sabato 23 agosto 2025

Letture: Mishima, Gadda e altri


In questo periodo della mia vita così privo di emozioni e particolari turbamenti, una sorta di eterno presente à la Beautiful Dreamer, leggo molto. Quest'anno in particolare ho iniziato la temeraria lettura della Recerche di Proust, un gravoso impegno che tuttavia intervallo con letture più "leggere". Qui "recensisco" alcune di esse, in particolare I racconti della maturità di Checov, Il Maestro di Vigevano di Mastronardi, La Cognizione del Dolore di Gadda,  Lo Stadio di Wimbledon di Roberto del Giudice e infine, gran finale, Confessioni di una Maschera di Mishima Yukio. Ovviamente le edizioni che ho letto sono quelle che ho caricato come immagini di corredo al testo (occhio quindi a non comprare la versione tradotta dall'americano del libro di Mishima). Cover Photo (titolo: un abitacolo vuoto) by me. 

 

- Checkov, I racconti della maturità (2/5)

 


Per quanto blasonato, Checkov proprio non mi va proprio giù: lo trovo abbastanza prolisso e fin troppo "scontato" per i tempi moderni. Volendo dire le cose fuori dai denti, la letteratura russa in generale, con tutta la sua ortodossia e senso di colpa, dopo un po' finisce inevitabilmente per farmi addomentare (l'unica eccezione credo sia Dostoevskij). Di questa raccolta di Checov ho molto apprezzato il Monaco Nero, un racconto di matrice autobiografica che narra di solitudine, solipsismo, burocrazia, inadeguatezza della figura dell'intellettuale nei tempi moderni. Insomma, il Monaco Nero mi ha preso perché un po' mi ci sono ritrovato: in fondo altro non sono che un individuo egoista e autoreferenziale, una modalità di esistenza forgiata per sopravvivere a un mondo (post)moderno (a breve post umano) in cui ho come la sensazione che sia per forza di cose necessario accettare, pena la sedazione chimica, le propria innaturale, solitaria frigidità. Gli altri racconti a parte Il Monaco Nero li ho mal sopportati: il ricco brutto che si mette con la tizia bella ma povera che se lo piglia soltanto per i soldi; la retorica a tratti stucchevole (tipo "chi vivrà vedrà", ma grazie al c****, direi) e così via, il tutto in uno scenario che ho percepito molto simile alle drammatiche telenovele della nonna. A mio parere i giappi, a causa della loro innata, masochistica follia coadiuvata da un disagio sociale che di questi tempi non è mai fuori contesto, restano degli interpreti della modernità di gran lunga superiori ai russi, quindi da est preferisco scendere verso il più congeniale paese del Sol Levante. Dopotutto un racconto di Akutagawa, prendiamo ad esempio Kappa, nel 2025 non risente minimamente dei suoi anni; un racconto di Checov, a mio modesto parere, invece sì. 

 

- Il Maestro di Vigevano, di  Lucio Mastronardi (4/5)

 


