domenica 22 gennaio 2023

La morte e la finzione: Riflessioni randomiche



L'altro giorno, parlando al telefono con una persona, questa persona mi ha detto qualcosa del tipo "eh, il mio ex suocero con la sua avarizia ha imprintato bene il mio ex fidanzato: quando ci vivevo insieme, con duemilaquattrocento euro di stipendio al mese lato suo, più i miei soldi e casa di proprietà, dovevamo addirittura razionare l'acqua per risparmiare". Le avevo risposto "forse questa gente non ha mai avuto l'esperienza della morte: sai, quando sei cosciente del fatto che prima o poi devi crepare non pensi tanto ad accumulare cose terrene".  Ed ecco il punto critico: "no Fra, al mio ex suocero era morta la madre, ma in quel momento comunque pensava solo all'eredità". Mi sono quindi chiesto come mai l'esperienza della morte non avesse funzionato, come mai alcune persone non si fossero "svegliate" dopo averne avuto la dimostrazione (perché il saper di dover morire è cosa diversa dal veder morire e di seguito maturare una certa consapevolezza della propria condizione precaria nel mondo). Pensiamoci un attimo. 


Forse la realtà della morte è cosa scomoda per il capitalismo contemporaneo. Se tutti avessero la lucida, reale e sentita consapevolezza di dover morire, molto probabilmente impazzirebbero a stare chiusi in un ufficio/fabbrica otto ore al giorno, quasi tutti i giorni della propria esistenza, a barattare il proprio tempo con una paga il più delle volte misera e a malapena necessaria a coprire lo stile di vita medio-basso (ma comodo) di cui sopra. Sono quindi necessarie delle illusioni quali le aspettative di un futuro brillante, oppure certe narrazioni che legittimino tale sfacelo. Ormai non siamo neanche più al mito del  proletariato: si è talmente assuefatti da queste "pseudonarrazioni del successo" capitalistico solitario (pseudonarrazioni della comodità? Dell'illusione di immortalità? Della giovinezza perpetua?) che non si pensa neanche più a perpetrare la specie. La ricchezza dei proletari era semplicemente la prole, la famiglia: in un mondo industriale di vecchio stampo la morte veniva ingannata a questo modo, con i figli, tanti figli. Pensando all'attualità, anche i mafiosi italiani ragionano un po' così, un po' da proletari, no? "LA FAMIGGHIAH INNANZITUTTOH..." Anche se c'è da dire, in questo caso, e il buon bambin Gesù con l'asinello e il bue mi è testimone, che la società italiana tutta è poco propensa al rischio, al cambiamento ecc., dacché è fortemente familistica e atavicamente basata sul mito della nascita. Basta soltanto vedere in azienda o quando si va a bussare alla porta di un editore per farsi pubblicare un libro: nessuno vuole rischiare. Il rischio è cosa più da americani, da gente pronta a scommettere perché non ha niente da perdere e non ha radice alcuna. Da ex bambino con genitori divorziati, sentivo fortemente la pressione sociale e il mio essere "diverso": nonostante la postmodernizzazione e americanizzazione del belpaese, un certo substrato fortemente cristiano e conservatore è comunque rimasto (e le elezioni politiche hanno parlato chiaro). Chiudendo la parentesi e tornando al discorso precedente, astraendoci dal modo di essere "all'italiana" tutto amicicici, "famigghia" e parenti serpenti, la ricchezza di un precario contemporaneo semplicemente non esiste: lui vive soltanto di aspettative e illusioni. E l'esperienza della morte? Va inibita in qualche modo. Sicuramente nel passato il possesso era un'ottima illusione, vedasi La Roba di Verga, in cui il padrone solitario, sapendo di dover morire, distruggeva tutto ciò che aveva, non potendosi portare niente nell'al di là.  


Forse bisogna avere una certa intelligenza/predisposizione alla consapevolezza di sé per far tesoro della morte altrui e diventare meno avidi e rompicoglioni, in ultima istanza crescere, maturare; forse ancora la morte, sempre quella reale, quella sensazione di "io un giorno non ci sarò più, black out, fine", viene soppressa dalla finzione che la gente consuma, tipo tutta quella TV trash in cui i personaggi muoiono ammazzati e/o i melodrammi catartici e tragici di ogni tipo, la "pornografia del trapasso" più sui generis possibile (vanno anche bene i film sui supereroi/superminchioni ameri-cani per intenderci, lì qualche morto c'è sempre). Il possesso di oggetti, in ultima istanza il collezionismo compulsivo, nonché le pseudonarrazioni, la finzione di cui ormai la gente vive - in estremis di cui è proprio composta al 99%, si potrebbe parlare di "carne e finzione" (il boom dei tatuaggi, del cosplay, del bdsm et similia), sono tutti potenti metodi di sedazione della morte, una modalità di fuga, di autoillusione. Eppure San Francesco diceva "sorella morte", senza farsi troppi problemi. 


