mercoledì 10 dicembre 2014

Ai City: Recensione

Titolo originale: Ai Shiti
Regia: Kouchi Mashimo
Soggetto: basato sull'omonimo manga di SYUFO
Sceneggiatura: Hideki Sonoda
Character Design: Chuuichi Iguchi
Musiche: Shiro Sagisu
Studio: Toho, Movic, Ashi Productions
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1986


In una marea di robaccia dimenticata, c'è sempre della robaccia buona. "Ai City" emerge dal marasma degli OAV anni '80 filo-statiunitensi in modo quanto mai eclatante e sborone: già la scena di apertura è tutta un programma. Si accendono le luci della città, ed ecco che parte una musica J-POP composta da un'ispirato Shiro Sagisu che rimanda ai gloriosi fasti di "Megazone 23"; le trombe midi squillano, le chitarre elettriche ringhiano aggressive, scandiscono note possenti, meccaniche; sono ritmi da musica dance, quella vera, e vengono giustamente coadiuvati da un cantato banale e senza senso alcuno. E lo spettatore, che se ne sta lì, sdraiato sul divano con lo sguardo apatico e fiacco, anch'egli diventa anni '80. Gli crescono i capelli, con tanto di tinta ed acconciatura Glam Rock, mentre si esalta di fronte all'inseguimento iniziale alla "Miami Vice" animato a ventiquattro frames al secondo, pieno di luci, colori, ombreggiature e riflessi studiati al dettaglio. I grattacieli, le donne alte due metri, gli esper che devastano tutto muovendosi con delle coreografie che paiono appena uscite da un video di Michael Jackson... che l'esaltazione abbia inizio. Ci vuole lo stato d'animo giusto: gli anni '80 bisogna sentirli dentro. Bisogna riviverli.


La trama di "Ai City" c'è. E' presente (ma poteva anche non esserci, andava bene lo stesso). Una bambina possiede la chiave per innescare la distruzione del mondo; degli esper creati in un misterioso laboratorio la cercano; un'altro esper, dalla faccia meno alla "Terminator" dei cattivi, la ama e la protegge, siccome è la clone della sua defunta donna; c'è un investigatore squattrinato che non fa mai nulla oltre a farsi corteggiare dall'esper più gnocca di tutte: una rossa da brividi che scorrazza in giro per la città vestita da coniglietta di PlayBoy. Ci sono pure tecnobubbole sulla genetica e sull'evoluzione umana messe lì a caso, che paiono parodiare "Il Gene Egoista" di Dawkins; raccapriccianti scene di metamorfosi organica che anticipano di tre anni il film di "Akira"; scienziati che clonano, manipolano... e tutto esplode, si fonde, si riplasma, annichilisce lo spettatore. Non mancano incursioni nel surrealismo più spinto ed insensato: il protagonista prende per mano la sua "donna", il contatore sulla sua testa schizza ad infinito e viene immediatamente lanciato un attacco psichico combinato, che imprigiona la Rossa (con la R maiuscola) in una dimensione alternativa, probabilmente uscita dalla penna di un André Breton ubriaco; la malcapitata viene automaticamente denudata: vagherà mostrando le sue forme perfette nel metaspazio rosso cremisi. E tutto questo succede un'anno prima di "Wicked City".


E se poi non siete contenti, se volete di più, "Ai City" è pure un po' splatter. Splatter come si deve: ci sono teste che esplodono, con tanto di pezzetti di cervello puzzolenti ed imbrattati di sangue che svolazzano qua e là andando a sporcare la faccina bianca come il latte di una donna bellissima a caso la quale, d'altronde, pare non curarsene affatto, giacché altrimenti il tutto sembrerebbe addirittura realistico. Niente isteria, niente grida di terrore. Tutto è figo e possente al massimo, allo stesso modo del cattivo con gli occhi bionici che levita con fare inquietante.
L'anime in sé si rifà pienamente allo sci-fi dell'epoca: sono presenti alcune affinità con quel gioiellino di "Iczer One" per quanto riguarda il design iperdettagliato, la lolita a bagno in una capsula amniotica e gli orrendi mostri sui quali Lovercraft ci metterebbe la firma. Anche le atmosfere quando s'incupiscono non scherzano, e sono in parte affini alla magnum opus di Toshiko Hirano.


Il regista è uno che ne sa tante. Aveva già diretto "Dominion Tank Police", e si vede: alcune scene sono completamente assurde, con bianchi e neri espressionisti, ingengose, goffe trovate da Pop Art che paiono quasi eleganti nella loro assoluta bruttezza. Tecnicamente l'anime è avanti anni luce: il design, gli onnipresenti riflessi patinati, la cura dei dettagli... anni '80! Bolla economica! Budget elavati! Roba che oggi vi sognate.


Una critica cinematografica - evidentemente con un po' di senso dell'umorismo -, tale Helen McCarthy, nel suo libro "500 Essential Anime Movies: The Ultimate Guide" asserisce che quello di "Ai City" è uno dei migliori finali di sempre nella storia dell'animazione. Ed ha ragione: "Ai City" resta sborone e senza logica alcuna fino alla fine; fino al suo finale provocatorio, superficiale ed insensato; un finale "troll", come si direbbe presso i nostri lidi. Ma "troll" con stile, con grande baldanza, con un mood che spacca tutto vomitando in faccia allo spettatore superficialità, inconsistenza e perizia tecnica figlia dell'americanismo più sfrenato. Perché "Ai City" è anche un po' trash; ma trash buono, appassionante, che ti fa volorantariamente spegnere il cervello per godere di più mentre le luci, i colori e i suoni corrispondono tra loro creando la giusta atmosfera. E qualche bella tipa vestita da coniglietta di PlayBoy con un cannone a raggi fotonici in mano non guasta mai. Questo è poco ma sicuro.










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