'evoluzione personale dei patner umani dei digimon e, in ultima sintesi, dell'umanità intera -, simbolismo centrale dell'opera, viene indotta da Calumon, un digimon la cui versione software prende il nome di digientelechia – l'entelechia è una concezione filosofica concepita da Aristotele nella quale una determinata realtà contiene al suo interno la meta finale verso la quale tende ad evolversi (infatti il termine è composto dai vocaboli en e telos, ovvero “dentro” e “scopo”). Il filosofo Tommaso Campanella aveva operato una sintesi tra la concezione aristotelica e neoplatonica secondo la quale la natura è un insieme di realtà viventi, ognuna delle quali animata e tendente al proprio fine, ma, allo stesso tempo, unificata a tutte le altre, la cui totalità è guidata verso un unico traguardo da un unico spiritus mundi (”anima del mondo”). Con queste premesse, la concezione finalistica del destino di Konaka si sovrappone mirabilmente alla concezione filosofica di un'anima del mondo/Tao che impone il mutamento delle cose e la possibilità di ogni mondo di evolversi verso un fine ultimo compatibile con l'unione armonica, organica e sfuggente dell'universo - non a caso, nella descrizione cosmologica contenuta nella “Trilogia di Valis” di Philip K. Dick (uno degli scrittori preferiti di Konaka), l'entelechia aristotelica viene “affiancata” al taoismo. Si pensi inoltre al modo in cui digiworld e il mondo reale sono concatenati l'uno nell'altro formando un'unità indivisibile nella quale gli opposti convivono e si trasformano repentinamente (e infatti il digitale, in “Digimon Tamers”, ha lo stesso peso del reale, e con quest'ultimo s'interfaccia e fonde a seconda delle circostanze).


«Per le creature il Tao è indistinto e indeterminato. Oh, come indeterminato e indistinto nel suo seno racchiude le immagini! Oh, come indistinto e indeterminato nel suo seno racchiude gli archetipi! Oh, come profondo e misterioso nel suo seno racchiude l'essenza dell'essere! Questa essenza è assai genuina nel suo seno ne racchiude la conferma. Dai tempi antichi sino ad oggi il suo nome non passa e così acconsente a tutti gli inizi. Da che conosco il modo di tutti gli inizi? Da questo.» [Lao-Tze, “Tao Te Ching”]

L'anima del mondo che «racchiude gli archetipi» non può che rimandare ad un'altra ricorrenza presente nella poetica di Konaka, ovvero l'inconscio collettivo junghiano. Dalla sovrapposizione delle varie stratificazioni esoteriche dell'opera emerge in ultima sintesi il principio d'individuazione come motore dell'evoluzione dell'individuo (simbolismo utilizzato, sebbene in modo più approfondito e diretto, anche nel capolavoro “serial experiments lain”), che diviene padrone del suo destino accedendo al Sé – rappresentato dal cerchio e dal mandala: non a caso, nell'ultimo stadio della digievoluzione, il pilota fuso col suo digimon è di fatto racchiuso all'interno di una sfera con dei cerchi che gli orbitano attorno - e diventando consapevole dell'unificazione onnicomprensiva, ma allo stesso tempo indeterminata e mutevole, incarnata dal Tao. In fondo, non è raro che in alcuni anime e manga il Tao venga messo a fondamento di determinati cicli di creazione e distruzione, nei quali tuttavia viene contemplata la possibilità di uno sviluppo psicologico individuale (si pensi al “Narutaru” di Mohiro Kitoh).