Di mio penso che alla fin fine la morte conduca in qualche modo alla rinascita. Non credo nella reincarnazione, per carità, ma credo che la "crescita" passi inevitabilmente attraverso il lutto: in fondo il tarocco della morte significa "transformazione", non "capolinea assoluto". Ovviamente, eliminando l'esperienza del trapasso, o svalutandola nella finzione o nel possesso incosciente, non è più possibile rinascere, si rimane sempre fermi lì allo stato bestiale, lo stato dell'illusione o Urashima Tarou che dir si voglia. L'ateismo è la religione del consumismo, e funziona solo in una sospensione di incredulità di immortalità: per essere buoni consumatori bisogna pensare nell'immediato, bisogna avere il sentore che il presente sia l'unico tempo possibile in ogni tempo esistente. Il presente deve divenire illusione di eternità. Ed ecco che la grande finzione delle finzioni è il vivere come se si fosse immortali, come se si avesse del tempo infinito a propria disposizione. 


Le civiltà più vitalistiche del passato - mi vengono in mente gli egizi, senza scomodare gli antichi aggregati matriarcali e pseudomatriarcali - erano paradossalmente modellate sul concetto di morte. Un faraone già fin da subito pensava al trapasso e - come tutti sanno - faceva costruire la propria tomba quando ancora era in vita. Parlare della propria morte nel mondo occidentale, d'altro canto, è quasi sempre un tabù: la morte reale va nascosta e spostata completamente nella rappresentazione, nella farsa. La cosa non stupisce: essa d'altronde è un'offesa all'ego ipertrofico del consumatore modello: l'egotismo infantile assoluto, o come lo chiamava Freud la fase orale dello sviluppo, va a tutti i costi preservato. Tenendo ciò bene a mente, si capisce perché Emil Cioran diceva che non si è nati prima di avere realizzato l'idea potenziale del suicidio: la piena consapevolezza della morte la si raggiunge soltanto in spregio del proprio ego, nonché grazie alla coscienza della propria assoluta contingenza. E qui torna tutto: San Francesco; il motivo per il quale il suocero X o il fidanzato Y continuassero comunque ad accumulare beni nonostante avessero assistito alla morte di un parente: si sentivano ancora troppo importanti, troppo "immortali". "La vanità intelligente non esiste" scriveva Céline nel suo Voyage au bout de la nuit, aggiungendo anche che "non c'è uomo che non sia prima di tutto vanitoso". Piccolo particolare: Céline aveva vissuto la Prima Guerra Mondiale rimanendo parzialmente invalido, vedendo morire i suoi compagni ecc. Era un medico che visitava i poveri senza neanche farli pagare, impoverendosi lui stesso: una vita fatta di niente. Mi vengono poi in mente certi film di Kitano Takeshi, in cui l'idea di suicidio è associata all'affermazione totalizzante dell'essere vivi (Sonatine, Dolls, Kids Return, Il Silenzio sul Mare...) Ma anche Moselli, Akutagawa... 


...e questo per oggi è tutto. Non credo di avere nient'altro da scrivere, per ora. Sono stato pesante, eh? Grazie comunque per aver letto fin qui. Alla prossima.  

2 commenti:

  1. Articolo molto interessante. Cercando di voler dare una risposta alla domanda di inizio post, credo per quanto vedere in prima persona la morte di un proprio caro sia doloroso è difficile che questo non sia sufficiente a far scattare quel meccanismo di cui parli per il fatto che poiché le persone muoiono solitamente in età avanzata è difficile, a livello inconscio, immedesimarsi davvero in quella situazione.
    Mio nonno, ad esempio, è venuto recentemente a mancare, ma la differenza anagrafica(lui classe 1935, io classe 2003) era tale da impedire ciò.

    Quanto al tabù della morte della società contemporanea credo sia frutto del benessere diffuso, noi occidentali ci siamo disabitati alla fame, alle donne che su otto gravidanze solo tre andavano a buon fine, alla guerra; tutte cose ovviamente estremamente positive, ma che hanno inevitabilmente anestetizzato la popolazione al punto tale che tutto ciò che è morte e malattia va rigettato. Non ho dati a portata di mano, ma non è un caso se all'aumentare del benessere aumentano, generalmente, le patologie psichiatriche. Interessante poi, come hai sottolineato nell'articolo, come le narrazioni moderne siano piene di morti, anche violente come se fungessero da terapia d'urto per anestetizzare quelle stesse persone che rigettano tutto ciò che è collegato con essa.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Direi che hai capito perfettamente il senso del post. Ti ringrazio.

      Elimina