Titolo originale: Dousei Jidai
Autore: Kazuo Kamimura
Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana completa: J-POP
Volumi originali: 6
Anni di pubblicazione: 1972-1973
Sofferto, come i tempi di piombo - ma allo stesso tempo di transizione verso l'attuale nulla economico/sociale che ci affligge - in cui vide luce, Dousei Jidai, al netto della sua intrinseca giapponesità, rappresenta una lettura ancora attuale. Indubbiamente.
Nello specifico si parla,
assieme a Lady Snowblood e Itezuru, di uno dei grandi successi
commerciali di Kamimura, (gradissimo) artista maledetto
defunto da molti anni e fortunatamente “riesumato” da J-POP, rispettabilissima casa editrice Milanese
specializzata in manga d'autore (in una qualche Feltrinelli in giro
per l'Italia, tra un libro e l'altro, è possibile imbattersi nei
tre suddetti manga tradotti in italiano e dotati di un'edizione di
pregio).
Come suggerisce il
titolo, l'opera tratta il tema della convivenza nel Giappone di
inizio anni settanta, argomento tabù per una società patriarcale
rigida e impostata come quellla nipponica, incentrata sul matrimonio,
sul “buon padre di famiglia” e sul culto della tradizione. I due
protagonisti del racconto, Kyoko e Jiro, sono due lavoratori precari,
poveri in canna, reduci di un balzo dalle “certezze” della
provincia all'anonima Tokyo del boom economico. Sono passati quattro
anni dal sessantotto e questi giovani, con la loro convivenza e ricerca di emancipazione (sopratutto per quanto concerne
Kyoko, la figura femminile della coppia, che lavora nonostante
conviva con un uomo, cosa oscena nel suo contesto, dacché in esso
la donna sposata non dovrebbe lavorare, ma dipendere dal marito), di
fatto sfidano le convenzioni sociali, i “vecchi” e le loro
regole, rimanendo tuttavia scossi dal senso d'inadeguatezza e di
estraneazione che questa fragile ribellione matura nel loro
spirito con l'andare del tempo. Appena uscito, Dousei Jidai ebbe un
successo fantasmagorico proprio perché i giovani giapponesi che lo
leggevano si identificavano nei due protagonisti e nel loro agrodolce
amore, ma anche nel loro altalenante rifiuto della vita (tra l'altro nel manga viene esplicitamente citato il doppio suicidio dello scrittore Osamu Dazai e della sua compagna).
Molto malinconico e
poetico, Dousei Jidai parla anche dell'amore, ma di un amore infelice
perché effimero e privo di basi solide su cui appoggiarsi. Kyoko non
potrà mai emanciparsi veramente e Jiro non potrà mai diventare un
buon padre di famiglia/lavoratore, perché per loro è impossibile
sfuggire dalla propria condizione di disadattati. Sopratutto Jiro
assume i connotati di un bambino sognatore che non ha il coraggio di
entrare nel mondo degli adulti (i genitori di Kyoko, i medici, il
padrone di casa... tutti condannano all'unanimità i due giovani per
la loro mancata integrazione nella società: se essi si sposassero, invece, nessuno avrebbe nulla da dire). Al di là di un quotidiano vissuto nel rimorso e nell'inadeguatezza, Kyoko
e Jiro sono condannati al vuoto interiore e alla solitudine,
nonostante siano una coppia. Quando Kyoko se ne sta per andare, Jiro
le chiede cosa dovrà fare quando lei non ci sarà, come se per lui
venisse meno una figura materna surrogato; quando Jiro incontra un
suo amico di vecchia data, pure lui convivente, viene coinvolto in un
festino a base di sesso e alcool, nel quale la relazione amorosa
“sessantottina” di questo studente assume i connotati di un
prodotto di consumo privo di qualsivoglia dimensione privata (che
cosa è cambiato rispetto ad oggi?). A queste amare litanie di fondo
si vanno ad unire una malinconica poetica d'autore, la malinconia di
un Kamimura che ama pennallare la sua opera di canzoni e poesie a
tema, quasi a voler ricordare a tutti che l'incertezza nella quale
vivono i due protagonisti è anche l'incertezza alla quale la Natura
inevitabilmente condanna l'uomo, avendolo reso un fragile animaletto
destinato all'impermanenza delle cose, nonché ad essere consumato
dalle sue stesse passioni (tra l'altro, Kamimura, come tipico delle
sue opere, non rinuncia a rappresentare, quasi liricamente, le
perversioni dell'animo umano, gli stadi più macabri e ripugnanti del
desiderio in se stesso) . Da qui la necessità, per sopravvivere
psicologicamente, del “rituale”, dell'ufficializzazione delle
cose, del “matrimonio” (si noti bene che a parer mio è molto
importante ricordare, al fine di comprendere meglio l'opera, che
Kamimura era sposato con una figlia, nonostante fosse un illustratore
freelance trasferitosi dalla provincia alla grande città come il suo
Jiro). Fatto salvo ciò, l'autore, in questa come in tutte le sue opere,
non si erge mai a giudice della sua stessa società, delle
perversioni sessuali dei suoi personaggi, della loro solitudine o altro, ma affronta -
artisticamente, da puro osservatore distaccato privo di ego - l'importante tematica del valore della vita in un contesto che la soffoca, convergendo nella tacita constatazione che il dono della vita andrebbe accettato nonostante tutto (vedasi come vengono affrontate le tematiche dell'aborto e del suicidio). Inoltre, leggendo mi è parso che l'autore volesse quasi dimostrare che senza alcun “appiglio socio/ideologico”
concreto, senza alcun vero passaggio all'età adulta e alle sue
privazioni, codificazioni e difficoltà, si sia inevitabilmente
destinati all'oblio (vedasi chi paga il prezzo più grosso nel
finale).
Per concludere, dal punto di vista
artistico, nulla da eccepire. Kamimura è un illustratore di talento
prestato al mondo più “grezzo” dei manga, e ciò si vede,
sopratutto nelle illustrazioni a colori che introducono ogni volume.
Le sue tavole, per perizia registica e grafica, potrebbero stare in
un museo o in una galleria d'arte, con le loro eleganti figure
femminili, candidi templi di malinconia e sensualità. La
femminilità in particolare è il denominatore comune di tutta
l'opera di Kamimura, che tra l'altro è uno dei pochi mangaka
giapponesi ad aver veramente compreso le donne senza cedere ai cliché
e alla “simulacrizzazione” del loro corpo, cosa fin
troppo facile quando si vive in una società (autoctonamente)
misofoba e per di più afflitta dall'aggravante morbo
dell'americanizzazione.
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