Regia: Gisaburou Sugii
Soggetto: basato sull'omonimo racconto di Kenji Miyazawa
Soggetto: basato sull'omonimo racconto di Kenji Miyazawa
Sceneggiatura: Minoru Betsuyaku
Character Design: Hiroshi Masumura
Musiche: Haruomi Hosono
Studio: Group TAC
Formato: film cinematografico
Durata: 105'
Anno di uscita: 1985
Anno di uscita: 1985
Nella cultura giapponese, il racconto
di Kenji Miyazawa che dà il nome a questo film è un grande
classico, a mio avviso paragonabile a quello che per noi occidentali
è il "Piccolo Principe" di Antoine de Saint-Exupéry. Gli
anime che in qualche modo si sono ispirati all'opera di Miyazawa sono
innumerevoli, tant'è che lo scrittore ha avuto una forte influenza sulla poetica di Isao Takahata, Hayao Miyazaki e, in parte, sul brillante "Mawaru
Penguindrum" di Kunihiko Ikuhara. Fatta questa doverosa premessa, il film di
cui scriverò è un adattamento cinematografico fedele al cartaceo,
che ne ripropone l'atmosfera inquieta e sognante con fare molto
riflessivo, lento, denso di quel tipico sense of wonder delle
fiabe per bambini. Il regista alla guida di questa monolitica
trasposizione è un vero e proprio veterano dell'animazione old
school, Gisaburou Sugii, un nome – purtroppo - misconosciuto ai
più il quale nel corso della sua carriera ha lavorato in adattamenti
animati di opere seminali del calibro di "Tetsuwan Atom",
"Dororo", "Glass
no Kamen" e "Genji Monogatari".
Per chi scrive vale la pena spendere
qualche parola sulla storia di Giovanni e Campanella (rappresentati
da Sugii come due gatti antropomorfi, nonostante nelle opere
originali di Miyazawa i felini raffigurassero prevalentemente personaggi negativi);
i protagonisti di "Ginga Tetsudou no Yoru" sono due bambini
che all'improvviso si ritrovano faccia a faccia con la perdita, con
la percezione della morte - resa alquanto affascinante dal talento
visionario di Miyazawa. I due si ritroveranno a viaggiare sopra un
treno in grado di volare in un'immaginifica Via Lattea cosparsa di
simboli religiosi, persone che scompaiono nel nulla di punto in
bianco, cacciatori che raccolgono a braccia aperte uccelli dal sapore
di zucchero, che volano eleganti in una danza di suoni eterei densa
di malinconia. Il racconto originale del poeta giapponese, infatti,
era stato scritto dopo ch'egli aveva perso la tanto amata sorella, ed
è una personalissima riflessione sul ciclo dell'esistenza, densa di
allegorie talvolta impenetrabili. La risposta all'eterno dilemma che
tanto tormenta l'uomo sin dalla notte dei tempi in questo caso viene
dal buddhismo, del quale Miyazawa era un fervente sostenitore. "Ginga
Tetsudou no Yoru" è quindi un'opera per nulla banale, da
assimilare col cuore di un bambino e l'esperienza di un'adulto.
L'opera contiene alcuni elementi
autobiografici del regista, che per un periodo della sua vita durato una decina d'anni aveva abbandonato ogni cosa, inclusi lavoro e
famiglia, al fine di girovagare solitario per il Giappone a bordo di
un vecchio treno. La memorabile scena in cui Giovanni osserva
malinconico da un'altura distante la festa che sta avvenendo nel
villaggio, riflette pienamente il sentimento di “distacco dagli
affetti” provato da Gisaburou Sugii durante i suoi solitari viaggi
giovanili; non stupisce pertanto il fatto che per il grande artista,
“Ginga Tetsudou no Yoru” si tratti del suo progetto meglio
riuscito, tant'è che a suo dire, la mente dello staff durante la
lavorazione del lungometraggio era diventata un'unica cosa,
un'indivisibile unità carica di armonia.
Preso come film in sé stesso questo adattamento risulta quanto mai giapponese, sia nella forma che nella sostanza; gli eventi procedono con immane lentezza, e viene data una grande attenzione a piccolezze e particolari apparentemente insignificanti, i quali potrebbero sfuggire allo spettatore occidentale occasionale. Lunghi silenzi alternati a sguardi che fissano nel vuoto, una generale tendenza alla cupezza ed alla pesantezza, sono elementi che caratterizzano una pellicola decisamente ostica per chi cerca del puro intrattenimento fine a sé stesso. Il dramma che si respira in questo macigno cinematografico è decisamente atipico, riflessivo; ogni scena pare appositamente dilatata per trasmettere una granitica e silenziosa inquietudine, che si agita in sterminati spazi dal colore della pece, spazi in cui è facile smarrirsi, risucchiati dal gioco sognante dell'eterno danzare della vita e della morte.
Preso come film in sé stesso questo adattamento risulta quanto mai giapponese, sia nella forma che nella sostanza; gli eventi procedono con immane lentezza, e viene data una grande attenzione a piccolezze e particolari apparentemente insignificanti, i quali potrebbero sfuggire allo spettatore occidentale occasionale. Lunghi silenzi alternati a sguardi che fissano nel vuoto, una generale tendenza alla cupezza ed alla pesantezza, sono elementi che caratterizzano una pellicola decisamente ostica per chi cerca del puro intrattenimento fine a sé stesso. Il dramma che si respira in questo macigno cinematografico è decisamente atipico, riflessivo; ogni scena pare appositamente dilatata per trasmettere una granitica e silenziosa inquietudine, che si agita in sterminati spazi dal colore della pece, spazi in cui è facile smarrirsi, risucchiati dal gioco sognante dell'eterno danzare della vita e della morte.
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