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lunedì 19 aprile 2021

Boogiepop Phantom: Recensione 2.0

Titolo originale: Boogiepop wa Warawanai
Regia: Watanabe Takashi
Soggetto: basato sui romanzi di Kadono Kouhei
Sceneggiatura:  Murai Sadayuki,  Minakami Seishi,  Nojiri Yasuyuki
Character Design:  Suga Shigeyuki
Musiche:  Tsuruoka Yota
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 12 episodi
Anno di trasmissione: 2000


Ogni opera è figlia del suo tempo e pertanto, oggi come oggi, preferisco recensire il primo anime ispirato ai romanzi di Kouhei Kadono, Boogiepop Phantom, dacché a parer mio è quello più significativo (anche se il recente adattamento Boogiepop wa Warawanai della Madhouse è più fedele alla trama originale, l'ho trovato un po' fuori sincrono, anche a livello di design). Personalmente parlando, devo dire che Boogiepop Phantom è molto affine allo spirito del (mio) tempo, o quantomeno della mia generazione: era uno dei miei anime preferiti e ho sempre pensato che fosse l'unico che in qualche modo si avvicinasse a serial experiments lain, che sostanzialmente era un non-anime, una non-narrazione di un'epoca cupa e alienante, opera dissonante e scricchiolante in tutto e per tutto, con tutti i suoi simbolismi e le sue iniezioni di realtà distillata. Da un lato avevo grandi narrazioni come Xenogears, che mi fornivano illusioni di grandi amori eterni che avrebbero attraversato le epoche tramite metempsicosi, dall'altro avevo cose puramente "reali" come Boogiepop Phantom e lain, che mi riportavano un po' con i piedi per terra. Dal "pieno" al "vuoto" e viceversa in pratica, un veloce altalenare molto comune nel nostro tempo. Ciò detto, sebbene Boogiepop Phantom sia un'opera a sé nei fatti, lo spirito della novel, scritta da un ex hikikomori degli anni novanta, è del tutto preservato. Essendo Kadono un escluso dalla società giapponese, poteva parlarne senza timore, tirando dentro anche temi più universali - ai quali alla fin fine ogni cosa si riconduce. L'anime diretto da Watanabe Takashi, con le sue atmosfere cupe, distorte, la perenne foschia che avvolge le ambientazioni prive di luce è infatti l'analisi di un Giappone disilluso, in piena crisi sia economica che sociale/esistenziale. Perché in fondo i romanzi di Kadono non erano altro che una riproposizione di quelli di Murakami Ryu ma con un fondotinta horror, e una cupa ragazza con personalità multiple a fare da giudice/grillo parlante della situazione. Sì, proprio lei: la Boogiepop che dà il nome al tutto. 

mercoledì 24 marzo 2021

DEADMAN: Recensione (by AkiraSakura & Shito)

 Titolo originale: DEADMAN
Autore: Egawa Tatsuya
Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: Dynamic Italia
Volumi totali: 6
Anni di uscita: 1998~2000 (JP), 1999~2003 (IT)

 

«Lo scorrere di un fiume non si arresta mai... e per questo... non è mai uguale a se stesso.
Nell'acqua che ristagna... la schiuma può unirsi ad altra schiuma... ma non resta mai ferma a lungo.
Gli uomini e il dolore che affligge il mondo... non mutano mai.
»

Dopo una laurea ottenuta presso l'antica e prestigiosa università nazionale di educazione di Aichi (una sorta di Scuola Normale), Egawa Tatsuya decide di abbandonate la carriera di insegnante e di dedicarsi al fumetto, diventando un mangaka. Per un brillante giovane giapponese, nato nel 1961, si trattava di una scelta a dir poco controcorrente, considerata l'assai conformistica società della sua patria, soprattutto ai tempi, ma forse – come capirà al volo chi conosce la sua opera – il già intellettuale Egawa aveva in mente una forma di educazione più anticonvenzionale, se non rivoluzionaria. Nelle sue opere, infatti, mai scevre di una esplicita componente erotica, si direbbe ai limiti della pornografia, eppure del tutto assente di quella nota di voyeurismo ozioso che ne è tipico, l'autore innanzitutto critica con feroce intelligenza proprio il sistema educazionale giapponese: debutta con BE FREE!, l'antesignano del più noto, ma ben più frivolo e pecoreccio GTO, e in seguito, raggiunge grande notorietà con GOLDEN BOY, che non è affatto una mera commedia dai toni erotico-demenziali, come lascerebbe pensare la trasposizione animata. Divenuto ormai una contrastata personalità televisiva da salotti intellettuali, Egawa continua a condurre la sua critica del sistema scolastico giapponese, spingendola verso la svalutazione della formazione universitaria e della società nipponica essa tutta. Giunti negli Anni Novanta, sarà poi il turno anche di DEADMAN, che in effetti non è neanche più un manga vero e proprio, quanto una sorta di saggio di misticismo e filosofia politica travestito da storia gotica di vampiri. Dal punto di vista narrativo, DEADMAN è infatti organizzato (e disegnato) pressoché come una mera serie di dialoghi e racconti tra i personaggi, tanto da far pensare alla forma di trattato filosofico tanto amata da Platone, solo con l'aggiunta dei disegni: si tratta di una vera destrutturazione del medium narrativo chiamato "manga". 

