Louis Ferdinand Céline me lo aveva fatto conoscere il poeta Sergio Bertolino durante i miei anni universitari, in cui suonavo con lui in un gruppo prog rock caratterizzato dalla voce potente e melodica della talentuosa Gemma Conforti, la sua fidanzata di allora (che oggigiorno ha inciso un disco solista e vanta un meritato seguito). Prima di conoscere Sergio (una delle tante figure di passaggio della mia vita) per me l'esistenzialismo era soltanto Moby Dick, e nient'altro (e no, gli anime, anche i migliori, non possono competere con la letteratura). Grazie a lui poi ho conosciuto quello francese: il maniaco pedofilo Sartre, a me indigesto; l'asciutto Camus e infine colui il quale ho amato di più, a cui voglio dedicare questo post. Per me Voyage au bout de la nuit è un capolavoro, giusto un gradino sotto Moby Dick. Nel corso degli anni l'ho riletto tre volte, due intorno ai vent'anni, la terza qualche mese fa. Ai tempi delle prime due letture l'avevo fatto leggere anche ad alcuni ex-amici delle strade, che contrariamente a me non avevano un'istruzione. Lo amarono e lo finirono in poco tempo, discutendone animosamente tra di loro e con me. Perché? Perché è un romanzo onesto, grezzo, schietto: dice che l'uomo è merda, e merda rimarrà sempre, anche se sotto sotto l'autore, essendo francese, vorrebbe che fosse qualcosa di più (un po' come me, in fin dei conti: sono piemontese e la mia terra natale non dista molto dalla Francia). Da qui la sua delusione, in cui mi ci sono sempre ritrovato. Céline non è tipo un Akutagawa, che è nichilista al 100% e tutta la sua letteratura è permeata da un sincero alone di morte (e infatti lo scrittore giapponese è ricordato più che altro per il suo suicidio). Contrariamente a lui Céline è nichilista, sì, ma pieno di vita e di amore per la vita. Un idealista tradito insomma, tant'è che prima di essere uno scrittore era un medico per i poveri (e il più delle volte non si faceva neanche pagare le visite).
Lo stile del romanzo è secco, grezzo, pieno di parolacce, imprecazioni e riflessioni taglienti come rasoi. Le graffiate d'autore si mescolano fugaci al baratro del nonsenso della vita per poi svanire di fronte a immagini rarefatte, abbozzate: le descrizioni sono poche ed essenziali, sicché è il linguaggio in se stesso che conta veramente. La storia, puramente autobiografica, narra del giovane Bardamu, che in preda al furore giovanile (chiamasi anche stupidità e incoscienza) decide di arruolarsi e di andare al fronte a combattere in trincea, nel contesto della WWI. Rimarrà ferito sia nell'anima che nel corpo, e una volta ritenuto pazzo e non più idoneo al combattimento se ne andrà in Africa, in cui avrà modo di assaporare il degrado del colonialismo, per poi intraprendere un vano tentativo di riscatto in America. A Detroit avrà modo di lavorare alla Ford, sperimentando un nuovo tipo di alienazione e solitudine. L'unico sollievo in questo scenario sarà la prostituta Molly, che finirà altresì per rivelarsi l'unico personaggio decente del libro. Ormai saturo e deluso dal modello americano, Céline/Bardamu se ne tornerà in Francia a concludere gli studi (ritrovando tuttavia nei suoi connazionali l'odiata mentalità "all'americana"). Eserciterà quindi la professione di medico, per i poveri prima e per i malati di mente dopo. Dalla follia della guerra alla follia del manicomio, insomma. Il filo conduttore delle numerose vicende che Bardamu vivrà sarà l'amico Robinson, una sorta di suo alter ego/grillo parlante tragicomico.