Come il Monaco Nero di Checov, Il Maestro di Vigevano è una parabola autobiografica sull'inadeguatezza dell'intellettuale nella modernità. Qui vi è però un'ironia molto pungente e una crudezza narrativa "da giapponese" (tra l'altro Mastronardi ha fatto la stessa fine di molti grandi scrittori giapponesi moderni). Per quanto riguarda l'ambientazione siamo negli anni sessanta, a Vigevano: quindi boom economico, nessuna globalizzazione a impoverire la gente e perciò anche degli analfabeti, a patto di saper fare bene le scarpe, possono aprirsi un'aziendina e diventare ricchi (cosa inimmaginabile nell'oggidì). Antonio Mombelli invece no, nonostante le vacche grasse tutt'intorno decide di fare soltanto il maestro, lo statale, e si fa venire due coglioni così a stare dietro a ragazzini stupidi e colleghi che, inetti quanto lui, non danno alcuna importanza all'istruzione, ma ai numeri (il figlio di industriale è meglio del figlio di disgraziato; non vedo l'ora che arrivi lo scatto di stipendio del coefficiente bla bla bla ecc.). L'avvocato del paesello, d'altro canto, è quello più avanti di tutti: prevede che in un futuro non troppo remoto dell'umanità ci si esprimerà soltanto per cifre, dato che il profitto è l'unica cosa degna di essere e tutto il resto non conta per davvero. Una volta tornato a casa dal lavoro Mombelli, come se non bastasse, ha pure la moglie a fargli da sfrangimaroni: lei, del tutto assuefatta dalle nevrosi della società, vorrebbe che lui si ritirasse dall'insegnamento, in modo tale da tirare su un'aziendina di scarpe con i soldi della sua liquidazione. I due tra l'altro hanno pure un figlio, sì, la famiglia nucleare del boom e quelle cose lì, ovvio: ma quel figlio, manco a dirlo, è il risutalto di un adulterio. Disperato, allora, il Maestro si rifugia nella visione catartica di Eva, una ragazza che intravede nuda tra le fronde degli alberi durante una passeggiata in mezzo ai boschi; peccato però che Eva, da lui idealizzata come una sorta di Venere di Botticelli, in realtà sia una mignotta. La narrazione prosegue poi con grande ironia, senza mai perdere un colpo, e si capisce perché la storia abbia fatto presa su un grande come Elio Petri: ne Il Maestro di Vigevano, infatti, quello con Alberto Sordi, c'è tutto il nocciolo della futura critica sociale del regista (il cui culmine molto probabilmente è il dissacrante, ma profetico, Buone Notizie, che di fatto è uno sguardo rivolto ai giorni nostri). 

 

- La Cognizione del Dolore, di Carlo Emilio Gadda (4/5)

 

 

In un'intervista Walter Siti ha affermato: "Ho provato a chiedere a chat GPT di farmi un'introduzione di un libro alla Fabio Volo: non ha avuto alcun problema. Ma quando gli ho chiesto di farne una alla Gadda, non ce l'ha neanche minimamente fatta. Questo perché la macchina non può trasporre la forza dell'inconscio". 

Gadda è infatti l'incoscio armato di macchina da scrivere, uno che nell'atto creativo perde completamente per strada il proprio ego. Lo stile di scrittura è frammentario; talvolta non si capisce neanche cosa si stia leggendo, ma se si è abbastanza sensibili, quelle parole vengono introiettate dai propri abissi interiori, e in essi risuonano come campane. La Cognizione del Dolore, in questo, è la sua opera più esasperata, siccome narra del tetro rapporto tra l'autore e sua madre, un rapporto incrinato dalla morte in guerra del fratello di lui e da un forte complesso di Edipo che rintocca nel sottofondo della narrazione. La cognizione del dolore è un libro per l'appunto dedicato alla fase antecedente alla piena consapevolezza del dolore, un dolore invisibile, primigenio, che scoppietta tra le pagine fino ad assumere caratteri universali nel momento grottesco della morte della madre, una sorta di "apocalisse normale" perché Gadda rifiuta ogni forma di titanismo e idealità e preferisce rappresentare le cose a pennellate rosse discontinue, come il Van Gogh della letteratura che egli incarna. Di seguito alcuni passaggi che parlano allo Spirito, sempre se ne esiste uno; nonché alla dolorosa sete di verità che si nasconde tra le viscere di ognuno. Ulteriori commenti o velleità recensorie, a mio parere, sono del tutto inutili.  

 

"Il figlio pareva aver dimenticato al di là d'ogni immagine lo strazio di quegli anni, la incenerita giovinezza. Il suo rancore veniva da una lontananza più tetra, come se fra lui e la mamma ci fosse qualcosa di irreparabile, di più atroce di ogni guerra: e d'ogni spanventosa morte". 

 

"Era  il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare lacausa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tuttl il fulgurato scoscendere d'una vita, più greve ogni giorno, immedicato". 

 

"L'avrebbe condotta dove si dimentica e si è dimenticati, altre le case ed i muri, lungo il sentiero aspettato dai cipressi". 

 

"Tardi rintocchi: e il lento lucignolo delle vigilie si era bevuto il silenzio". 