domenica 22 marzo 2020

Dream Hunter Rem: Recensione

Titolo originale: ドリームハンター麗夢
Soggetto & Regia generale: Okuda Seiji
Character Design: Moori Kazuaki
Musiche: Gotou Hideo, Manabe Heitaro, Kawai Kenji
Prodotto da: Anime R & co.
Formato: serie OAV di 3 episodi
Anno: 1985


Rem è un'investigatrice dell'ignoto. 44 Magnum alla mano, il suo lavoro consiste nell'entrare nei sogni altrui al fine di sconfiggere i demoni che vi risiedono; ovviamente, questa idea di base apre a molte possibilità, sia grafiche che "filosofiche". Per ovvie ragioni commerciali, la ragazza è una simpatica loli dai capelli verdi, che all'occorrenza indossa una divisa sexy à la Leda, seguendo la moda OVA del periodo. Ma non fermiamoci alle apparenze: sebbene inizialmente sia stato concepito come mero porno d'autore, Dream Hunter Rem, quello fatto e finito, è tutto sommato pregevole. Tecnicamente parlando, abbiamo un cast di animatori stellare, tra i quali spicca Oobari Masami, ben noto per i suoi robotici mozzafiato. Nel terzo episodio, forse il più struggente, le musiche sono di Kawai Kenji, ben noto per i suoi lavori con Oshii Mamoru... insomma, la perizia tecnica dell'opera, che di fatto è un minestrone postmoderno di generi che va dal fantasy all'horror più inquietante, non si discute. Ma c'è anche dell'altro.

domenica 10 giugno 2018

Uzumaki: Recensione

 Titolo originale: Uzumaki
 Autore: Junji Ito
  Tipologia: Seinen Manga  
Edizione italiana: Star Comics
 Volumi originali: 3
Anni di pubblicazione:  1998-1999


Uzumaki non è un capolavoro soltanto per l’ineccepibile apparato grafico e per le atmosfere disturbanti, quasi Lovercraftiane, e le “storture mentali” che riesce a trasmettere, degne del miglior incubo. L’opera principe di Junji Ito, erede spirituale di Kazuo Umezu (icona dell’horror a fumetti giapponese e autore del classico l’Aula alla deriva), come fatto altresì notare dallo scrittore Yu Sato nella postfazione dell’ottima edizione italiana, è una metafora poco distante dalla realtà: più precisamente la risposta dell’inconscio collettivo dei giapponesi alla follia neoliberista/turbocapitalista che tutt’ora è fonte di disagio economico per i ceti più deboli, nonché di distruzione dell’identità sociale e nazionale per tutti, a parte ovviamente chi ne tiene le fila, che è spinto soltanto dall’accumulo di capitali (illusori, in fondo l’economia reale non esiste più) e dalla speculazione finanziaria in se stessa. A tal proposito, è da notare che durante Baburu, la bolla finanziaria iniziata nel Giappone degli anni ottanta e scoppiata negli stessi anni in cui Ito scriveva Uzumaki, come testimoniato da K. T. Greenfield nell’omonimo libro, anche i giapponesi arricchiti del ceto medio/basso si chiudevano in casa a speculare davanti ad un computer, proprio come il personaggio del manga che nel primo capitolo rimane ossessionato dalla spirale. Se l’Aula alla deriva analizzava col suo horror i problemi del boom economico settantino, il ricordo mal sopito della guerra, la sofferenza della ricostruzione, il più attuale Uzumaki si sofferma su argomenti più vicini a noi occidentali di oggi. In ogni caso, questo tipo di horror giapponese d’autore non è mai fine a se stesso, ma si fa sempre veicolo di un messaggio socio/politico ben preciso, legato al contesto in cui l’autore l’ha prodotto. E qui sta la sua grandezza.

sabato 22 ottobre 2016

Strange Circus: Recensione

Titolo originale: Kimyō na Sākasu
Regia: Sion Sono
Soggetto: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Musiche: Sion Sono
Produttore: Sedic
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2005


«Ero stata condannata a morte fin dalla nascita. O forse... era mia madre a dover essere giustiziata e ci siamo scambiate di posto.»