Altro punto in comune di “Digimon Tamers” col precedente “serial experiments lain” è la presenza nell'anime di un personaggio di nome Alice (oltre a Juri, ovviamente). Nel quarantaquattresimo episodio della serie appare Alice McCoy, figlia del professor Rob McCoy, leader – liberamente ispirato alla figura di Linus Torvalds - del Wild Bunch Group. L'affascinante gothic lolita di Konaka – che per hobby, da buon lolicon, crea bambole delle ragazzine protagoniste dei suoi lavori, come ad esempio “serial experiments lain”, “The Big O” e “Malice@Doll” -, allo stesso modo dell'eroina di Lewis Carroll, è una viaggiatrice del “mondo attraverso lo specchio”, ovvero, in questo caso, digiworld; il suo patner è il digimon canino Dobermon, e il suo ruolo nella serie, per quanto ella faccia poche comparse, si rivela fondamentale nello sviluppo della trama.
Sebbene in Giappone non sia usuale portare sul luogo di lavoro le foto dei propri cari e della propria famiglia, Rob McCoy possiede una foto di sua figlia sulla sua scrivania perché Konaka, durante una vacanza, aveva notato che questa usanza era molto comune tra gli occidentali. Ciò detto, il nome “Alice” è una ricorrenza tipica nei lavori dell'autore: nel 1995 egli aveva scritto “Alice 6”, una serie televisiva diretta dal fratello Kazuya Konaka – opera che tra l'altro anticipava di qualche anno il tetro mood di “serial experiments lain”; al 1996 invece risale il videogioco per PlayStation “Alice in Cyberland” - tipico ibrido novantino tra gal game e avventura -, del quale Konaka scrisse lo scenario (l'artista curò altresì lo script dell'omonimo OAV). I personaggi principali del videogioco si chiamano Alice, Juri e Rena (che guardacaso in “Digimon Tamers” diventerà “Renamon”). L'archetipo “Alice” rimanda in ogni caso a quel simbolismo del “viaggio nel mondo dall'altra parte” tipico dell'immaginario di Konaka, autore che fa del confine tra realtà e cyberspazio – volendo tra mondo sensibile e inconscio -, una delle chiavi di volta della sua poetica.


Ma ora, per concludere, è doveroso imbastire alcune riflessioni sul vero nemico della serie. Il D-Reaper, che giace congelato nelle profondità di digiworld allo stesso modo di un Grande Antico lovercraftiano, per poi risvegliarsi una volta percepito l'aumento di entropia dei due mondi concatenati i cui confini hanno oltrepassato le loro rispettive barriere proibite, è uno degli antagonisti più truci, temibili e mostruosi dell'intera animazione giapponese. Il programma, anch'esso intriso dei concetti religiosi cari a Konaka, possiede una Juri devastata psicologicamente come se si trattasse di una divinità appartenente al pantheon shintoista intenta a far sua una giovane miko emotivamente instabile (le cerimonie religiose nelle quali delle piccole sciamane vengono “possedute” dagli spiriti sono ancora oggi diffuse in Giappone). Di nuovo, la macchina viene dotata di attributi divini, ma questa volta si tratta di una macchina pericolosa, che intende adempiere il suo dovere dopo aver giudicato l'umanità e il suo modo di vivere come “dati sovrabbondanti” dannosi ed inutili per l'universo (tutto ciò dopo essersi evoluta e aver "studiato" gli esseri umani grazie a Juri). La suggestione del possibile reset the world novantino col D-Reaper – che incarna altresì il “lato oscuro” della tecnologia, quello completamente de-umanizzato e alieno ai valori giapponesi di cui accennavo nel primo paragrafo dello scritto - si ripete (e guardacaso, il programma originario che costituiva tale mostruosa divinità, il cosiddetto Echelon, per Konaka è una creazione del dipartimento di sicurezza degli USA).