 

"L'intimo vigore della consapevolezza si smarriva: come di bimba urtata dalla folla, travolta". 

 

"Vagava nella casa, come cercando il sentiero misterioso che l'avrebbe condotta ad incontrare qualcuno: o forse una solitudine soltanto, priva d'ogni pietà e d'ogni imagine. Dalla cucina senza più fuoco alle stanze, senza più voci: occupate da poche mosche. E intorno alla casa vedeva ancora la campagna, il sole".  

 

- Lo Stadio di Wimbledon, di Roberto del Giudice (2/5)

 


 Daniele del Giudice fu uno scrittore scoperto da Italo Calvino e "riesumato" da Pierpaolo Vettori, che vinse il concorso Neri Pozza con un libro dedicato a lui. Dato che Vettori come scrittore non mi piace, anzi di leggere il suo libro sono andato a riscoprire direttamente Del Giudice, di cui ho letto il qui presente Lo Stadio di Wimbledon (in precedenza comunque avevo altresì letto l'altrettanto fumoso Atlante Occidentale). Lo Stadio di Wimbledon, da cui tra l'altro è stato tratto un omonimo film francese di inizio anni duemila, racconta la vicenda di un indefinito protagonista narrante che decide di andare a Trieste a cercare di capire perché un intellettuale da poco tempo deceduto (nella realtà si tratta di Robert Bazlen), nonostante il suo talento e la sua cultura,  non abbia mai scritto. Si aprono quindi riflessioni molto borghesi sulla vita, sulla funzione della scrittura, il significato di essere scrittori ecc., che stringendo stringendo si riducono all'ovvio "o vivi, o scrivi". Bazlen infatti preferiva vivere, influenzare la vita degli altri tramite l'azione, e quindi per lui scrivere è stato inutile. A corredo di questa cosa abbastanza banale (e neanche sotto certi aspetti vera, dato che la funzione principale dell'arte è il copium, il tentativo dell'essere umano di sublimare la propria ineluttabile fatica di Sisifo), in Del Giudice vi è sicuramente un'innata maestria nello scrivere; tuttavia a leggerlo ho sempre avuto la sensazione di essere di fronte al lavoro di un intellettualoide, di uno abile a costruire eleganti roccaforti di parole al cui interno tuttavia c'è ben poco di utile. Le opere di Del Giudice possono di certo far presa su un determinato tipo di alta borghesia figlia del dopoguerra, e infatti hanno avuto e hanno il loro piccolo seguito presso quel pubblico lì; ma io sono troppo distante da quel mondo per poter evitare che il parto di quei salotti mi venga immancabilmente a noia.       

 

-  Confessioni di una maschera, di Mishima Yukio (4/5)

 


Mishima Yukio è ricordato principalmente come lo scrittore di estrema destra che, insofferente verso l'americanizzazione del Giappone nel dopoguerra, nel 1970, dopo aver occupato con alcuni suoi lacchè un ufficio dell'esercito di autodifesa e aver attirato su di sé l'attenzione mediatica, tentò di arringare i militari col suo patriottismo per poi commettere il seppoku, il suicidio rituale tipico dei samurai. La cosa, per quanto possa sembrare epica, in realtà si rivelò una simil-buffonata: i militari non furono veramente galvanizzati, ma la maggiorparte di loro vide Mishima come una sorta di pazzoide; il rituale del seppoku, poi, nel momento in cui Morita M., il più fedele amico e discepolo di Mishima, dovette tagliare la testa a quest'ultimo, fallì per ben tre volte (chissà che dolore) prima che la lama della katana riuscì effettivamente a portarsi via la capa dello scrittore. Insomma, Mishima tentò un – grossolano più che d'Annunziano – tentativo di ritorno a un passato guerriero e idealizzato, nel contesto di una società ormai postmodernizzata dal benessere e dal boom economico. A tal proposito, si potrebbero distinguere le società umane in due tipi: le società della guerra, in cui gli uomini,  essendo in perenne stato di difficoltà, sono costretti a dare il meglio di loro stessi per temprarsi/migliorarsi, e le società del benessere, in cui, non esistendo più una narrazione da perseguire, per dirla come Kojève, gli esseri umani si animalizzano. Mishima, spinto più che altro dalla propria nevrosi personale, non riesce ad accettare una società del benessere, pur essendo egli stesso un suo figlio (lo scrittore infatti è di origini borghesi, e durante la guerra aveva potuto iscriversi all'università senza che la sua vita incontrasse grandi sconvolgimenti esterni). Alberto Moravia, non per nulla, definì Mishima come un "conservatore decadente".  