Uscito nel 2005, "Strange Circus" rappresenta forse la piena maturità artistica di un Sion Sono sempre più elaborato e incisivo, che – lasciatosi alle spalle la critica sociale di "Suicide Club" e il nichilismo disperato di "Noriko's Dinner Table" – mette in scena un lucido e sfarzoso incubo a metà tra realtà e finzione, che scava con una perizia quasi lynchiana nelle pieghe nascoste dell'inconscio. Il film prende il via con il (meta)racconto della bella e algida Taeko, scrittrice di successo imprigionata su una sedia a rotelle; l'ultimo libro della donna racconta la cruda storia di Mitsuko, bambina violentata dal padre e costretta dallo stesso a spiare i genitori durante i loro atti sessuali, nascosta nella custodia di un violoncello. La bambina finisce così per attirare su di sé anche le gelosie della madre, figura nella quale si era sempre identificata, che comincia a picchiarla e a maltrattarla: questo fino a quando la piccola Mitsuko, per difendersi dalle percosse, spinge accidentalmente la donna giù dalle scale, uccidendola. È l'inizio di un'allucinante spirale di eventi, a cavallo tra passato, presente, realtà e sogno.

sabato 8 ottobre 2016

Aula alla deriva: Recensione

Titolo Originale: Hyouryuu Kyoshitsu
Autore: Kazuo Umezu
Tipologia: Shounen manga
Edizione Italiana: Hikari / 001 Edizioni
Volumi originali: 11
 Data di uscita: 1972


In Giappone, all'inizio degli anni settanta, la disfatta del sessantotto era dietro le porte, e ad essa si aggiungevano i numerosi disastri provocati dall'industrializzazione frenetica e incontrollata degli anni cinquanta e sessanta: la baia di Minimata e il fiume Agano erano avvelenati dal mercurio, il suolo della prefettura di Toyama dal cadmio e l'aria di Yokkaichi dal biossido di zolfo e dal biossido di azoto. Le innumerevoli intossicazioni riscontrate dagli abitanti di queste zone avevano mantenuto vivo nel subconscio collettivo giapponese il tetro ricordo delle malattie portate dalla radioattività nell'immediato dopobomba, e avevano altresì innescato un dibattito etico e giuridico che portò le autorità nipponiche ad alcune revisioni in materia legislativa atte a contenere l'inquinamento ambientale. In questo contesto, con il boom economico che svelava i suoi lati oscuri, lo spettro del ricordo dell'atomica e il caos politico derivante dal fallimento dei moti del sessantotto, nel 1972 la rivista Shounen Sunday pubblicava “Hyouryuu Kyoshitsu”, uno dei manga fondamentali del suo tempo - un anno dopo, quasi come se avesse voluto rispondere alla “sfida” della rivista rivale, Shounen Jump diede alle stampe un altro classico del fumetto giapponese post-apocalittico, l'iconico “Hadashi no Gen” di Keiji Nakazawa.
Vagamente ispirato al cupo “Lord of the Flies” di Golding, ma strettamente giapponese e allegorico nella sostanza, “Hyouryuu Kyoshitsu” narra la storia di Sho, studente delle elementari figlio del boom economico – e pertanto strettamente legato alla figura materna e pressoché privo di quella paterna, dacché all'epoca i padri di famiglia erano chiamati a sacrificarsi sul lavoro al fine di ricostruire un paese messo in ginocchio dalla WWII – il quale un giorno si ritrova teletrasportato, assieme a tutta la sua scuola, in un arido futuro in cui tutto ciò che rimane del genere umano è un tetro deserto color pece, colmo di raccapriccianti e minacciosi mostri. Nella scuola circondata dall'abisso tossico del nonsenso non ci sono più regole: spetterà ai bambini costruire una società partendo da zero, dapprima imponendo il razionamento delle scorte alimentari e la democrazia, e successivamente assistendo alla regressione di alcuni componenti del gruppo allo stadio primitivo, una delle tante divisioni interne che lacereranno una comunità allo sbando, succube degli allegorici orrori del dopoguerra i quali, giorno dopo giorno, si manifestano in tutta la loro violenza, proiettandosi indefinitamente in un futuro non troppo lontano nel quale ogni residuo di umanità è andato perduto.

sabato 24 settembre 2016

Suicide Club: Recensione del film

Titolo originale: Jisatsu Sākuru
Regia: Sion Sono
Soggetto: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Musiche: Tomoki Hasegawa
Casa di produzione: For Peace Co. Ltd., Omega Project
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2001


