Titolo originale: Kidō Butōden G Gundam
Regia: Yasuhiro Imagawa
Soggetto: Hajime Yatate, Yasuhiro Imagawa
Sceneggiatura: Yoshitake Suzuki
Character Design: Hiroshi Osaka, Kazuhiko Shimamoto
Mechanical Design: Hajime Katoki, Kimitoshi Yamane, Kunio Okawara
Musiche: Kouhei Tanaka
Studio: Sunrise
Formato: serie televisiva di 49 episodi
Yasuhiro Imagawa è
indubbiamente uno dei registi più rappresentativi degli anni
novanta. Autore dello storico OAV “Giant Robo: The Day the Earth Stood Still”, che seppe
infondere nuova linfa vitale in un genere che all'epoca sembrava
ormai aver giocato tutte le sue carte, con “G Gundam” il regista
tornò nuovamente a rompere i classici topoi di una corrente
stilistica ormai avariata - in questo caso il brand gundamico -
attraverso il suo stile registico geniale e privo di compromessi.
Non stupisce pertanto che il qui presente lavoro sia stato odiato per
lungo tempo dai gunota e dai puristi del mobile suit bianco: stiamo
infatti parlando di un'opera dissacrante, un vero e proprio
picchiaduro lacrime e sangue nato sulla scia di “Street
Fighter II”, un videogioco che andava molto di moda all'epoca; uno
shounen sconvolgente in cui
il bizzarro sense of humor di Imagawa si fonde alla perfezione
con momenti seriosi, epici e catartici, sfociando in una storia
d'amore con la A maiuscola che nei battenti finali della serie si
eleva sempre più facendosi beffe di tutto, sia dei noiosissimi
intrighi fantapolitici dei Gundam precedenti, sia della virilità
tanto declamata in precedenza dallo stesso “G Gundam”.
Dal punto di vista della narrazione, esistono due trame in “G Gundam”: una molto semplice e banale voluta dalla produzione – quella Bandai tanto odiata da Tomino, che si era fermamente opposto al suo ingresso nella Sunrise -, in cui i Gundam provenienti da vari stati – Neo China, Neo Italy, Neo France e così via - si devono affrontare tra di loro in un torneo, al fine di decidere chi dominerà l'universo per i quattro anni successivi alla suddetta Gundam Fight; questo plot assai basico viene tuttavia reso più variegato dalla penna di Imagawa, costruttore di trame complesse in cui i colpi di scena inaspettati si sprecano. Ed ecco che prende forma il rapporto travagliatissimo tra il protagonista Domon – il pilota di Gundam più figo di sempre – e i suoi cari: complotti, tradimenti, difetti di comunicazione, divario generazionale ed errori dei genitori che ricadono sui figli. Il piacchiaduro ignorante che tanto scandalizzò i gunota, dopo essere passato attraverso la parodia, l'autoparodia e la pura spettacolarità tecnica e coleografica, si spinge ben oltre nel momento in cui Imagawa riprende alcune tematiche del precedente “Giant Robo: The Day the Earth Stood Still” e le aggiorna con grande pathos, creando nell'ultima parte della serie un vertiginoso crescendo apocalittico in cui ogni personaggio, per quanto caricaturale e cliché, guadagnerà la dignità di un tragico greco.
“G Gundam” è
esagerazione, esagerazione ed esagerazione, in tutti i sensi: il
coolness factor tipico del super robotico anni settanta con
questo titolo viene riesumato ed aggiornato, e tornerà a dominare
incontrastato nel corso della seconda parte degli anni novanta e la
prima parte degli anni duemila. Dal protagonista che combatte a colpi
di karate a bordo del suo Gundam, con il quale è connesso mediante
un'interfaccia che ricorda molto quella del seminale “General Daimos” di Nagahama Tadao, si passa con disinvoltura a delle
spacconate dragonballesche in cui dei lottatori gridano
esaltati sparando assurde bolle di energia accompagnate da mantra
buddhisti; ma questo è niente, il bello deve ancora venire: Yin e Yang
roteanti, micidiali trivelle create con pezzi di stoffa lanciati per
aria, pugni incrociati alla Ashita no Joe e calci volanti alla Bruce
Lee, attacchi combinati lanciati in nome dell'amore consistenti in
cuoricini giganti di energia che si trasformano in un Re incazzoso
che distrugge il nemico (!) - e altro ancora. Insomma, in "G Gundam" il concetto di presa in giro viene indubbiamente elevato a pura arte.
Rimanendo in tema di
prese in giro, come non citare lo spietato dileggio
che colpisce i gunota e le loro manie collezionistiche:
quattro anni prima del tominiano “Turn A Gundam” avremo modo di
ammirare un Gundam baffuto comandato da un maggiordomo, nonché un
Gundam mulino a vento, un Gundam con il cappello napoleonico, un
Gundam Sailor Moon e un Gundam con l'armatura da Saint, un Gundam a
forma di toro (che ovviamente rappresenta la Spagna), un Gundam
vichingo, un Gundam pagliaccio e così via. E' divertentissimo
osservare il modo con cui Imagawa si diletta a giocare con i luoghi
comuni dei vari stati: l'italiano mafioso, il francese elegante,
raffinato ed oltremodo nazionalista, l'americano tamarro, l'irlandese
boscaiolo e così via. E' altresì esilarante il galeotto russo che
intraprende una relazione sentimentale con la sua sadica carceriera,
un vero tocco di classe!