Il grande dio color sangue che approfitta di un piccolo cuore spezzato, si evolve in modo vagamente reminiscente del colloide di “Blood Music”, risucchiando in sé interi palazzi e assumendo molteplici avatar uno più mostruoso dell'altro contemporaneamente, allo stesso modo di Krishna, a parer mio si comporta come se si trattasse dell'ombra rimossa della postmodernità tutta, che affligge una società in crisi rivoltandole contro tutta la sua alienazione, il suo cinismo, la sua smania di calcolare, di sopraffare, di ampliarsi e produrre al massimo senza alcun limite, in un contesto in cui la tecnica ha preso la sua strada lasciando indietro l'uomo (Heidegger docet). Lungo tale percorso, la macchina si auto-potenzia ed espande all'infinito, avviando – non senza rinunciare ad un inquietante ghigno malefico - l'umanità decadente che l'ha creata verso l'annichilazione totale, basandosi sull'efficientismo economico (dal punto di vista dell'entropia dell'universo, per il D-Reaper l'uccisione della razza umana rappresenterebbe un – seppur microscopico - profitto), sul riduzionismo scientifico (per il D-Reaper valori, spirito e grandi narrazioni non esistono: egli si basa soltanto sulle leggi della fisica e dell'informatica fini a loro stesse) e sull'oggettificazione degli esseri umani (per il D-Reaper, gli uomini sono soltanto dati da cancellare; per il capitalismo incontrollato invece sono meri dati da cui trarre profitto, ma la sostanza a parer mio è simile), tutte caratteristiche fenomenologiche tipiche di un modo di vivere decisamente malato e patito dai giapponesi, che se lo sono visti impiantare all'interno della loro cultura in un colpo solo, senza averlo vissuto progressivamente e con continuità come l'occidente che l'ha creato. Il D-Reaper, un po' angelo della morte, un po' giudice estremo di un'umanità agli sgoccioli e un po' fredda macchina senz'anima nata nel contesto della Guerra Fredda e sviluppatasi grazie alla sovrabbondanza d'informazioni della rete e alla sofferenza di una bambina, è tutto ciò che l'uomo postmoderno ha creato senza consapevolezza. L'antidoto a tale antagonista così vicino al nostro mondo reale, inutile dirlo, è l'amore – quello vero, non quello delle pubblicità e degli slogan -, la consapevolezza, la coscienza, la comprensione, l'intelligenza e la coesione sociale – il biomerge, l'evoluzione finale in cui la macchina, contrariamente al D-Reaper, sviluppa un cuore e un'umanità, diventando tutt'uno con l'uomo/bambino giunto all'apice della sua evoluzione “spirituale”. Inutile dire che l'incitazione alla consapevolezza, l'evoluzione e la sconfitta della meccanicità fine a sé stessa – sia all'interno dell'uomo che al suo esterno - siano tutti punti cardine dell'esoterismo – di cui Konaka a quanto pare è un vero e proprio intenditore -, quello sincretistico, ovvero comune a tutte le religioni – o meglio, al lato esoterico di tutte le religioni (la religione di massa, essendo uno strumento di potere e controllo, non può dirsi esoterica). Perché in fondo, che cos'è la postmodernità se non l'ennesima ricaduta dell'uomo poco consapevole di sé stesso nelle spire della meccanicità e della non-umanità?


La potenza metanarrativa e simbolica del D-Reaper, all'epoca della prima messa in onda di “Digimon Tamers” - coincidente con l'attentato terroristico dell'undici settembre 2001 – ebbe un forte impatto sul pubblico americano, tant'è che la mannaia della censura aveva immediatamente colpito l'attacco del micidiale antagonista alle torri gemelle di Shinjuku (scelta narrativa ovviamente scorrelata e indipendente dal vero attentato mosso dai terroristi di al-Qāʿida). Evidentemente, di fronte allo spettro del D-Reaper, che in questo caso si comporta come l'ombra mediatica correlata ad una sorta di psicosi collettiva, la rimozione è la via più facile da percorrere per sedare il terrore. La studiosa Margaret Schwartz in un suo scritto dell'epoca riflette pienamente la crisi del suo tempo: completamente a digiuno di shintoismo, taoismo, cultura giapponese e filosofia orientale, ella, tirando in ballo i digimon, descrive un conflitto percettivo tra “digitale” e “reale” in un contesto pregno di alienazione e solitudine. Rimane scioccata dal fatto che i digimon siano allo stesso tempo dati ed esseri viventi, e per lei il male negli anime basati su questi ultimi è rappresentato dal rifiuto di riconoscere che essi siano creature reali. Ma in fondo, in un mondo in cui ognuno diventa sempre più isolato ed alienato, i mostri digitali dei cartoni animati e dei videogiochi iniziano a dimostrarsi più veri delle persone – «vogliamo immaginare che se amiamo i nostri oggetti abbastanza fortemente, essi ci ameranno a loro volta. Ci terranno compagnia.» Oppure, alcuni eventi fittizi assumono lo stesso valore di eventi reali (ed ecco che scatta l'isteria collettiva e la conseguente censura di molteplici scene di “Digimon Tamers” da parte delle televisioni americane ed occidentali). Insomma, a suo modo, “Digimon Tamers” ha – involontariamente – centrato il bersaglio in un contesto ben più esteso di quello giapponese, stimolando riflessioni e prese di coscienza sul nostro modo di vivere. Molto probabilmente, la Schwartz, così come molti altri occidentali, avrà inconsciamente visto sé stessa in quella Juri in preda alla solitudine e al dolore, rinchiusa all'interno di quella sorta di bolla violacea tra le due torri gemelle di Shinjuku, all'interno del corpo del D-Reaper, che in questo caso assume la valenza simbolica di quel mostro figlio della tecnica fine a sé stessa che isola le persone e impedisce loro di interfacciarsi, lasciandole lì, da sole, ad affrontare dei fantasmi interiori impossibili da sedare senza l'ausilio di comprensione e amore. Eppure, è proprio Culumon che tenta di comunicare con Juri nella suddetta – bellissima e commovente – scena. Un digimon. «Al giorno d'oggi noi scappiamo in un mondo dove i freddi, intangibili dati sono diventati dei graziosi digimon, che sono sempre buoni. Soltanto la curruzione del maligno può renderli rabbiosi od odiosi. Mentre i digiprescelti lottano con i problemi legati al lavoro di squadra, all'autostima e al senso di colpa, i loro compagni digitali si dimostrano insegnanti preparati, anche tolleranti e saggi. Ammetto mi sono commossa più di una volta ascoltando le semplici prediche dei digimon: volevo disperatamente credere in loro.»