Gli operai ricurvi preoccupati di fare tutto il piacere che possono alle macchine ti demoralizzano, a passargli i bulloni al calibro e ancora bulloni, invece di finirla una volta per tutte, con quell'odore d'olio, quel vapore che brucia i timpani e l'interno delle orecchie attraverso la gola. Non è la vergogna che fa abbassare la testa. Ci si arrende al rumore come ci si arrende alla guerra. Ci si lascia andare alle macchine con le tre idee che restano a vacillare in cima alla testa, dietro alla fronte. E' finita. [Bardamu negli stabilimenti Fordisti]
Céline descrive i francesi come mere bestie animate da narrazioni/idee che in qualche modo, illusoriamente, li "nobilitano" esaltando il loro ego e la loro vanità ("non esiste una vanità intelligente", cit.), come ad esempio il patriottismo degli ufficiali dell'esercito o i deliri di onnipotenza stupidi dei coloni sfruttatori. Gli americani invece sono bestie e nulla più, e come fa notare Bardamu nelle sue riflessioni, le loro città, contrariamente a quelle europee, sono "orizzontali", simili alle batterie per il pollame. Tra le righe si legge il messaggio che l'intero sistema capitalistico yankee sia tenuto su dalla prostituzione, dal consumo della donna, dall'abuso di sesso (dopo dei turni devastanti in fabbrica ci si sente soli come cani, si fa fatica a formulare dei pensieri, a provare delle emozioni, quindi si va al bordello a scopare). Lo scrittore con ciò intuisce il disturbo ossessivo compulsivo maschile di massa figlio della cultura industriale efferata, e il "parallelo", conseguenziale disturbo borderline femminile (si pensi alla fidanzata di Robinson, che presenta tutti i sintomi di questo continuo vacillare tra nevrosi e psicosi diffusissimo nell'oggidì, in cui l'industrialismo, diventando "fluido", si è ulteriormente rafforzato e sedimentato). Il culmine dell'analisi della condizione femminile di Céline è comunque la scena raccapricciante, una delle poche ben descritte (e la cosa credo sia voluta), dell'amante porva dei funzionari pubblici che muore dissanguata dopo il terzo aborto, dato che la madre, nonostante abbia chiamato il dottore (ossia lo stesso protagonista Bardamu, che reputa di fiducia), non vuole farla ricoverare in ospedale per non dare scandalo.
Nei ruggenti anni venti Céline intravede in prima persona la nascita di un edonismo sfrenato, in cui è l'americanismo a dettare le leggi della nuova umanità postbellica. Scrive infatti "non si scappa mica al commercio americano", e disprezza fortemente la piccola borghesia venuta su grazie alla sofferenza delle classi inferiori durante la guerra. Capisce l'inizio delle fine, ossia l'avvento della postmodernità (fu Fukuyama in seguito a dire che gli anni venti furono l'embrione del periodo postmoderno vero e proprio, quello derivato dal boom economico degli anni sessanta). Capisce l'ipocrisia della pseudonarrazione del successo solitario yankee, tant'è che nel libro scrive cose tipo "Il bastone finisce per stancare chi lo maneggia, mentre la speranza di diventare potenti e ricchi di cui i bianchi s'ingozzano, quella non costa niente, assolutamente niente". Oppure "La vera festa la fa sempre il commercio, ma in profondità e in segreto. E' la sera che gode il commercio, quando tutti gli incoscienti, i clienti, queste bestie da profitto se ne sono andati, quando il silenzio è tornato sulla spianata e l'ultimo cane ha schizzato l'ultima goccia d'urina contro il bigliardo giapponese. Allora possono cominciare i conti. E' il momento in cui il commercio censisce le proprie forze e le proprie vittime, coi soldi".
Ma Le Voyage non è soltanto una lagna anti capitalista, anti industrialista e anti postmodernista ante litteram. E' proprio l'umanità ad essere il problema: la sua bestialità intrinseca, il suo egoismo cattivo. L'apice di queste riflessioni avviene durante il viaggio in nave verso l'Africa, in cui Bardamu deve nascondersi dall'equipaggio per paura di non finire ammazzato di botte per niente, soltanto per la sua diversità: "Qualche volta li sentivo parlare tra loro, quando mi credevano fuori, aspettando il loro turno. Raccontavano sul mio conto orrori a non finire e menzogne da farsi scoppiare l'immaginazione. Doveva dargli coraggio sputtanarmi a quel modo, non so quale coraggio misterioso che gli era indispensabile per essere sempre più spietati, coriacei e cattivi, per durare, per resistere".
"Per durare, per resistere". Perché la realtà è il niente, è la morte di ogni aspettativa e idealismo. E la cosa è molto dura da accettare, anche per lo stesso autore (che comunque anni dopo la pubblicazione del qui presente libro cadrà nella trappola dell'antisemitismo e delle simpatie per il nazismo, quasi come se, anche dopo aver scritto un capolavoro di nichilismo, continuasse ad avere pure lui bisogno, proprio come il suo Bardamu o il suo Robinson, di illusioni per sopravvivere, di un qualcosa di "coriaceo" e "cattivo", di puramente metanarrativo come potevano essere le fallaci grandi dittature ideologiche del novecento). Ma perché questo passo indietro di Céline? Perché è umano. E per gli esseri umani è difficilissimo abbandonare le narrazioni, le illusioni, avere una completa coscienza dell'insensatezza delle cose. Eppure lui aveva già intuito tutto nel Voyage. Si pensi alle sue riflessioni sui pazzi, sui ricoverati al manicomio:
"Pensandoci adesso, a tutti i matti che ho conosciuto dal vecchio Baryton, non posso fare a meno di dubitare che esistano altre autentiche realizzazioni del nostro io più profondo che non siano la guerra e la malattia, questi due infiniti dell'incubo. La gran fatica dell'esistenza non è forse insomma nient'altro che darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant'anni, o più, per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi".