Tōkyō, primi anni Duemila. Una squadra speciale della polizia indaga su una tendenza che sta prendendo piede negli ultimi tempi tra i giovani Giapponesi: quella di mettere in atto dei veri e propri suicidi di massa, in cui nutriti gruppi di adolescenti si tolgono la vita con una sconcertante quanto agghiacciante indifferenza, nelle modalità e nei luoghi più disparati. Credendo che dietro a tutto ciò ci sia un vero e proprio culto istigatore, il detective Kurada – indirizzato da una ragazza nota sulle community online con il nickname di Kōmori ("Pipistrello") – inizia a seguire la pista di un misterioso sito internet che riporta quotidianamente il numero delle vittime; nel frattempo un nuovo gruppo j-pop composto da cinque ragazzine inizia a fare le sue prime apparizioni televisive, riscontrando in tutto il Giappone un successo clamoroso.

sabato 17 settembre 2016

Malice@Doll: Recensione

Titolo originale: Malice@Doll
Regia: Keitaro Motonaga
Soggetto & sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Shinobu Nishioka
Visual Concept: Yasuhiro Moriki
Musiche: Y-Project
Studio: Arts Magic
Formato: serie OVA di 3 episodi
Anni di uscita: 2001


La razza umana si è estinta. Ciò che rimane di essa sono le sue creazioni, in particolare uno squallido quartiere a luci rosse in cui delle prostitute robotiche vanno alla ricerca di clienti senza mai trovarli – in fondo, proprio a tal fine sono state programmate. Malice, bambola sessuale che si è guastata – le è uscita della colla da un occhio, che è andata a formare un'indelebile lacrima -, un giorno, mentre si reca dal robot adibito alle riparazioni, incontra una bambina fantasma, che la conduce nei meandri del sottosuolo per farla violentare da una gigantesca maschera dotata di tentacoli. Quando Malice si risveglia è diventata umana, e in più ha guadagnato un potere rivoluzionario: baciando i suoi colleghi androidi – «ti darò un bacio, è l'unica cosa che so fare» -, può infondere loro la vita, facendoli diventare degli esseri di carne e sangue. Ma mentre Malice in versione umana è perfetta, le “vittime” del suo bacio diventano delle mostruosità aberranti, grottesche e insensate. Era questa la sostanza dell'umanità che in passato popolò il mondo? Amore significa anche mutamento, perdita del sé e, in ultima sintesi, morte? Che rapporto c'è tra corpo e spirito? E tra sogno e realtà? Di certo, una mera macchina non può saperlo. Non può comprendere.

sabato 20 agosto 2016

Harem End: Recensione

Titolo originale: Harem End
Autore: Shintaro Kago
 Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: inedito
Volumi: 1
Anno di uscita: 2012 


Shintaro Kago è un pazzo. Decostruttore estremo del fumetto, così efferato da reputare il suo stesso operato come merda, attraverso una perizia tecnica incontestabile, che si rifà all'iperrealismo grafico di Otomo e Maruo, il mangaka muove una satira grottesca di grande impatto, che fa di tutto per rimanere impressa nella mente del lettore, ponendosi con grande prepotenza attraverso corpi squartati in mille pezzi, cadaveri in putrefazione, sanguinose dissezioni di ragazzine innocenti, falli che diventano carri armati, parti del corpo umano che vengono ruotate e disassemblate allo stesso modo delle facce di un cubo di Rubik... insomma, si tratta di perversioni talmente creative da essere addirittura difficili da concepire, sicché provengono dagli angoli più reconditi della mente. Attraverso uno stile personalissimo, riconoscibile con poche tavole, il mangaka punta il ditino contro la società dei consumi e il suo deperimento dei valori, attraverso un masochismo splatter che stordisce come una bastonata in testa.
Un autore con un tale gusto dell'orrido, che ama collezionare action figures di cadaveri in putrefazione e strumenti di tortura (!), come si approccerebbe alla critica del medium animato e dell'otakuzoku in generale?
"Harem End" ci dà la risposta.

giovedì 28 luglio 2016

Shinsekai Yori: Recensione

Titolo originale: Shinsekai Yori
Regia: Masashi Ishihama
 Soggetto: Yusuke Kishi
Sceneggiatura: Masashi Sogo
Character Design: Chikashi Kubota
 Musiche: Shigeo Komori
 Studio: A-1 Pictures
Formato: serie televisiva di 25 episodi
Anni di trasmissione: 2012 - 2013


«Non ti pare che veniamo trattati alla stregua del vasellame? Una volta che il forno viene aperto e la ceramica ispezionata, tutti i pezzi che presentano crepe o deformazioni sono destinati ad essere distrutti. Dato che tutto ciò che ci attendeva era il destino di una ceramica fracassata, abbiamo deciso di fuggire, nella speranza di trovare un futuro diverso.» [Dalla lettera di Maria a Saki]