Confessioni di una maschera, come accennavo, non è un romanzo politico, ma prettamente psicologico. In esso, seguendo l'esempio di Proust (che viene altresì citato insieme a Dostoevskij), Mishima si "confessa" parlando apertamente della propria omosessualità, della propria ossessione per la morte e dell'immaginifico sadismo che la sua libido mette in atto come mero meccanicismo di compensazione di una potentissima destrudo. Ciò premesso, si percepisce chiaramente che lo scrittore non abbia letto Freud e che abbia interpretato "alla giapponese" i classici che gli passarono tra le mani; Confessioni di una maschera infatti mette l'accento sulla durezza della società giapponese e sulla marmoreità dei suoi ruoli prefissati, da  qui appunto la "maschera" del titolo (che poco c'entra con quelle di Pirandello). Non per nulla l'omosessualità di Mishima viene da lui vissuta in modo nevrotico, nonché interpretata come una forma di attaccamento viscerale agli impulsi ciechi della vita in sé stessa, della giovinezza, dell'eros, del conforto nei simulacri e del desiderio antropofago (di nuovo, Mishima ammette di essersi masturbato su un quadro di San Sebastiano travolto dalle frecce, di fantasticare sul divorarsi i giovanotti che gli causano erezioni, ma di fatto, ad esempio, non sa niente sul "cannibalismo" intrinseco all'irrazionale e noumenica Wille Schopenaueriana). 

Ciò che ho più apprezzato di questo classico è l'onestà, la capacità dell'autore di mettersi a nudo per fare autoterapia, nonché lo stile di scrittura, che è in media più raffinato di quello di altri grandi scrittori giapponesi del passato. L'autoanalisi di Mishima si conclude poi nell'irrisoluzione, in un'ontologica mancanza, nella descrizione di una bevanda rovesciata dai riflessi terrificanti, un particolare che a suo modo racchiude in sé una sorta di metafora del vuoto interiore con cui l'autore dovrà fare i conti fino alla fine dei suoi giorni. 

13 commenti:

  1. De il maestro di Vigevano ricordo quando lui per il desiderio di dire la sua buona riuscita di autorovina. È un film che vidi prima di entrare davvero nel mondo del lavoro e ne feci tesoro!

    È molto Elio Petri, come i poster nella stanza del volonte di a ciascuno il suo. Mi pare uno di proust, cmq bella lettura per me una delle migliori in assoluto, concorderemo con ogni singola pagina. Per l esegesi ti consiglio un libro del suo traduttore mondadori Giovanni Raboni, è pieno di spunti interessanti. A partire dal titolo, che pare dovesse essere La ricerca della verità.

    Quanto alla noia, sei a Milano, è pieno di figa, fai un po di grano e vai a figa. L ultima.volta che ci sono stato ho incontrato camminadno una prostitute prima e dopo la prestazione (trucco sfatto ed era notevole) e sino stato in un rooftop pieno pure di mignotte, di cui ok 1 su 30 era notevole. Ma tanto mica devi scoparle tutte. Insomma sei in zona di caccia. Divertiti

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    1. Il libro di Raboni su Proust è una raccolta degli appendici da lui scritti nell'edizione meridiani Mondadori, che è quella che sto leggendo.

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    2. Mmmm, io ho letto "la conversione perpetua e altri scritti su marcel proust".

      Mentre della Recherche ho un edizione in 7 volumi in cofanetto color verde acqua (i meridiani non mi sono mai piaciuti, troppo tomoni da tenere in mano e scritti piccoli per una lettura rilassante), con un po di introduzioni per lo più di Luciano De Maria, ma forse anche di altri.

