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venerdì 20 settembre 2024

Le fiere del fumetto nel 2024: Riflessioni e divagazioni personali


Un lettore,  che in questo articolo chiamerò ***, mi ha scritto in un gruppo Telegram di aver partecipato a una fiera del fumetto nel sud Italia. È un ragazzo che non ho mai conosciuto di persona, ma con interessi musicali,  culturali e cinematografici abbastanza ricercati (se non fosse così non mi leggerebbe, d'altronde). "Sono andato per tentare di rimorchiare qualche egirl" ha scritto. "Ma lo spettacolo in fiera è stato desolante: le egirl stanno tutte con megrechad e corechad, e io sono come invisibile per loro. Ho vagato un po' per la fiera ma mi sentivo come un alieno:  eppure una volta quello era il mio mondo". Megrechad e corechad a parte, che sarebbero derivazioni più o meno nerd del fantomatico chad di cui la redpill, ossia il bel ragazzo di status e bellezza elevata che ha facilmente accesso alla vagina (o al culo, dipende dai gusti), la sensazione di "estraneità" di cui mi ha parlato *** devo dire che l'ho provata anche io alle ultime fiere a cui sono stato. Ero lì per Shito ovviamente, un amico di lunga data, e non di certo per rimorchiare qualche egirl; eppure il sentore di "essere fuori posto" non mi ha mai abbandonato un secondo. Se provo a scavare nella memoria, mi vengono in mente i vecchi Lucca Comics ai quali mi portava mia madre da ragazzino: qualche tensostruttura fuori dalle mura, presenza di cosplayer quasi nulla (una maglietta degli Slayer era già tanto) e si andava lì per la limited di Wolf's Rain (devo ancora averla da qualche parte, quella col librone della Luna), per cercare qualche carta  di Magic a buon prezzo o per girare le bancarelle e ravanare nei cassettoni con le OST di anime e visual novel (fu così che conobbi Tsukihime, tra l'altro, per via della  suggestiva copertina del CD: mi sentivo dark e mi ero trovato una cosa dark, fine). Non esistevano i social media, non esistevano le egirl e nemmeno  i Moccia o i Cicciogamer della situazione. La passione per una cosa, dico una passione a livello individuale, la si sentiva propria e basta, senza alcuna necessità di emulazione o di affidarsi a un guru. Era impossibile pertanto sentirsi "fuori posto", perché la pressione sociale era pressoché nulla. Si accettava di essere diversi, di essere soli, e andare a Lucca a comprarsi la Cardass Masters della waifu Mana Kirishima era il proprio rifugio, perché nella realtà, a scuola, le ragazze non si mettevano con quelli problematici o diversi dalla massa. 

lunedì 1 novembre 2021

La parabola dell'animefan italiano

 

Grazie a Shito, che ormai è coautore di questo blog da un po' di tempo, ho avuto modo di conoscere i video di Dario Moccia, dato che quest'ultimo e il mio "collaboratore" avevano fatto una live insieme. Per Moccia, parlare di anime è una cosa da fighi, così come per altri influencer molto mainstream: me ne viene in mente in particolare uno della Milano pacchiana (non faccio il nome perché non voglio fargli pubblicità), che ho avuto modo di incrociare in un locale a mio parere da "poser/fake dell'arte" et similia. In un suo video, addirittura, una specie di modella che ai tempi del liceo mi avrebbe deriso per il mio essere ancora lì a giocare con jrpg e affini, tutto rintanato con la mia cerchia di amici "sociopatici e nerd", parlava degli anime come se fossero roba "socialmente seria", tipo una borsa di Gucci, un viaggio nonsodove sul barcone o un chewing-gum masticato dalla Ferragni. Il discorso sul fatto che, come cantava Piero Pelù, grazie ai social siano ormai "tutti fenomeni", ossia tutti cantanti, poeti e pittori e opinionisti non è un argomento che intendo al momento affrontare (posso soltanto ricordare ciò che diceva Pasolini sulla televisione, ossia che forniva autorevolezza a chiunque vi appariva: lo stesso discorso vale per i social, Youtube et similia). La cosa che invece mi ha veramente colpito è il mio senso di estraneazione rispetto ad una cultura "otaku" ormai diventata mainstream. Mi è capitato anche di scambiare quattro chiacchiere con due ragazze vestite praticamente come scolarette di anime giapponesi, con tanto di capelli tinti; ma non ad una fiera: in Farmacia, ossia un luogo come tanti altri. Al supermercato una volta ho visto una con i capelli alla Sailor Moon e la maglietta rosa; vedere ragazze in minigonna, calze e capelli verdi o blu non è più tanto raro. Sempre ai famosi tempi del mio essere "otaku" (in declinazione piemontese/italiana si intende), le ragazze "normali" avrebbero senz'altro bullizzato eventuali cosplayer o fujoshi (è una mia idea che il bullismo di oggi colpisca tutti indistintamente, e non più soltanto particolari nicchie di disagiati).