sabato 23 agosto 2025

Letture: Mishima, Gadda e altri


In questo periodo della mia vita così privo di emozioni e particolari turbamenti, una sorta di eterno presente à la Beautiful Dreamer, leggo molto. Quest'anno in particolare ho iniziato la temeraria lettura della Recerche di Proust, un gravoso impegno che tuttavia intervallo con letture più "leggere". Qui "recensisco" alcune di esse, in particolare I racconti della maturità di Checov, Il Maestro di Vigevano di Mastronardi, La Cognizione del Dolore di Gadda,  Lo Stadio di Wimbledon di Roberto del Giudice e infine, gran finale, Confessioni di una Maschera di Mishima Yukio. Ovviamente le edizioni che ho letto sono quelle che ho caricato come immagini di corredo al testo (occhio quindi a non comprare la versione tradotta dall'americano del libro di Mishima). Cover Photo (titolo: un abitacolo vuoto) by me. 

 

- Checkov, I racconti della maturità (2/5)

 


Per quanto blasonato, Checkov proprio non mi va proprio giù: lo trovo abbastanza prolisso e fin troppo "scontato" per i tempi moderni. Volendo dire le cose fuori dai denti, la letteratura russa in generale, con tutta la sua ortodossia e senso di colpa, dopo un po' finisce inevitabilmente per farmi addomentare (l'unica eccezione credo sia Dostoevskij). Di questa raccolta di Checov ho molto apprezzato il Monaco Nero, un racconto di matrice autobiografica che narra di solitudine, solipsismo, burocrazia, inadeguatezza della figura dell'intellettuale nei tempi moderni. Insomma, il Monaco Nero mi ha preso perché un po' mi ci sono ritrovato: in fondo altro non sono che un individuo egoista e autoreferenziale, una modalità di esistenza forgiata per sopravvivere a un mondo (post)moderno (a breve post umano) in cui ho come la sensazione che sia per forza di cose necessario accettare, pena la sedazione chimica, le propria innaturale, solitaria frigidità. Gli altri racconti a parte Il Monaco Nero li ho mal sopportati: il ricco brutto che si mette con la tizia bella ma povera che se lo piglia soltanto per i soldi; la retorica a tratti stucchevole (tipo "chi vivrà vedrà", ma grazie al c****, direi) e così via, il tutto in uno scenario che ho percepito molto simile alle drammatiche telenovele della nonna. A mio parere i giappi, a causa della loro innata, masochistica follia coadiuvata da un disagio sociale che di questi tempi non è mai fuori contesto, restano degli interpreti della modernità di gran lunga superiori ai russi, quindi da est preferisco scendere verso il più congeniale paese del Sol Levante. Dopotutto un racconto di Akutagawa, prendiamo ad esempio Kappa, nel 2025 non risente minimamente dei suoi anni; un racconto di Checov, a mio modesto parere, invece sì. 

 

- Il Maestro di Vigevano, di  Lucio Mastronardi (4/5)

 


Come il Monaco Nero di Checov, Il Maestro di Vigevano è una parabola autobiografica sull'inadeguatezza dell'intellettuale nella modernità. Qui vi è però un'ironia molto pungente e una crudezza narrativa "da giapponese" (tra l'altro Mastronardi ha fatto la stessa fine di molti grandi scrittori giapponesi moderni). Per quanto riguarda l'ambientazione siamo negli anni sessanta, a Vigevano: quindi boom economico, nessuna globalizzazione a impoverire la gente e perciò anche degli analfabeti, a patto di saper fare bene le scarpe, possono aprirsi un'aziendina e diventare ricchi (cosa inimmaginabile nell'oggidì). Antonio Mombelli invece no, nonostante le vacche grasse tutt'intorno decide di fare soltanto il maestro, lo statale, e si fa venire due coglioni così a stare dietro a ragazzini stupidi e colleghi che, inetti quanto lui, non danno alcuna importanza all'istruzione, ma ai numeri (il figlio di industriale è meglio del figlio di disgraziato; non vedo l'ora che arrivi lo scatto di stipendio del coefficiente bla bla bla ecc.). L'avvocato del paesello, d'altro canto, è quello più avanti di tutti: prevede che in un futuro non troppo remoto dell'umanità ci si esprimerà soltanto per cifre, dato che il profitto è l'unica cosa degna di essere e tutto il resto non conta per davvero. Una volta tornato a casa dal lavoro Mombelli, come se non bastasse, ha pure la moglie a fargli da sfrangimaroni: lei, del tutto assuefatta dalle nevrosi della società, vorrebbe che lui si ritirasse dall'insegnamento in modo tale da tirare su un'aziendina di scarpe con i soldi della sua liquidazione. I due tra l'altro hanno pure un figlio, sì, la famiglia nucleare del boom e quelle cose lì, ovvio: ma quel figlio, manco a dirlo, è il risutalto di un adulterio. Disperato, allora, il Maestro si rifugia nella visione catartica di Eva, una ragazza che intravede nuda tra le fronde degli alberi durante una passeggiata in mezzo ai boschi. Peccato però che Eva, da lui idealizzata come una sorta di Venere di Botticelli, in realtà sia una mignotta. La narrazione prosegue poi con grande ironia, senza mai perdere un colpo, e si capisce perché la storia abbia fatto presa su un grande come Elio Petri: ne Il Maestro di Vigevano, infatti, quello con Alberto Sordi, c'è tutto il nocciolo della futura critica sociale del regista (il cui culmine molto probabilmente è il dissacrante, ma profetico, Buone Notizie, che di fatto è uno sguardo rivolto ai giorni nostri). 