Inevitabilmente, nel contesto della società giapponese, la “morte” dell'individuo avviene col suo ingresso nell'età adulta e nel mondo del lavoro. Ad una fanciullezza libera, spensierata e privilegiata, giunta una precisa scadenza, seguono una pressoché completa rinuncia alla propria identità personale e una totale dipendenza dal gruppo di appartenenza, il cui invadente sguardo s'insinua in tutti gli aspetti della vita del singolo, inclusi quelli più intimi e privati. Nell'adulto nipponico non è pertanto ammesso un “lato oscuro”: l'ombra va rimossa, e i tratti psicologici incompatibili con i dettami imposti dall'esterno devono essere soppressi, pena la totale esclusione dalla società. Gli individui che non si adeguano al sistema vengono considerati alla stregua del fango, isolati e demonizzati, in modo tale che la loro carica “sovversiva” non possa danneggiare un meccanismo costruito sulle fragili fondamenta del formalismo, dell'apparenza e, in primis, della vergogna. La vergogna di non essere all'altezza delle aspettative altrui; la vergogna di esternare le proprie emozioni; la vergogna che si prova nella gestione del rimosso psicologico, che rimane sempre in agguato nel subconscio, pronto a minare la coesione sociale del gruppo. Giusto per rendere l'idea della rigidità della società giapponese, in seguito all'arresto dell'otaku serial killer di bambine Tsutomu Miyazaki (1989), gli otaku che si recavano nei negozi per comprare o noleggiare videocassette contenenti cartoni animati, venivano schedati dalla polizia come se fossero dei potenziali criminali, anche se nei fatti erano innocenti ed innocui. Da questo esempio – una goccia nel mare – si deduce che, inevitabilmente, all'interno di un insieme di persone basato sulla totale dipendenza dal gruppo, la paura per il diverso e la paranoia diventano delle reazioni meccaniche immediate, che inevitabilmente portano a crudeli “cacce alle streghe” coadiuvate da misure repressive prive di giudizio, figlie di psicosi collettive ben mascherate da volti brillanti, puliti e sorridenti.
Dal canto suo, “Shinsekai Yori” (lett. “From the New World”, palese citazione all'omonima sinfonia di Dvořák, che fa da leit motiv all'intera opera), oltre ad interrogarsi sulla legittimità di una società del genere, va molto più a fondo, decostruendola e sezionandola mediante potenti strumenti allegorici. L'anime tratto dal corposo romanzo di Yusuke Kishi (grande successo di pubblico e critica in madrepatria), unisce geniali trovate grafiche e registiche ad un coacervo di riflessioni sulla natura umana, rivelandosi uno degli anime più meritevoli, innovativi e complessi recentemente creati.

sabato 23 luglio 2016

Hell Girl: Recensione

Titolo originale: Jigoku Shoujo
Regia: Takahiro Omori
Soggetto: Hiroshi Watanabe
Sceneggiatura: Kenichi Kanemaki
Character Design: Mariko Oka
Musiche: Yasuharu Takanashi, Hiromi Mizutani
Studio: Deen
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 2005-2006


«In questa pazzia, incertezza,
riusciremo a lasciare il ricordo delle nostre emozioni?
In questa pazzia, mi hai dato la vita,
come possiamo proteggere le nostre emozioni?
In questa pazzia, incertezza,
come possiamo proteggere noi stessi?»

Il filone della Nuova Animazione Seriale (1995-2006) ha prodotto innumerevoli anime sobri, adulti, intellettuali e dai significati profondi, nei quali venivano messe a nudo l'incertezza, la pazzia e la confusione caratteristiche del periodo in cui opere come “serial experiments lain” e “Paranoia Agent” vedevano luce. I valori tradizionali sui quali si fondava il Giappone in seguito alla crisi economica novantina erano venuti meno, e l'intera nazione era disorientata, nonché succube del vuoto interiore postmoderno, altro fattore che ne lacerava – e ne lacera tuttora – l'identità nazionale e culturale, nonché quella coesione sociale estrema e quanto mai emozionale – di difficile comprensione per un occidentale - sulla quale si basano i ferrei valori gerarchici insiti nello spirito giapponese.

«Questo mondo è governato dal destino.
Un filo che si avvolge intorno ad un fragile e inutile pregiudizio.
Rabbia, odio, rancore, dolore e sofferenza.
A mezzanotte ascolteremo la tua vendetta.»

