martedì 1 dicembre 2015

20th Century Boys: Recensione

 Titolo originale: Nijuu seiki shounen

Autore: Naoki Urasawa

 Tipologia: Seinen Manga 

 Edizione italiana: Planet Manga

Volumi: 22

Anno di uscita: 1999

 


“20th Century Boys” è uno dei manga più rappresentativi degli anni novanta. Si tratta di un'opera di ampio respiro, che si fa carico di grandi ambizioni senza tuttavia risultare prolissa e indigeribile; un monumento narrativo carico di rimandi alla cultura popolare – giapponese e non – in cui viene raccontato un sogno tradito, quello dei ragazzi del ventesimo secolo che nel 1970 vissero l'Expo di Osaka e l'impatto ideologico del primo uomo sulla Luna, dell'epocale concerto di Woodstock, della stessa Torre del Sole, che con il suo volto dorato sembrava protesa verso un sogno di sviluppo e armonia della razza umana completamente antitetico rispetto al nichilismo della società contemporanea. “20th Century Boys” è una sorta di testamento della postmodernità nipponica, dai suoi albori (1970) sino al fallimento ideologico indotto dal clima di terrore del Giappone degli anni novanta, in cui il ben noto attentato alla metropolitana di Tokyo del '95 messo in atto dalla setta religiosa Aum Shinrikyo terrorizzò i giapponesi - migliaia di persone furono avvelenate con il gas sarin in nome dell'irrazionalità e della follia. Il problema delle sette terroristiche che affliggeva il Giappone di quell'epoca – tra l'altro quanto mai attuale in tutto il mondo civilizzato, si pensi alla recente strage di Parigi – era dovuto all'alienazione che la società viveva in quel periodo buio, caratterizzato da una vera e propria psicosi collettiva; non per nulla, l'imminente passaggio al ventunesimo secolo era stato mistificato dai mass media mediante tenebrose suggestioni inerenti un'ipotetica catastrofe che avrebbe abbattuto il genere umano – personalmente, mi ricordo ancora quel clima di incertezza: il fantomatico millennium bug, la violenza degli attentati terroristici e l'orrore che si provava di fronte ai notiziari; alcuni, addirittura, rifacendosi alle teorie complottistiche in voga all'epoca, immaginavano misteriosi antagonisti avvolti nell'ombra che avrebbero dominato il genere umano e decretato la sua fine, magari distruggendo il mondo allo scoccare della prima mezzanotte del ventunesimo secolo. 

 
“20th Century Boys” è tutto questo, e forse di più. Certamente, non si tratta un manga che si potrebbe comprendere pienamente senza averlo “vissuto” e contestualizzato, dacché lo scopo principale del suo autore è quello di parlare di una transizione da passato a futuro che si rivela priva di significato, frammentaria, volendo relegata indissolubilmente all'idealità dell'infanzia e ai suoi innocenti mostri – il sogno infantile divenuto realtà che assume i connotati di un orrore da incubo è l'idea alla base dell'intreccio narrativo. Perché la storia di Kenji, Occio, Minamoto e tutti gli altri ragazzi del ventesimo secolo è la storia dell'attaccamento eccessivo al proprio tempo, di dei bambini che non vogliono crescere e che, una volta adulti, continuano a perseguire i loro giochi forzando il presente che non gli appartiene ad essere com'era il loro passato, quel luogo perso nei meandri della memoria che si ritorce nella psicologia di ognuno sino a venire addirittura ricreato virtualmente, ovvero sublimato in una dimensione inattaccabile, immutabile e fine a sé stessa – il gioco dell'Amico.


Le vicende del manga, le quali si alternano su molteplici linee temporali in modo da formare una straniante sensazione di “annullamento del presente”, ruotano attorno all'Amico, il leader di una setta terroristica il cui simbolo vagamente massonico ricalca in tutto e per tutto quello utilizzato dal gruppetto di amici di Kenji nelle loro scorribande infantili, caratterizzate da improbabili piani di conquista del mondo presi di peso dai loro tokusatsu show preferiti – le citazioni alla malvagia organizzazione Shocker di “Kamen Rider” si sprecano! -, deliranti libri delle profezie, riviste porno nascoste sottoterra, segreti, incomprensioni, sogni nel cassetto resi irrealizzabili dallo scorrere del tempo e delle mode – Kenji dopotutto è un musicista fallito perennemente soggiogato dai totem musicali della sua epoca; Dio continua a sognare il ritorno di un boom del Bowling che mai arriverà - e così via. Questa “nostalgia tradita” di tutti i protagonisti del manga viene resa magistralmente mediante numerosi flashback, alcuni dei quali si rivelano struggenti, realistici e pieni di spunti d'identificazione per il lettore. In questo avvincente andirivieni temporale sembra quasi che la misteriosa figura dell'Amico simboleggi il lato oscuro del cambiamento, della caduta degli ideali e del rifiuto di crescere, risultando, al di là dell'effettiva identità del personaggio – che rappresenta la chiave di volta sulla quale si regge l'innata suspense del manga -, un mostro generato dall'eccessivo attaccamento al passato di una generazione troppo viziata dal suo tempo.


Come il lettore avrà intuito, i protagonisti di “20th Century Boys” sono delle persone comuni, un coacervo di ritratti umani decisamente ben caratterizzati e verosimili. Nell'opera non vi è alcun superuomo né personaggio idealizzato: ognuno ha il suo passato, le sue debolezze, i suoi fantasmi pronti a tormentarlo, nonché determinate predisposizioni psicologiche indotte dal contesto circostante. In particolare Kana, la nipote del protagonista Kenji, è stata scritta così bene da sembrare in tutto e per tutto una persona reale, in carne ed ossa: ella piange, ride, vede i suoi ideali traditi dalla realtà, deve raggiungere compromessi quando invero non vorrebbe, soffre, cerca di essere sé stessa quando le circostanze non glielo permettono.