"Ce ne parlavano dei loro tesori mentali, gli alienati, ma con un sacco di contorsioni spaventate o arie di degnazione e protezione, come fossero degli amministratori onnipotenti e pignoli. Nemmeno in cambio di un impero, si sarebbe riusciti a farli uscire dalle loro teste quelli lì. Un matto, altro non è che le solite idee di un uomo ma ben chiuse in una testa. Il mondo non ci passa attraverso la testa e tanto basta. Diventa come un lago immissario una testa chiusa, un'infezione".
In sostanza, anche quelli normali sono come i pazzi: tutti tendono al solipsismo, che poi è la solitudine più assoluta, la solitudine derivante dall'impossibilità di poter uscire dal proprio ego e di poter veramente capire il prossimo e sé stessi. L'autore capisce anche che l'unico periodo che conti veramente nella vita è la giovinezza, perché non si ha questo tipo di consapevolezza. Quando rifiuta la stupida americana Lola, che gli parla di quanto sono buone le frittelle mentre lui è lì sofferente per i danni ricevuti dal suo corpo e dallo spirito durante la guerra, pensa "Ma era troppo tardi per rifarmi una giovinezza. Ci credevo più! Si diventa rapidamente vecchi e in modo irrimediabile per giunta. Te ne accorgi dal modo che hai preso ad amare le tue disgrazie tuo malgrado".
Questo passaggio non lo capii quando lessi il libro la prima volta, a vent'anni. L'ho capito soltanto ora a trentatré. Anche questi sono notevoli:
"Sgomento tanto più sensibile perché Lola, sorpresa nel suo ambiente, mi faceva provare appunto un disgusto nuovo, avevo una gran voglia di vomitare sulla volgarità del suo successo, del suo orgoglio, esclusivamente triviale e ripugnante ma con cosa?"
"Quando si è giovani, l'indifferenza più arida, le porcate più ciniche, si arriva a trovargli la scusa del capriccio passionale e chissà quale segno di un romanticismo inesperto. Ma più tardi, quando la vita vi ha mostrato per bene tutto quello che può esigere in cautela, crudeltà, malizia soltanto per essere mantenuta bene o male a trentasette gradi, ti rendi conto, sei informato, hai le carte in regola per capire tutte le stronzate che contiene un passato".
Anche quest'ultima perla, una delle più potenti, non la capii da "giovane", ma l'ho capita soltanto superati i trenta: "Dopo anni quando ci ripensi capita che vorremmo proprio acchiapparle le parole che ha detto certa gente e la gente stessa per chiedergli quello che hanno voluto dirci... Ma se ne sono proprio andati! Non avevamo abbastanza istruzione per capirli... Vorremmo sapere così se hanno cambiato idea alle volte... Ma è davvero troppo tardi... E' finita! Nessuno sa più niente di loro. Bisogna allora continuare la strada da soli, nella notte".
E questo è tutto. Mi spiace non averti potuto conoscere, Céline. Ti avrei senz'altro abbracciato e ringraziato per la tua onestà.
F. M.
Mi permetto di scrivere dopo tanto tempo perché questo è davvero un bel post.
RispondiEliminaMi ritrovo in molte delle riflessioni di C, specie quella sulla barca e lo sputtanamento alle spalle... lo dico spesso scherzando ai colleghi... ma se parlate male degli altri che sono cosi nelle righe, dietro quanto me ne dite...
La mia risposta è che esistenzialmente si è quello che si mangia, un pò come la mela di penguindrum. Anche in termini di sesso, educazione al bello, e in primis affetto. Ma l affetto non basta, anche se forse è conditio sine qua non.
Credo non si abbia paura della morte, perché la maggior parte vive una vita di merda. In passato solo i ricchi avevano voce
..e tanto piu si torna indietro nel tempo, piu ristretta e privilegiata è la classe di coloro di cui ci restano le tracce più cospicue.
