domenica 10 giugno 2018

Uzumaki: Recensione

 Titolo originale: Uzumaki
 Autore: Junji Ito
  Tipologia: Seinen Manga  
Edizione italiana: Star Comics
 Volumi originali: 3
Anni di pubblicazione:  1998-1999


Uzumaki non è un capolavoro soltanto per l’ineccepibile apparato grafico e per le atmosfere disturbanti, quasi Lovercraftiane, e le “storture mentali” che riesce a trasmettere, degne del miglior incubo. L’opera principe di Junji Ito, erede spirituale di Kazuo Umezu (icona dell’horror a fumetti giapponese e autore del classico l’Aula alla deriva), come fatto altresì notare dallo scrittore Yu Sato nella postfazione dell’ottima edizione italiana, è una metafora poco distante dalla realtà: più precisamente la risposta dell’inconscio collettivo dei giapponesi alla follia neoliberista/turbocapitalista che tutt’ora è fonte di disagio economico per i ceti più deboli, nonché di distruzione dell’identità sociale e nazionale per tutti, a parte ovviamente chi ne tiene le fila, che è spinto soltanto dall’accumulo di capitali (illusori, in fondo l’economia reale non esiste più) e dalla speculazione finanziaria in se stessa. A tal proposito, è da notare che durante Baburu, la bolla finanziaria iniziata nel Giappone degli anni ottanta e scoppiata negli stessi anni in cui Ito scriveva Uzumaki, come testimoniato da K. T. Greenfield nell’omonimo libro, anche i giapponesi arricchiti del ceto medio/basso si chiudevano in casa a speculare davanti ad un computer, proprio come il personaggio del manga che nel primo capitolo rimane ossessionato dalla spirale. Se l’Aula alla deriva analizzava col suo horror i problemi del boom economico settantino, il ricordo mal sopito della guerra, la sofferenza della ricostruzione, il più attuale Uzumaki si sofferma su argomenti più vicini a noi occidentali di oggi. In ogni caso, questo tipo di horror giapponese d’autore non è mai fine a se stesso, ma si fa sempre veicolo di un messaggio socio/politico ben preciso, legato al contesto in cui l’autore l’ha prodotto. E qui sta la sua grandezza.


Tornando all’opera in sé, Uzumaki vuol dire appunto “spirale”, e la spirale è l’elemento che nel manga innesca le paure e la follia dei personaggi, che risponderanno ad essa con disturbi ossessivo-compulsivi, mutazioni del corpo spiraleggianti e quant’altro, diventando lumaconi giganti, praticando il cannibalismo ecc. La spirale è l’elemento che si insinua nel tessuto sociale, nella famiglia, nei rapporti interpersonali, nel corpo e nella percezione del proprio ego, spingendo gli esseri umani verso l’inevitabile catastrofe. Soltanto Kirie, l’eroina della vicenda, che racconta tutto in prima persona traghettando il lettore nell’incubo, e il suo fidanzato pseudo-hikikomori Shuichi sono (quasi) immuni alla spirale (una volta individuato cosa essa rappresenti, sarà facile, per chi conosce il pensiero di Erich Fromm, dedurne il motivo).


La non-storia, frammentata tra molteplici episodi autoconclusivi raccapriccianti, si avvolge su se stessa fino a culminare nell’oblio ciclico del finale, un’apocalisse viscerale che corona il significato ultimo dell’opera con tanto di rimandi metaforici ai campi di concentramento, rappresentati come tetre baraccopoli nelle quali degli esseri umani deformi stanno tutti appiccicati l’uno all’altro in condizioni disgustose (il nazismo non era forse stato la risposta al liberismo sfrenato e alla gravissima crisi economica e sociale che ne conseguiva?). Ciò detto, la spirale fa ossessionare, fa chiudere in casa e perdere il concetto di famiglia e futuro, impedendo alle certezze di sedimentare, dacché si sta calpestando il terreno spiraleggiante della precarietà esistenziale e delle fobie che ne derivano. La spirale crea narcisismo ed egoismo spinto all’estremo, si pensi al capitolo in cui la bella Azami, che non ama nessuno a parte se stessa e usa gli altri per il suo tornaconto personale, finisce per fare una fine orribile, un’annichilazione rituale coadiuvata da disegni iperrealistici che paiono le visioni di un malato di mente. La spirale, inoltre, fa diventare molli, striscianti, lumaconi bavosi privi di spina dorsale; fa succhiare il sangue al prossimo e fa desiderare ai bambini di tornare nell’utero delle loro madri. In particolare, una delle scene più allucinanti del manga è proprio quella in cui uno di questi bambini mostruosi viene brutalmente reinserito nella pancia della madre per mezzo di un’operazione chirurgica. In un paese come il Giappone, nel quale la scarsità delle nascite è un problema divenuto ormai strutturale (lo stesso discorso vale anche per gli altri paesi soggetti al neoliberismo, tra i quali fa capolino pure l’italico stivale), una scena del genere parla da sola, senza scomodare la metafora otaku di colui il quale veniva assorbito dal robot con lo spirito della madre (che tra l’altro risaliva agli stessi anni di Uzumaki, quei 90's in cui la coscienza del cambiamento era ancora viva nel subconscio collettivo, contrariamente all’attuale lobotomizzazione turbocapitalista e globalista dell’oggidì, tra l’altro strombazzata ripetutamente, tanto da far venir la nausea, dai media portavoce di una sinistra che, una volta internazionalizzata e delocalizzata dal territorio – e quindi dalla realtà -, non tutela più le classi più deboli, ma fa soltanto gli interessi dell’alta finanza e delle èlite del capitale).


Al di là di quanto detto, non è difficile leggere in estrema sintesi Uzumaki come una vera e propria parabola dell’esistenza di un’umanità divorata dal desiderio incontrollato, dalla ricerca del piacere e dall’autoaffermazione individuale. Il turbocapitalismo e il neoliberismo sono soltanto fenomenologie particolari legate al nostro tempo, la sostanza dell’uomo come animale incapace di accontentarsi e autodeterminarsi non cambia, sin dai tempi in cui gli schiavi sputavano sangue, trainavano macigni e prendevano frustate per coronare i sogni di grandezza dei loro padroni, e i fratelli si pugnalavano alle spalle per far bella figura di fronte al padre. L’inconscio collettivo con suoi simboli parla chiaro. Uzumaki ne condivide il linguaggio (ed è affascinante notare la sensibilità naturalistica di Ito, con le sue suggestioni da animismo primordiale in grado di evocare un certo terrore primigenio verso tutto ciò che è sconosciuto e misterioso). Il suo intento, quello di stimolare consapevolezza e riflessione, sopratutto osservando il gesto finale dei due protagonisti, il manga lo raggiunge pienamente. E questa è la cosa più nobile che l’arte possa fare.







2 commenti:

  1. Letto ormai due anni fa, piccolo (ma neanche troppo) capolavoro horror con riferimenti socio-politici. A dicembre pubblicheranno un altro dei suoi migliori lavori, Love Sickdead.
    Ottima analisi, cercherò di essere più presente.

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  2. Ciao JS, grazie per il commento. Ito fa vero horror, è un vero autore, con un vero spirito. Pertanto non mancherò all'appuntamento in fumetteria.

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