      Se il libro cui ti riferisci tu è questo

      La «Recherche» di Proust. Episodi e argomenti del romanzo

      E dunque ti riferisci agli argomenti che fa lui a fine romanzo. Beh no, quello è un riassuntino indecoroso... tipo per ritardati. Finanche fastidioso, davvero non ne vedo l'utilità. E anche io ho letto la Recherche molto lentamente, in più anni, intervallandola con altre letture).

      In quello che dico io ci sono considerazioni di tutt altro tenore. Il paragone poi impietoso è col libretto di Alessandro Piperno su Proust, che pure tiene conferenza. Un libro degno del 2025.

      Proust cmq non so se ti piacerà. Io lo sento a me estremamente vicino(sopra volevo scrivere concorderei, non concorderemo) con il vizio che probabilmente non provo mai una convivenza lunga con una donna e quindi gli manca tutto un lato esperienziale dell esistenza. Però per dire, era amato da Henry Miller e sappiamo cosa scriveva Henry Miller.

      Credo che Raboni ne sia stato profondamente segnato

      La conversione del titolo si riferisce al passaggio da una vita mondana e snobistica ad una di isllatria e produzione letteraria. Luciano De Maria d altronde si dice convinto che Proust non fosse omosessuale ma quando meno, cito, "bimetallista". E volendo citare un altro celeberrimo "operaio della figa", cioè Howard Hughes, non si può non notare anche nella sua vita la medesima "conversione".

      Le pagine eminenti di Raboni sono comunque quando definisce il libro non opera letteraria, ma uno dei momenti più eminenti dello spirito umano,e richiama al potenziale altro titolo, la ricerca della verità per dare quella che è a suo avviso la giusta prospettiva di lettura.

      Se i suoi scritti non sono inclusi nei meridiani, vale la pena prendere la raccolta che dicevo insomma.

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    3. Proust, a parte le noiosissime sessioni in cui descrive la nobiltà dell'epoca, mi sta piacendo abbastanza, ma non ci sto trovando niente di nuovo sotto il sole, dico dal punto di vista filosofico.

      'Sto "La ricerca della verità" di Raboni che dici cmq non lo trovo su internet, né figura tra le sue opere.

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    4. Aspetta... forse hai frainteso.

      Il titolo del libro di Raboni è "La conversione perpetua e altri scritti" o qualcosa di simile.

      All interno parla anche di quello che a lungo Proust valutò come titolo alternativo per la Recherche, ed è appunto La Ricerca della Verità, il che ti dà l'idea di come valutare il tempo, una quarta dimensione gnostici attraverso la quale si realizza la conoscenza.

      Per il resto a 35anni si, presumo nulla di nuovo. Per me non lo è ststo, ma forse nessun libro può essere mai del tutto rivelatore/Epifanio. Il massimo che si può pretendere è aggiungere qualche leggera sfumatura alla propria visione dell esistenza. Le Epifanie probabilmente vengono realmente solo dalla vita vera.

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    5. Sulla nobiltà credo che hai un pregiudizio da poveraccio risentito. L ho letto spesso leggendo recensioni di Proust... "le noiosissime descrizioni della nobiltà"

      Ma in realtà proust descrive un pò tutto, e quello era il suo mondo. Il romanzo è come una grande ricerca esperienziale, è un libro di gnosologia ma per cosi dire a posteriori, dall'esperienza. E le sue esperienze quelle erano


      Una delle frasi più carine della Recherche:

      " il rispetto delle persone intelligenti di nascita oscura, che attecchire solo nella nobiltà e che rende le rivoluzioni così ingiuste"(Dal tempo ritrovato, p 87 nella mia edizione)

      Ma ancor prima di un giudizio di merito, ed io sono sempre bunueliano a riguardo (cfr. Viridiana), credo che fosse banalmente il suo mondo e non poteva che parlare di quello :/

      Pensaci, è un libro in cui si prova stilisticamente a trasporre in pagina le sensazioni della vita.