 

- La Cognizione del Dolore, di Carlo Emilio Gadda (4/5)

 

 

In un'intervista Walter Siti ha affermato: "Ho provato a chiedere a chat GPT di farmi un'introduzione di un libro alla Fabio Volo: non ha avuto alcun problema. Ma quando gli ho chiesto di farne una alla Gadda, non ce l'ha neanche minimamente fatta. Questo perché la macchina non può trasporre la forza dell'inconscio". 

Gadda è infatti l'incoscio armato di macchina da scrivere, uno che nell'atto creativo perde completamente per strada il proprio ego. Lo stile di scrittura è frammentario; talvolta non si capisce neanche cosa si stia leggendo, ma se si è abbastanza sensibili, quelle parole vengono introiettate dai propri abissi interiori, e in essi risuonano come campane. La Cognizione del Dolore, in questo, è la sua opera più esasperata, siccome narra del tetro rapporto tra l'autore e sua madre, un rapporto incrinato dalla morte in guerra del fratello di lui e da un forte complesso di Edipo che rintocca nel sottofondo della narrazione. La cognizione del dolore è un libro per l'appunto dedicato alla fase antecedente alla piena consapevolezza del dolore, un dolore invisibile, primigenio, che scoppietta tra le pagine fino ad assumere caratteri universali nel momento grottesco della morte della madre, una sorta di "apocalisse normale" perché Gadda rifiuta ogni forma di titanismo e idealità e preferisce rappresentare le cose a pennellate rosse discontinue, come il Van Gogh della letteratura che egli incarna. Di seguito alcuni passaggi che parlano allo Spirito, sempre se ne esiste uno; nonché alla dolorosa sete di verità che si nasconde tra le viscere di ognuno. Ulteriori commenti o velleità recensorie, a mio parere, sono del tutto inutili.  

 

"Il figlio pareva aver dimenticato al di là d'ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce di ogni guerra: e d'ogni spanventosa morte". 

 

"Era  il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare lacausa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tuttl il fulgurato scoscendere d'una vita, più greve ogni giorno, immedicato". 

 

"L'avrebbe condotta dove si dimentica e si è dimenticati, altre le case ed i muri, lungo il sentiero aspettato dai cipressi". 

 

"Tardi rintocchi: e il lento lucignolo delle vigilie si era bevuto il silenzio". 

 

"L'intimo vigore della consapevolezza si smarriva: come di bimba urtata dalla folla, travolta". 

 

"Vagava nella casa, come cercando il sentiero misterioso che l'avrebbe condotta ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d'ogni pietà e d'ogni imagine. Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci: occupate da poche mosche. E intorno alla casa vedeva ancora la campagna, il sole".  

 

- Lo Stadio di Wimbledon, di Roberto del Giudice (2/5)

 


 Daniele del Giudice fu uno scrittore scoperto da Italo Calvino e "riesumato" da Pierpaolo Vettori, che vinse il concorso Neri Pozza con un libro dedicato a lui. Dato che Vettori come scrittore non mi piace, anzi di leggere il suo libro sono andato a riscoprire direttamente Del Giudice, di cui ho letto il qui presente Lo Stadio di Wimbledon (in precedenza comunque avevo altresì letto l'altrettanto fumoso Atlante Occidentale). Lo Stadio di Wimbledon, da cui tra l'altro è stato tratto un omonimo film francese di inizio anni duemila, racconta la vicenda di un indefinito protagonista narrante che decide di andare a Trieste a cercare di capire perché un intellettuale da poco tempo deceduto (nella realtà si tratta di Robert Bazlen), nonostante il suo talento e la sua cultura,  non abbia mai scritto. Si aprono quindi riflessioni molto borghesi sulla vita, sulla funzione della scrittura, il significato di essere scrittori ecc., che stringendo stringendo si riducono all'ovvio "o vivi, o scrivi". Bazlen infatti preferiva vivere, influenzare la vita degli altri tramite l'azione, e quindi per lui scrivere è stato inutile. A corredo di questa cosa abbastanza banale (e neanche sotto certi aspetti vera, dato che la funzione principale dell'arte è il copium, il tentativo dell'essere umano di sublimare la propria ineluttabile fatica di Sisifo), in Del Giudice vi è sicuramente un'innata maestria nello scrivere; tuttavia a leggerlo ho sempre avuto la sensazione di essere di fronte al lavoro di un intellettualoide, di uno abile a costruire eleganti roccaforti di parole al cui interno tuttavia c'è ben poco di utile. Le opere di Del Giudice possono di certo far presa su un determinato tipo di alta borghesia figlia del dopoguerra, e infatti hanno avuto e hanno il loro piccolo seguito presso quel pubblico lì; ma io sono troppo distante da quel mondo per poter evitare che il parto di quei salotti mi venga a noia.       