In un turbinio di cattiveria, incomprensione ed egotismo – e pertanto odio, dacché non si può odiare senza identificarsi col proprio ego/soggetto -, in una società che sta perdendo di vista la sua ragion d'essere, alcune persone, giunta la mezzanotte, si collegano a internet al fine di contattare la Jigoku Tsūshin, ovvero la Corrispondenza per L'inferno. Di sovente in preda ad un miscuglio di ansia e terrore, in soggezione o in lacrime, i suddetti malcapitati, una volta inoltrata la richiesta, vedono apparire Enma Ai, una ragazzina dallo sguardo fisso e dai capelli lunghi e neri, che consegna loro una bambola di paglia attorno alla cui testa è legato un filo rosso come il sangue. 

sabato 25 giugno 2016

House: Recensione

Titolo originale: Hausu
Regia: Nobuhiko Obayashi
Soggetto: Chigumi Obayashi
Sceneggiatura: Chiho Katsura
Musiche: Asei Kobayashi, Mickie Yoshino
Effetti speciali: Nobuhiko Obayashi
Produzione: Nobuhiko Obayashi, Toho Company
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1977
 

A detta di Nobuhiko Obayashi, regista, produttore e addetto agli effetti speciali di "House" (Hausu, 1977), fu sua figlia Chigumi – all'epoca frequentante il sesto anno delle elementari –, a suggerirgli l'idea di una casa che divorasse i propri abitanti. Mentre si stava pettinando davanti allo specchio del bagno, la ragazzina iniziò a fantasticare su quanto sarebbe stato terrificante se il suo stesso riflesso, in quell'attimo, fosse uscito dallo specchio per mangiarsela. Il padre, colpito e affascinato da quest'insolita immagine, chiese alla figlia cos'altro all'interno della loro casa avrebbe potuto attaccarla: «a volte, mentre suono il piano, le dita iniziano a farmi molto male; mi sento come se la tastiera me le stesse masticando». Incoraggiata dal padre, la piccola Chigumi Obayashi continuò così a concepire orrori nati dalla propria casa: fu in questo modo che, lentamente, iniziò a prendere forma la struttura narrativa e l'approccio visivo di "House".

sabato 23 gennaio 2016

Gozu: Recensione

 Titolo originale: Gozu
Regia: Takashi Miike
Soggetto: Sakichi Sato
Sceneggiatura: Sakichi Sato
Musiche: Koji Endo
Casa di produzione: Klock Worx Co., Rakuei-sha
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2003 


Quando i canoni di riferimento del cinema raggiungono la stagnazione, inevitabilmente esso diventa postmoderno, e prendono piede determinati registi "decostruttori" dei modelli prestabiliti, che li citano ma allo stesso tempo li negano, imbastendo un percorso semiotico in cui la trama intesa in senso classico viene meno; la linearità della narrazione degli eventi viene meno; gli idealismi e i romanticismi lasciano spazio a cliché che vanno a formare strutture ad archivio di dati tra le quali, talvolta, senza dover necessariamente passare per il raziocinio, emerge un messaggio esistenzialista figlio del contesto in cui il film nasce. Nella storia del cinema i pioneri di tale modus operandi sono stati Antonioni e Bergman; Takashi Miike in un certo senso rappresenta la fase finale del regista postmoderno: la sua opera è estrema in tutto e per tutto, sia formalmente che contenutisticamente, e la sua tendenza decostruttrice è feroce e paranoica, figlia delle perversioni inconsce di una società estremamente patriarcale, autoreferenziale e rigida come quella giapponese. Il cinema di Miike cerca di svincolarsi dalla sopracitata stagnazione in ogni modo possibile, aggiornando i canoni dell'assurdo e del grottesco con un gusto del kitsch marcio e perverso, che strizza l'occhio allo stile registico funambolico di David Lynch stravolgendo i convenzionalismi tipici del cinema giapponese e non.

sabato 9 gennaio 2016

Yume Nikki: Recensione

 Titolo Originale: Yume Nikki
Autore: Kikiyama
Tipologia: videogioco freeware
Piattaforma: Windows
 Data di uscita: 2004