      Dovrei parlare di me, avrei scritto dei pomeriggio in cameretta a giocare alla playstation con i miei coetanei a 14anni, in cui mai ero a mio agio... poi le seghe davanti al computer, il fatto di essere sempre stato o nel circolo degli sfigati o proprio un asociale senza un suo circolo sociale. Delle sortite e rare uscite in circoli sociali giusti....

      Giusti cosa significa che le ragazze sono quanti i ragazzi se non di più, che sono tutte fighe e che giocoforza la compagna la trovi continuando...

      Cose così, e altre più private. Ci sono frasi terribilmente anti snobistiche alla fine dei Guermantes, di forte disprezzo e sdegno, tipo fine delle illusioni.

      Ma va riconosciuto il valore di frequentare un buon circolo sociale per dire. Ancor di più poi il valore della cultura reale, i quarti di nobiltà per me sono proprio quarti ma da bambino un po ne ho presa l influenza, e ancora si vede un minimo.

      Come dire se le reputi noiose non hai colto che sono il distillato della vita vissuta, e tutto tornerà alla fine. Se sei avverso alla nobiltà c'è anche una sorta di risentimento da poveraccio che ritroverai nelle descrizioni della domestica

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    6. Poi, ancora e scuso se mi dilungo, credo che il senso profondo sia come umanamente venivano vissute certe cose.

      Tipo la fascinazione per la Berma, o per lo stesso nome Guermantes.

      Sono le fascinazione di un giovane per un mondo del quale è curioso ma di cui ha solo sentito parlare. Ora io in questo non ho molti esempi di vita vissuta perché sono sempre stato profondamente asociale, almeno a partire dalla mia adolescenza, che è quando ho cominciato a leggere tanto alla fine.

      Però ad esempio alle medie e alle elementari c'erano i circoli dei ragazzi più grandi che esercitavano una notevole fascinazione verso di me. Di alcuni dei più "fighi" o particolari ricordo ancora i cognomi o i soprannomi


      Fascinazione del tutto o quasi ingiustificata a posteriori, e che però esisteva molto e che ricordo benissimo.

      Cioè i miei "miti" di ragazzino, ti parlo di 10-13anni, erano 16enni che casomai scopavano e avevano la figurata nulla di che che gli faceva il filo.

      Cioè insieme alle mie cose lavorative, alla mia cultura che ok modestia a parte ti renderai conto che è semplicemente da persona superdotata e di tanto (ben oltre l media di prof ordinari). Dico accanto a questo, nella mia mente, hanno un ruolo importante tutte le piccolezze che ho vissuto da ragazzo.

      Ma piccolezze non perché fossero di classe socisle bassa o alta. Tipo ricordo alcuni soprannomi di alcuni ragazzi piu grandi "birrozza", "cicciotossico", dinquelli piu fighi invece ricordo il cognome che veniva pronunciato con una sorta di rispetto da noi ragazzini.

      Tipon(ora invento come fossi uno scrittore, non usando cognomi reali): Valledoria, Divella, Cianga, Verde. e quei cognomi, di ragazzi ripeto frequentati poco perche erano quelli piu grandi, li ricordo ancora benissimo come e meglio delle leggi fisiche e chimiche che mi fanno guadagnare agevolmente i miei 10k netti al mese, una miseria in assoluto ma notevoli come reddito da lavoro di un professionista in Italia, o li ricordo meglio di tutta la letteratura. erano i miei miti.
      Ragazzini che casomai sapevano giocare un pizzico bene a palloje, erano smilzi e avevano la ragazzetra carina di 1,65m ma casomai un minimo sexy che a 10-12-13anni me li faceva vedere come wow hanno tutto


      (non so se la cesura derivi dal semplice essere diventato adolescenti o dal fatto che con la morte di mio nonno, liti per l eredità che la lasciarono bloccata per anni, terreni che persero l edificabilità etc, i miei che non avevano mai lavorato diventarono una famiglia chiaramente povera. Si chiusero per imbarazzo molti circoli sociali etc. Cioè passai dalle uscite sullo yacht, amici dei miei genitori che giravano in porsche ed in ferrari,a frequentare ragazzini che non avevano manco casa al mare e vivevano in catapecchie.) Però ecco come dire raccontassi la mia vita dovrei dire questo e tante altre cose più private, più o meno dolorose, più o meno felici.