La sceneggiatura
dell'opera alterna parti molto ripetitive, caratterizzate dai vari
cliché del tokusatsu settantino – mostro/Gundam della settimana,
vicende autoconclusive strappalacrime, colpo finale del robot che
distrugge ritualmente il nemico a fine episodio ecc. -, a dei veri e
propri rush catastrofici legati da una forte continuity
– le vicende orbitanti attorno al temibile Devil Gundam, una sorta
di mostro lovercraftiano in grado di rigenerarsi e di assorbire la
Terra con i suoi tentacoli (!). Particolarmente infelice la scelta di
far affrontare molte volte tra loro i membri della cosiddetta Shuffle
Alliance - la quale rappresenterebbe l'insieme di guerrieri che
devono vegliare sulla Gundam Fight mantenendo l'ordine -,
sebbene gli scontri si rivelino via via sempre più epici e
spettacolari, nonostante la loro disarmante prevedibilità.
Come ci si aspetterebbe da un opera del genere, i personaggi sono abbastanza monodimensionali ma comunque efficaci, a parte il protagonista Domon, che dovrà mettere a freno il suo testosterone per comprendere meglio le persone che gli gravitano attorno, in primis la sua amica d'infanzia Rain, che lo ama ma che non riesce a comunicare con lui data la grande attenzione ch'egli riserva alle sue arti marziali; l'ambiguo, potentissimo e travagliato Master Asia, il quale incarna quella fredda tradizione giapponese noncurante delle ambizioni e delle aspirazioni della gioventù; e poi ci sono gli scienziati, con le loro spropositate ambizioni represse e l'invidia nei confronti dei loro colleghi più brillanti, i politici accecati dal potere che hanno perso la loro umanità e con essa il candore degli affetti; quei pochi amici veri sempre pronti ad aiutarti, i fratelli maggiori che ti guidano verso la maturazione rimanendo avvolti nell'ombra. Le scoppiettanti amiche/rivali come Allenby; i cattivi che mai ti aspettavi, animati da un complesso di inferiorità ancora più grande della loro sete di potere, che tramano da dietro le quinte per poi rivelarsi al calar del sipario, quando ogni cosa sembrava risolta per il meglio.
Tecnicamente le animazioni rispecchiano perfettamente gli standard della loro epoca; ciononostante, là dove i frames si rivelano inadeguati a descrivere una determinata scena d'azione, l'inventiva registica di Imagawa sopperisce al difetto: innumerevoli saranno gli effetti cartolina alla Dezaki, gli split screen e i primi piani intensi dei personaggi, tutte tecniche a basso costo dotate tuttavia di un indubbio carisma. Detto ciò, le invenzioni registiche di Imagawa non si limitano soltanto a quelle già sperimentate abbondantemente fin dagli anni settanta: giusto per fare un esempio, nei combattimenti si osservano determinati frames ripetuti ad alta velocità in modo da creare una sensazione di rapidità e pirotecnia indispensabile per ravvivare dei passaggi che altrimenti si rivelerebbero fiacchi e privi di pathos.
Indimenticabili
determinati momenti di forte impatto emotivo coadiuvati da
sperimentalismi che non hanno nulla da invidiare a quelli di Anno e
soci: le emozioni dei personaggi vengono amplificate al massimo dalla
regia, che si immedesima nella loro sofferenza tingendo tutto quello
che sta intorno con potenti poesie d'immagini. Personalmente,
l'espressionismo di alcune scene ha fatto sì ch'esse mi siano
rimaste particolarmente impresse nella memoria – una su tutte:
Allenby che si trasforma in una fatina, penetra nei pensieri di Domon
e gli fa capire che deve dire a Rain che l'ama: la scena avviene in
una specie di spazio siderale prevalentemente azzurro, che ben si
adatta all'introversa e quanto mai emozionale liricità del momento.
L'estrema inventiva registica di Imagawa si nota altresì nelle brillanti sigle di apertura e di chiusura della serie; in particolare è da notare l'effetto visivo straniante della prima ED: il riflesso presente sull'orecchino di Rain riflette il viso della stessa Rain, e questo paradossale gioco di prospettive impossibili viene ripetuto in loop durante tutta la sigla, accompagnato da un brano J-POP squisitamente novantino che sottolinea la femminilità del volto acqua e sapone della protagonista.
In conclusione, devo ammettere che provo una certa nostalgia nell'ammirare i fondali interamente disegnati a mano dell'epoca, assolutamente privi degli stridenti abusi di computer grafica che vanno tanto di moda oggigiorno. Nel caso di “G Gundam”, parliamo di innumerevoli ambientazioni dal fascino innato, che vanno da desolati paesaggi post apocalittici a galassie, deserti, città dalle mille luci (Neo Hong Kong), boschi, colonie orbitanti et similia, delle località disegnate e colorate al prezzo di un'estenuante lavoro manuale da parte degli animatori.
Da notare come il celebre
capolavoro videulico “Xenogears” omaggi in modo molto evidente “G
Gundam”: si pensi ai robot distrutti a mani nude da misteriosi
individui che padroneggiano le arti marziali, ai punti in comune per
quanto concerne la caratterizzazione di alcuni personaggi, ai palesi
dettagli stilistici che accomunano il robot divino che dà il nome al
gioco con il formidabile Dio Gundam, il mecha più potente del
protagonista Domon.
Le musiche dell'opera
costituiscono - assieme alla regia - il suo più grande pregio: si
tratta di una colonna sonora lirica e maestosa la quale, una volta
trovata la giusta alchimia tra scenografia e BGM, è in grado di
accentuare l'epicità di quanto narrato, un'insieme di suoni e
immagini dotato in ogni suo singolo frammento di quell'inarrivabile
mood anni novanta che al giorno d'oggi affascina più che mai
con la sua innata carica di carisma e mistero all'infuori del tempo.
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