Se uno degli intenti di Konaka era di mostrare la fusione animistica tra uomo e digimon, basandosi sull'unità nella molteplicità tipica della filosofia orientale, sembra quasi che ciò che percepiscono gli occidentali, che separano il bene dal male, lo spirito dalla materia ecc. in categorie ben distinte ed inconciliabili tra loro, sia un riflesso indotto dalla depressione caratteristica del loro modo di vivere, nel quale la consapevolezza, l'interiorità, l'umanità e la sintesi degli opposti hanno lasciato spazio al ghigno malefico del D-Reaper, il quale, ben lungi dall'essere stato sconfitto nella nostra dimensione, ancora oggi ci dice: «Che cos'è questo mondo caotico? Ognuno vive secondo le proprie egoistiche azioni. C'è qualche valore in ciò?»

Note

Tutti i retroscena contenuti nella recensione sono stati attinti dal sito ufficiale di Chiaki J. Konaka.

Lo share delle varie serie dei digimon è consultabile in questa pagina web.

Esiste un drama cd di “Digimon Tamers”, che gli interessati possono consultare liberamente qui.

Ricordo che l'adattamento italiano di "Digimon Tamers" è stato oggetto di svariate censure, e che in esso mancano le belle sigle originali giapponesi.


 



 
 

 

 














3 commenti:

  1. Penso di averci speso una buona trentina di minuti per leggerla, maledetto!
    Però almeno mi sono deciso ad inserire l'anime nella lista da guardare e forse anche a breve.
    La cosa negativa è che quando lo vedrò, ritornerò a leggere la recensione xD

    RispondiElimina
  2. Ahahahaha

    Questa è stata una recensione molto impegnativa da scrivere, sia perché avevo un sacco di fonti da cui attingere, sia perché ho voluto rendere omaggio all'anime che più mi ha fatto appassionare in questa difficile estate fatta di fitti dolori post operatori e riflessioni mistico-esistenziali di vario tipo. XD

    Certamente non è al livello di lain, però è l'anime che mi ha fatto veramente amare Konaka come autore. Forse gli anime più complessi e carichi di significato sono proprio quelli che nell'apparenza si rivelano semplici ed ingenui.

    Ah, mentre scrivevo sul D-Reaper di solito ascoltavo "Angel of Death" dei Thin Lizzy. La canzone giusta, insomma. :)

    RispondiElimina
  3. hahaha
    Bisogna scegliere sempre le canzoni giuste.
    Molti dovrebbero prendere esempio da Konaka per il suo spirito e l'approccio che ha avuto anche in una serie come Digimon.
    Buona convalescenza, la mia è finita da un po' xD

    RispondiElimina