      Dovrei scrivere per ore di ogni singola sfumatura di vissuto che mi ha portato ad essere quello che sono.

      Sfumature assolutamente insignificanti in assoluto - noiosissime! - ma che sono il distillato della mia vita. Ciò che forma la mia mente.

      Ecco credo che la lezione di Proust sia questa, e credo che essendo un nobile, un ricco, e non un pezzente poveraccio come James Joyce che doveva darsi un tono con la letteratura credo sia riuscito a fare un capolavoro. Ad avere la giusta misura.

      Perché potresti dire l'ulisse e finnegans wake siano la stessa cosa. Lo sono, ma calcano troppo la mano. C e quella volontà di creare quasi una nuova forma letteraria.

      la Recherche invece è sostanzialmente un romanzo ottocentesco, ma monumentale e che senza compiacimento, per primo forse, è riuscito a dare un resoconto di ciò che sia l'esperienza di una vita. Il tempo ritrovato d altronde è ritrovato perché è appunto compreso. Le esperienze comprese nel loro significato, profondo per chi le ha vissute dato che per lui sono tutto, ma per il resto insignificanti e noiosssime.

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    7. Per "noiosissime sessioni" intendo soprattutto buona parte dei Gurmantes: a me pur essendo figlio della merda non rode il c**** per la nobiltà in generale, anzi, la reputo sicuramente meglio dell'ipocrita e frustrata piccola borghesia con la sua etica pezzente dell'accumulare e accumulare e mai vivere, come se l'avere due lire nel conto in banca garantisse l'immortalità. Per il resto sì, sicuramente La Recerche, almeno fino a dove sono arrivato (verso la fine di Sodoma e Gomorra) è il libro sulla vita in sé stessa più completo che abbia mai letto, anche se a 35 anni, dopo aver letto Schopenauer e altre robe, come dicevo non vi scorgo niente di nuovo dal punto di vista sostanziale.

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    8. Su questo sono d'accordo con te. Nulla di davvero epico, che non si trovi da nessun altra parte.

      :)

      Forse l'unico libro epico che ho letto sono i ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane F, l unico libro che è stato Epifanico.
      Ma poi lei stessa si penti della pubblicazione.

      Verosimilmente perché un racconto, troppo a caldo e quindi davvero senza filtri, prima che della vita di una tossica di una storia di amore disgraziata, quella con Detlef, e di esperienze sessualità disgraziato.

      Credo chi lo abbia apprezzato davvero infatti lo apprezzò per la storia d amore, non per il suo lato sociale.

      Nel secondo libro, una sorta di storia di Christiane f 30anmi dopo, scrisse infatti che chi la riconosceva al supermercato o al mcdonald le chiedeva anche 30anni dopo se stesse con detlet, che fine aveva fatto etc. La vita ovviamente l aveva portata in altre direzioni.

      Ecco quel libro forse fu epifanico. Non che mi insegno qualcosa di particolare ma fu epifanico.

      ( poi calcola che un crash con una prostitute di alto bordo 18enne lo ebbi vedendo il suo viso irritato dalle lacrime in un superattico di lusso messole a disposizione da qualcuno. Anni dopo, senza saperne il nome e averne foto di viso, la ritrovai in un agenzia di escort internazionali, riconoscendone solo per il modo in cui posava nelle foto... ci vedemmo, la invita a casa... aveva tipo ormai 25-26annj la invita a casa concludendo quello che si doveva fare anni prima. Anche se jna volta sola si ricordo, era ancora bellissima ma la pelle del volto rovinata, le caddero gli psicofarmaci dalla borsa e mi disse... beh con questo mestiere cosa ti aspetti. Cmq con una notge le carpini nome, cognome e alcuni incontri informali).

