lunedì 30 aprile 2018

L'età della convivenza: Recensione

Titolo originale: Dousei Jidai
 Autore: Kazuo Kamimura
  Tipologia: Seinen Manga  
Edizione italiana completa: J-POP
 Volumi originali: 6
Anni di pubblicazione:  1972-1973


Sofferto, come i tempi di piombo - ma allo stesso tempo di transizione verso l'attuale nulla economico/sociale che ci affligge - in cui vide luce, Dousei Jidai, al netto della sua intrinseca giapponesità, rappresenta una lettura ancora attuale. Indubbiamente.
Nello specifico si parla, assieme a Lady Snowblood e Itezuru, di uno dei grandi successi commerciali di Kamimura, (gradissimo) artista maledetto defunto da molti anni e fortunatamente “riesumato” da J-POP, rispettabilissima casa editrice Milanese specializzata in manga d'autore (in una qualche Feltrinelli in giro per l'Italia, tra un libro e l'altro, è possibile imbattersi nei tre suddetti manga tradotti in italiano e dotati di un'edizione di pregio).
Come suggerisce il titolo, l'opera tratta il tema della convivenza nel Giappone di inizio anni settanta, argomento tabù per una società patriarcale rigida e impostata come quellla nipponica, incentrata sul matrimonio, sul “buon padre di famiglia” e sul culto della tradizione. I due protagonisti del racconto, Kyoko e Jiro, sono due lavoratori precari, poveri in canna, reduci di un balzo dalle “certezze” della provincia all'anonima Tokyo del boom economico. Sono passati quattro anni dal sessantotto e questi giovani, con la loro convivenza e ricerca di emancipazione (sopratutto per quanto concerne Kyoko, la figura femminile della coppia, che lavora nonostante conviva con un uomo, cosa oscena nel suo contesto, dacché in esso la donna sposata non dovrebbe lavorare, ma dipendere dal marito), di fatto sfidano le convenzioni sociali, i “vecchi” e le loro regole, rimanendo tuttavia scossi dal senso d'inadeguatezza e di estraneazione che questa fragile ribellione matura nel loro spirito con l'andare del tempo. Appena uscito, Dousei Jidai ebbe un successo fantasmagorico proprio perché i giovani giapponesi che lo leggevano si identificavano nei due protagonisti e nel loro agrodolce amore, ma anche nel loro altalenante rifiuto della vita (tra l'altro nel manga viene esplicitamente citato il doppio suicidio dello scrittore Osamu Dazai e della sua compagna). 


Molto malinconico e poetico, Dousei Jidai parla anche dell'amore, ma di un amore infelice perché effimero e privo di basi solide su cui appoggiarsi. Kyoko non potrà mai emanciparsi veramente e Jiro non potrà mai diventare un buon padre di famiglia/lavoratore, perché per loro è impossibile sfuggire dalla propria condizione di disadattati. Sopratutto Jiro assume i connotati di un bambino sognatore che non ha il coraggio di entrare nel mondo degli adulti (i genitori di Kyoko, i medici, il padrone di casa... tutti condannano all'unanimità i due giovani per la loro mancata integrazione nella società: se essi si sposassero, invece, nessuno avrebbe nulla da dire). Al di là di un quotidiano vissuto nel rimorso e nell'inadeguatezza, Kyoko e Jiro sono condannati al vuoto interiore e alla solitudine, nonostante siano una coppia. Quando Kyoko se ne sta per andare, Jiro le chiede cosa dovrà fare quando lei non ci sarà, come se per lui venisse meno una figura materna surrogato; quando Jiro incontra un suo amico di vecchia data, pure lui convivente, viene coinvolto in un festino a base di sesso e alcool, nel quale la relazione amorosa “sessantottina” di questo studente assume i connotati di un prodotto di consumo privo di qualsivoglia dimensione privata (che cosa è cambiato rispetto ad oggi?). A queste amare litanie di fondo si vanno ad unire una malinconica poetica d'autore, la malinconia di un Kamimura che ama pennallare la sua opera di canzoni e poesie a tema, quasi a voler ricordare a tutti che l'incertezza nella quale vivono i due protagonisti è anche l'incertezza alla quale la Natura inevitabilmente condanna l'uomo, avendolo reso un fragile animaletto destinato all'impermanenza delle cose, nonché ad essere consumato dalle sue stesse passioni (tra l'altro, Kamimura, come tipico delle sue opere, non rinuncia a rappresentare, quasi liricamente, le perversioni dell'animo umano, gli stadi più macabri e ripugnanti del desiderio in se stesso) . Da qui la necessità, per sopravvivere psicologicamente, del “rituale”, dell'ufficializzazione delle cose, del “matrimonio” (si noti bene che a parer mio è molto importante ricordare, al fine di comprendere meglio l'opera, che Kamimura era sposato con una figlia, nonostante fosse un illustratore freelance trasferitosi dalla provincia alla grande città come il suo Jiro). Fatto salvo ciò, l'autore, in questa come in tutte le sue opere, non si erge mai a giudice della sua stessa società, delle perversioni sessuali dei suoi personaggi, della loro solitudine o altro, ma affronta - artisticamente, da puro osservatore distaccato privo di ego - l'importante tematica del valore della vita in un contesto che la soffoca, convergendo nella tacita constatazione che il dono della vita andrebbe accettato nonostante tutto (vedasi come vengono affrontate le tematiche dell'aborto e del suicidio). Inoltre, leggendo mi è parso che l'autore volesse quasi dimostrare che senza alcun “appiglio socio/ideologico” concreto, senza alcun vero passaggio all'età adulta e alle sue privazioni, codificazioni e difficoltà, si sia inevitabilmente destinati all'oblio (vedasi chi paga il prezzo più grosso nel finale).


Per concludere, dal punto di vista artistico, nulla da eccepire. Kamimura è un illustratore di talento prestato al mondo più “grezzo” dei manga, e ciò si vede, sopratutto nelle illustrazioni a colori che introducono ogni volume. Le sue tavole, per perizia registica e grafica, potrebbero stare in un museo o in una galleria d'arte, con le loro eleganti figure femminili, candidi templi di malinconia e sensualità. La femminilità in particolare è il denominatore comune di tutta l'opera di Kamimura, che tra l'altro è uno dei pochi mangaka giapponesi ad aver veramente compreso le donne senza cedere ai cliché e alla “simulacrizzazione” del loro corpo, cosa fin troppo facile quando si vive in una società (autoctonamente) misofoba e per di più afflitta dall'aggravante morbo dell'americanizzazione.

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