Dalle incursioni cariche di nostalgia nei meandri dell'infanzia alla “Stand by Me”, sino agli scenari distopici e cupi che fanno il verso all'opera letteraria di Orwell, passando per quella quotidianità giapponese con tutte le sue tradizioni ed usanze, spalmata lungo un arco temporale di trent'anni, Urasawa mette in moto una macchina narrativa dalla grande complessità, dimostrandosi tuttavia incapace di gestirla nel migliore dei modi possibili. L'eccessiva pirotecnia narrativa dell'autore talvolta si rivela un'arma a doppio taglio, e alcuni interessanti spunti di riflessione vengono stroncati a metà strada da un manierismo stilistico che in alcuni frangenti dell'opera diventa a dir poco ridondante e inopportuno. Nondimeno, a mitigare questo difetto del manga vi è un citazionismo quasi enciclopedico che si destreggia nel tirare in ballo brani di musica rock anni settanta – lo stesso titolo dell'opera rimanda all'epocale “20thCentury Boy” dei T Rex -, fumetti d'annata, cinema, spettacolo, sport e altro ancora. Per quanto concerne la regia delle tavole, Urasawa si rifà a Tezuka dimostrando di possedere l'accuratezza del regista cinematografico di talento: la perizia tecnica del maestro è talmente elevata ch'egli potrebbe parlare del nulla per innumerevoli albi senza mai far calare l'attenzione e il coinvolgimento del lettore - notevole l'espressività dei volti dei personaggi, resa con poche, armoniose linee di grande effetto.


Quando si discute di opere d'intrattenimento giapponesi come anime e manga, è naturale che entri in ballo il termine “postmoderno”. In particolare, sia nei contenuti che nella forma, “20th Century Boys” è certamente uno dei manga più postmoderni in senso stretto che abbia mai letto. Come diceva Umberto Eco, il postmodernismo è la sensazione che il passato ci stia incatenando, confondendo, ricattando. Per quanto concerne l'opera recensita, nulla di più vero. Si pensi al seguente dialogo, a parer mio uno dei più significativi del manga:

«Sta riflettendo su come fare a superare questo muro, vero?»
«Mmm... toh?» [seduto in disparte, Kenji sta componendo una canzone imbracciando la sua chitarra]
«No, non ci siamo. Anche questa è una scopiazzatura.
«Come?»
«Io m'illudevo di essere riuscito a comporre un pezzo stupendo, ma i motivi più belli sono già stati creati da qualcuno nel passato.»
«Ma allora non stava pensando a come superare il muro?»
«Ma va', un muro del genere è impossibile superarlo.»

Il muro che separa Kenji dalla città di Tokyo, la sede di tutte le vicissitudini della sua giovinezza, diventa il muro della stagnazione, della prigionia indotta dalle catene del passato. Il successivo attraversamento di tale ostacolo da parte del protagonista è un gesto quasi farsesco, carico di insicurezza e impotenza nei confronti dell'avvenire. Ciononostante, la sfida finale che dovrà affrontare il 20th century boy contro l'Amico si rivelerà una sorta di presa di coscienza dei propri errori, un evento che si riallaccerà alle primissime vicende del manga chiudendo un cerchio simbolico che paleserà il messaggio finale dell'autore in modo alquanto struggente.


Curiosamente, la storia dei ragazzi del ventesimo secolo ha molto in comune con un film pressoché contemporaneo: mi riferisco all'indimenticabile “TheAdult Empire Strikes Back” di Hara, che condivide moltissimi punti in comune con “20th Century Boys”, sopratutto dal punto di vista dei contenuti. Ciò detto, le due opere brillano di luce propria nonostante le loro innegabili similitudini, in quanto realizzate da due autori di razza dallo stile molto differente – tra l'altro, replicare la trama concepita da Urasawa in un mero film di circa due ore sarebbe quantomeno impossibile.


Ci si chiede, nei battenti finali dello scritto, se sia il caso di parlare di “capolavoro” oppure no; il fatto che il finale del manga – il quale è contenuto nel sequel di due volumi “21st Century Boys” - riesca a dimostrarsi consistente con i primi frangenti della narrazione dimostra che l'autore abbia avuto in mente tutto sin dall'inizio, anche se non è stato in grado di sviluppare sino a fondo alcuni misteri e sottotrame legate a determinati personaggi secondari. Insomma, se per “capolavoro” si intende un'opera perfetta in tutto e per tutto, allora certamente “20th Century Boys” non lo è; tuttavia, se per “capolavoro” si intende un'opera che ha saputo perfettamente rappresentare il suo tempo e la poetica del suo creatore, allora sì, “20th Century Boys” è indubbiamente un capolavoro del fumetto giapponese.





2 commenti:

  1. Allego questo capitolo di Little Boy in cui si parla della setta otaku Aum Shinrikyo (a cui si e' ispirato Urasawa per creare la setta dell'Amico) e del suo rapporto con l'idealismo tradito dei suoi partecipanti, i quali guardacaso facevano parte della generazione di bambini che aveva vissuto l'idealismo dell'Expo di Osaka del '70 in prima persona.

    http://www.gwern.net/docs/eva/2005-sawaragi

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  2. sono l'anonimo-senza-nick

    Urasawa ha rifatto e allungato il finale nella Kanzenban, ad oggi inedita in Italia.

    Si tratta certamente della piu' giapponese delle opere di Urasawa, quasi un romanzone popolare, e quindi anche la piu' fraintesa all'estero (quanto meno qui da noi).

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