      La.pelle rovinata dalla prostituzione pare invece una cosa nota. Ricordo una modella che frequentai, ridotta a fsre la segretaria e alla canna del gas dopo essersi lasciata a 33anni dal suo tipo riccastro, mi disse che cmq non la dava mai per soldi.

      Io le proposi tipo ti do quello che vuoi (4-5k, dammi tempo che li vado a prendere al bancomat, se vedo che non sono interessate al denaro infatti divento di manica larga)..
      Poi si fece scopare gratis e un paio di volte mi chiese se le prestavo i 700 per l affitto.

      Beh mi disse che sua madre, che anni dopo vidi su facebook in una foto insieme e che anche a 70anni era una splendida donna, ovvero con due occhi splendidi davvero, da ragazzina notando che era.molto bella per spaventarla le diceva, additandole una delle troie del paese, non fare la mignotta che poi ti viene la pella brutta come lei. Ha sfilato per i principali brand di moda ma non fece la mignotta.

      Ora ecco Christiane F forse l ho sentito vicino perché qualche esperienze, anche se dal lato cliente, l avevo avuta con storie simili


      Ps

      Ricordo un professore di dermatologia, famoso oltre che ordinario, che diceva che la pelle è lo specchio della anima. Leggilo Christiane f se non lo hai fatto

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  2. Ho letto solo "Confessioni di una maschera" e i racconti di Cechov.
    I racconti a me non sono dispiaciuti, non sono dei capolavori ma li ho trovati molto ben narrati.
    Il romanzo di Mishima è invece un vero capolavoro letterario e la lettura fu devastante per me sul piano psicologico poiché lo lessi troppo presto (avevo appena vent'anni) e mi costrinse a vedere il mondo e la mia vita più in profondità di quanto avessi mai fatto. Comunque mi intrigó a tal punto che lessi altri libri di Mishima.

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    1. Eh, io Mishima l'ho letto abbastanza tardi, quindi CduM l'ho percepito come un ottimo libro e basta. Ciò che mi sconvolse è stato I Frammenti di Ouspenski, che lessi a 14 anni, un libro senza il quale molto probabilmente ora non sarei neanche vivo.

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    2. Non ho la forza necessaria per far fronte alla felicità” (Marcel Proust)
      La colomba pugnalata di Pietro Citati è la migliore monografia su Proust ed era il titolo che in origine voleva dare a il libro che sarebbe diventato " Le giovani fanciulle in fiore".
      Non sono affatto d'accordo che non ci sia nulla di nuovo sotto il sole ...anche perché per sua ammissione non ha terminato la lettura e quindi l ultimo libro " Il tempo ritrovato " non l ha ancora letto. Il suo giudizio è cmq parziale.

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    3. Mah, il punto è qualcosa di nuovo rispetto a cosa. A quanto già espresso in letteratura, esplicitato, anche in relazione alla forma.

      Sicuramente c'è molto di nuovo. Volendo è una pietra miliare, anche motlo di più, e miliare nel significato letterale.
      Ma qualcosa di nuovo dal punto di vista umano? No, e come potrebbe.

      Gli stessi accadimenti e rivolgimenti sono tanto banali e umani che, almeno in me, hanno risuonato con forza a oltre 100anni, varie classi sociali e qualche migliaio di kilometri di distanza.


      Non l'ho letto pugnalata pugnalata, non so se è la migliore ma è certamente la più famosa. Chissà 😂😜

      Ricordo ancora, credo in Soffio al cuore di Louis Malle, quando i ragazzini parlano del lesbismo come cosa nuova...il protagonista un filo più intellettuale fa...é dai tempi di Proust😂

      Il valore, il valore vero dell'opera a mio avviso si dispiega proprio nel narrare la banalità umana. Se leggendolo ci si rende conto che è proprio davvero sempre lo stesso brodo, ecco quello è un valore.

      E che le cose si sono proprio così, ora come allora, qui come li.

      Poi, per inciso, e un libro in cui le esperienze umane sono narrate per lo più in base alle esperienze erotico sessuali emotive.

      È un libro, in realtà, molto più da operaio della figa stile Henry Miller che da letterato affettato. Chi lo ha letto davvero lo sa, è innegabile.

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