 

-  Confessioni di una maschera, di Mishima Yukio (4/5)

 


Mishima Yukio è ricordato principalmente come lo scrittore di estrema destra che, insofferente verso l'americanizzazione del Giappone nel dopoguerra, nel 1970, dopo aver occupato con alcuni suoi lacchè un ufficio dell'esercito di autodifesa e aver attirato su di sé l'attenzione mediatica, tentò di arringare i militari col suo patriottismo per poi commettere il seppoku, il suicidio rituale tipico dei samurai. La cosa, per quanto possa sembrare epica, in realtà si rivelò una simil-buffonata: i militari non furono veramente galvanizzati, ma la maggiorparte di loro vide Mishima come una sorta di pazzoide; il rituale del seppoku, poi, nel momento in cui Morita M., il più fedele amico e discepolo di Mishima, dovette tagliare la testa a quest'ultimo, fallì per ben tre volte (chissà che dolore) prima che la lama della katana riuscì effettivamente a portarsi via la capa dello scrittore. Insomma, Mishima tentò un – grossolano più che d'Annunziano – tentativo di ritorno a un passato guerriero e idealizzato, nel contesto di una società ormai postmodernizzata dal benessere e dal boom economico. A tal proposito, si potrebbero distinguere le società umane in due tipi: le società della guerra, in cui gli uomini,  essendo in perenne stato di difficoltà, sono costretti a dare il meglio di loro stessi per temprarsi/migliorarsi, e le società del benessere, in cui, non esistendo più una narrazione da perseguire, per dirla come Kojève, gli esseri umani si animalizzano. Mishima, spinto più che altro dalla propria nevrosi personale, non riesce ad accettare una società del benessere, pur essendo egli stesso un suo figlio (lo scrittore infatti è di origini borghesi, e durante la guerra aveva potuto iscriversi all'università senza che la sua vita incontrasse grandi sconvolgimenti esterni). Alberto Moravia, non per nulla, definì Mishima come un "conservatore decadente".  

Confessioni di una maschera, come accennavo, non è un romanzo politico, ma prettamente psicologico. In esso, seguendo l'esempio di Proust (che viene altresì citato insieme a Dostoevskij), Mishima si "confessa" parlando apertamente della propria omosessualità, della propria ossessione per la morte e dell'immaginifico sadismo che la sua libido mette in atto come mero meccanicismo di compensazione di una potentissima destrudo. Ciò premesso, si percepisce chiaramente che lo scrittore non abbia letto Freud e che abbia interpretato "alla giapponese" i classici che gli passarono tra le mani; Confessioni di una maschera infatti mette l'accento sulla durezza della società giapponese e sulla marmoreità dei suoi ruoli prefissati, da  qui appunto la "maschera" del titolo (che poco c'entra con quelle di Pirandello). Non per nulla l'omosessualità di Mishima viene da lui vissuta in modo nevrotico, nonché interpretata come una forma di attaccamento viscerale agli impulsi ciechi della vita in sé stessa, della giovinezza, dell'eros, del conforto nei simulacri e del desiderio antropofago (di nuovo, Mishima ammette di essersi masturbato su un quadro di San Sebastiano travolto dalle frecce, di fantasticare sul divorarsi i giovanotti che gli causano erezioni, ma di fatto, ad esempio, non sa niente sul "cannibalismo" intrinseco all'irrazionale e noumenica Wille Schopenaueriana). 

Ciò che ho più apprezzato di questo classico è l'onestà, la capacità dell'autore di mettersi a nudo per fare autoterapia, nonché lo stile di scrittura, che è in media più raffinato di quello di altri grandi scrittori giapponesi del passato. L'autoanalisi di Mishima si conclude poi nell'irrisoluzione, in un'ontologica mancanza, nella descrizione di una bevanda rovesciata dai riflessi terrificanti, un particolare che a suo modo racchiude in sé una sorta di metafora del vuoto interiore con cui l'autore dovrà fare i conti fino alla fine dei suoi giorni. 

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