"Yume Nikki" è un videogioco decisamente anomalo, sempre se definirlo "videogioco" sia corretto. Sviluppato da un'unica persona della quale non si conosce alcunché - a parte il soprannome, Kikiyama -, che si è dileguata nel nulla subito dopo il rilascio (gratuito e privo di copyright), il "gioco" è stato oggetto di numerosi dibattiti in rete, e ha ottenuto un successo telematico non da poco, con tanto di innumerevoli fan art e blog a tema. Fatto salvo ciò, m'interessa innanzitutto fare luce sul motivo principale per il quale "Yume Nikki" non sia un vero e proprio gioco: diciamo pure ch'esso sta ai videogiochi tradizionali come "Eraserhead" di David Lynch sta al cinema classico, sia formalmente che dal punto di vista della carica innovativa. In "Yume Nikki" non vi è alcuna storia: quella di Madotsuki (la protagonista dell'opera, il cui nome significa letteralmente "alla finestra") è un'epopea inconscia, un viaggio nei sogni più cupi, nevrotici e profondi; un vagare per enormi spazi oscuri senza finalità alcuna, a parte quella di raccogliere i ventiquattro effetti che serviranno a sbloccare il raccapricciante "finale" del "gioco", il quale a tutti gli effetti si potrebbe definire come un non-finale, il degno coronamento di una grande non-narrazione.
Inutile dire che nei blog di tutto il mondo i fan si siano sbizzarriti a cercare un senso in "Yume Nikki", a fornire molteplici spiegazioni dei suoi inquietanti simbolismi mediante le più svariate teorie e fantasticherie. Per chi scrive, tutti questi tentativi di trovare una storia all'interno di quella che di fatto è una non-storia, è una pura contraddizione dettata dall'eccessivo attaccamento del fandom alla struttura dei videogiochi tradizionali, la quale indubbiamente è finalistica per motivi commerciali - ovvero di semplice fruizione da parte delle masse. Pertanto, il mio scritto non sarà finalizzato a dare un senso teorico all'opera in questione, ma a fornirne un'analisi contestualizzata dei simbolismi. Proprio come l'inconscio umano che intende palesemente  rappresentare, "Yume Nikki" si esprime mediante raccapriccianti foreste di simboli, con un linguaggio multilivello impossibile da forzare in schemi prestabiliti senza l'ausilio di psicologia e antropologia.

venerdì 12 giugno 2015

Persona 2: Innocent Sin: Recensione

Titolo originale: Perusona 2: Tsumi
Sviluppatore: ATLUS
Soggetto: Cozy Okada, Kazuma Kaneko
Character Design originale: Kazuma Kaneko
Musiche: Toshiko Tasaki, Kenichi Tsuchiya, Masaki Kurokawa
Formato: PSX, PSP
Durata: 50 ore di gioco circa
Anno di uscita: 1999


 «I am Thou, Thou art I 
I am the Mask that dwell within the realm of the Awake and Slumber 
From the Sea of thy Soul, I come forth to brave adversity. 
By the same Coin, I test the potential and conviction in thy will and heart 
Though appearances may differ, I am a self wanting the same liberty as Thou 
Much to my dismay, if Thou wishes to be fractured then I will seek to be whole. 
However, Thou cannot separate from I so if Thou gives up life I take it 
Until that time I am Thou and Thou art I»

Cinque amici d'infanzia dal passato nebuloso ed avvolto nel mistero vengono convocati da Filemone, l'incarnazione dell'inconscio collettivo, il quale fornisce loro il potere delle Persona, degli esseri sovrannaturali che rispecchiano il lato creativo dell'inconscio - le ombre dei vari personaggi, parallelamente, sono dotate di delle Persona inverse, che ne rappresentano il lato distruttivo e complementare. Emerge fin da subito lo spiccato dualismo dell'opera, in cui ogni determinato simbolo possiede un perfetto opposto: l'altra faccia della medaglia che non si può discernere da quel sistema estremamente complesso che è l'animo umano.
Da un inizio apparentemente banale, in cui dei giovani dotati di un potere sovrannaturale devono salvare il loro mondo da uno spietato antagonista che agisce nell'ombra, il tutto si farà via via sempre più cupo ed introspettivo, culminando in quello che a mio avviso è uno dei migliori finali di sempre, una valanga di emozioni dalle spiccate allegorie psicologiche che rimandano in ogni singolo, lirico fotogramma, ai gloriosi fasti degli anime più truci ed intellettuali degli anni novanta.

sabato 21 marzo 2015

Il Vampiro che Ride: Recensione

 Titolo originale: Warau Kyuuketsuki

 Titolo inglese: The Laughing Vampire

Autore: Suehiro Maruo

 Tipologia: Seinen Manga 

 Edizione italiana: Coconino Press

Volumi: 2

Anni di Pubblicazione: 1998 



La narrazione inizia con un rimando alle desolate rovine cosparse di cadaveri e di sciami di mosche di Hiroshima e Nagasaki; dopodiché si sposta nell'attuale Giappone, dove i vizi e i mali prodotti dall'umanità - ed in particolare da una gioventù ridotta allo sbando - non si sono ancora estinti dopo una catastrofe apocalittica, inimmaginabile ed annichilente. Poco importa che un'anziana donna vampiro sia sopravvissuta all'inferno post atomico e sia giunta sino ai giorni nostri per mietere qualche vittima innocente succhiandole il sangue, talvolta facendola rinascere come vampiro. Lei è il male minore, allo stesso modo dei suoi "figli"; il vero male è la razza umana, così abnorme, ottusa, viziata, corrotta, perversa, animalizzata: mostruosa più di ogni vero mostro partorito dalla sua stessa immaginazione.

venerdì 20 marzo 2015

God's Child: Recensione

 Titolo originale: Kami no Kodomo

 Titolo inglese: God's Child

Autori: Nishioka, Kyoudai

 Tipologia: Seinen Manga 

 Edizione italiana: Non disponibile

Volumi: 1

Anni di Pubblicazione: 2009 

 
 
"God's Child" rientra perfettamente in quel disturbante sottogenere che personalmente amo definire "horror nichilista giapponese", sottogenere del quale "Midori shoujo Tsubaki" e "Litchi Hikari Club" sono un valido esempio di degni rappresentanti. Siamo di fronte alla provocatoria messa in scena della vita di un Gesù Cristo perfettamente antitetico all'originale; un serial killer psicopatico nato da delle feci in una latrina, quanto mai freddo, inquietante, cinico, sadico, lussurioso, ma allo stesso tempo lucido, consapevole di compiere le più grandi aberrazioni e raccapriccianti crudeltà che l'uomo sia in grado di concepire.

venerdì 12 dicembre 2014

Kant: Recensione

 Titolo originale: Kant

Soggetto: Takeshi Otani

Disegni: Roberto Pentassuglia, Marianna Guarnieri

Seneggiatura: Roberto Pentassuglia

 Tipologia: Produzione Indipendente

Volumi: 1

Anno di uscita: 2014 

 

«L'incontro avviene la prima sera d'estate. Si entra nel bosco come bambini e se ne esce come adulti. Non è un cambiamento fisico quanto una sorta di consapevolezza.
Noi l'abbiamo sempre considerato un gioco, un'avventura, una curiosità morbosa di sapere come sarebbe stato una volta avuto il proprio Es.
Per diventare adulti nella società bisogna mostrare il proprio Es. L'incontro avviene nel bosco che circonda il villaggio.
Lo chiamiamo villaggio perché così ci hanno insegnato, ma potrebbe essere un borgo o una grande città. Le parole non bastano per descrivere l'essenza delle cose. Per questo serve l'Es. E' ciò che caratterizza le persone e i luoghi. I nomi e le descrizioni non sono nulla di fronte all'immagine.
Dare vita ad un'idea, fornirle voce e corpo, questo è il miracolo che chiamiamo Es. Queste presenze dotate di vita propria sono il sigillo del destino. Indicano cosa diventerai nella vita, quali grandi mete ti sono destinate.
»

sabato 18 ottobre 2014

Litchi De Hikari Club: Recensione

Titolo originale: Litchi De Hikari Club

 Titolo inglese: Lychee Light Club 

Autore: Usamaru Furuya

 Tipologia: Seinen Manga 

 Edizione italiana: Goen

Volumi: 1

Anno di uscita: 2006

 


Nella fuligginosa città industriale c'è una sola fonte di luce... il Club della Luce. Una confraternita segreta composta da giovani ragazzi che ha sede in una sporca fabbrica abbandonata. Essi sono al punto di avviare il coronamento del loro sogno, una sofisticata "macchina pensante" umanoide il cui scopo primario è quello di rapire belle ragazze. Allo stesso tempo, i collegiali, e la loro solidarietà reciproca, stanno devolvendo in una melma neonazista coronata da paranoie omicide, estetismo perverso e, talvolta, omosessualità repressa...

domenica 28 settembre 2014

Midori - La Ragazza delle Camelie: Recensione

Titolo originale: Midori Shoujo Tsubaki
Regia: Hiroshi Harada
Soggetto: Suehiro Maruo
Sceneggiatura: Hiroshi Harada
Character Design: Hiroshi Harada
Musiche: J. A. Seazer
Studio: produzione indipendente
Formato: film cinematografico 
Durata 52'
Anno di uscita:1992


Nella filosofia orientale, sopratutto nel buddhismo, il tema riguardante la linea di demarcazione tra illusioni e realtà è dominante. Al di là della ruota dell'esistenza, che imprigiona le creature nell'eterno ciclo del Samsara, c'è l'assoluto, il quale allo stesso tempo è il nulla. La sofferenza prodotta dalla vita nel mondo dell'illusione è uno dei temi chiave degli insegnamenti del Buddha. Così come la liberazione dalla sofferenza derivante dalle illusioni create dalla nostra mente. Ora provate a immaginare una trasposizione horrorifica e malata di tale concezione, nella quale il vivere è pura angoscia. Una cosa nauseante. Macabra. Grottesca. Questa è l'idea che ha avuto Hiroshi Harada, il quale, da solo, per cinque anni, ha creato questo controverso film, "Midori/Shoujo Tsubaki", basandosi sul manga di Suehiro Maruo, adattamento a fumetti di una "Kamishibai" (lett. "dramma su carta"), ovvero un racconto folkloristico giapponese tramandato in passato dai monaci buddhisti attraverso le "emakimono" (lett. "pergamene immagine").