Dalle tombe egizie della valle dei re ai tanto simili resti etruschi dell ipogeo dei volumni... si celebra sempre il proprio focolare domestico, inteso come il luogo in cui si sono passate tante ore felice, con la propria bella consorte. E si spera di eternare il piacere sensuale provato.
È sempre cosi. Una società che minimizza tali piaceri che Joyce definirebbe epifanici, uccide il senso della morte. E cosi è infatti
Celine lo conosco poco...ma è divertente vedere come alla fine tutti i nichilisti vanno a ritrovare la vita con delle ragazze al limite della pedofilia.
Questa è una verità scomoda forse, ma tuttavia innegabile. Non si possono mangiare solo le verità le cui conseguenze non siano rischiose :) è un altra insieme al falso mito del benessere diffusodella società odierna...il passato di cui ci resta voce viveva in un benessere molto maggiore, che la media attuale in cui tutti più o meno hanno voce. E chi sta molto bene ha ovviamente coscienza della vita fortunosa che ha avuto
Ciao Scomunicato
Elimina"Celine lo conosco poco...ma è divertente vedere come alla fine tutti i nichilisti vanno a ritrovare la vita con delle ragazze al limite della pedofilia."
Occhio che Céline chiama Lola l'americana ma lei è perfettamente maggiorenne. Inoltre non va mai a minorenni (cosa che era possibile nel suo periodo storico). Non è un Sartre, ma una mera vittima proletaria del novecento, proprio come le sue donne (che pare quasi odiare, a parte Molly).
Inutile poi dire che per lui il sesso sia un mezzo di sfogo nevrotico e niente più (e ci arriva anche a capirlo). Non esiste l'intensità sessuale/sentimentale che dici in Céline. E' roba da borghesi, quelli che lui disprezza, non da poveri veri. In lui c'è il rimpianto per la giovinezza perduta, quello sì. Per le persone perdute che non torneranno più. Ma questo problema è cosa tipica di ogni uomo.
Un post molto bello, perché incentrato su un contenuto reale e ben scritto. Vorrei farne una selezione di frasi chiave, come tu hai fatto dal testo di Céline, e magari lo farò, perché per me la lettura comporta sempre una forma di osmosi stilistica. Intanto ti ringrazio sinceramente, perché riuscire a indurmi alla lettura è una cosa molto rara e difficile, ma per me altresì preziosa. Quindi grazie. Invero essere un tipo psicologico che pensa molto più di quanto legge comporta strani effetti. A volte, specie in giovinezza, si prendono cantonate colossali di cui dopo ci si vergognerà inverecondamente. Altre volte si "ripensa" da soli quello che magari grandi mostri sacri del passato avevano già pensato e scritto a loro tempo, che pure potrebbe dirsi una perdita di tempo, però porta comunque avanti il pensiero diverso in un modo diverso dal ricevere quegli stessi pensieri come altrui, per quanto illuminanti. Mi capitò, ad esempio, che a partire da un scetticismo radicale post-Kantiano io avessi "ripensato di mio" più o meno tutto il pensiero pre-esistenzialista, anzi proto-esistenzialista, di Arturo o Soriano. Sigismondo mi riservò maggiori spunti, ma lo conobbi dopo, e poi ancora Carlo Gustavo.
RispondiEliminaDunque, Céline. (segue)
Dunque, Céline. (segue)
RispondiEliminaCome giustamente dici, il suo è un viaggio alla scoperta dell'orrore intrinseco dell'umanità è quindi del nichilismo. La notte è l'umanità, e al suo termine c'è il nulla. E giustamente dici che la mentalità francese è forse la più attaccata alle narrazioni intellettuali narcisistiche, vedasi naturalismo e positivismo francesi, quindi è ovvio che per un francese la destrutturazione delle sue narrative sia quanto di più tragico. Dubito ch Céline conoscesse, che so, "Pulcinella e il Diavolo", che ha una morale ben diversa da cose come "Il gatto con gli stivali" e ancor più "La volpe e la cornacchia". Siccome anche io ho un quarto di sangue savoiardo, ho avuto un'educazione familiare francesina in quel senso smutandato, titanista, ridicolo, per poi trovare un diverso sentimento in una sorta di cura luterana vecchio stile. Però si va avanti. Alla fine, Céline sembra esprimere quello che Huxley, con la sua cultura realmente inglese, aveva capito osservando il fordismo in America, e che poi lo stesso Orwell poneva nei suoi testi più famosi dove il Moloch di turno era la dittatura socialista, perché disumanizzante, ma questo era molto meno universale della speculazione di Huxley stesso: a "disumanizzare" l'uomo è l'intrinseca tendenza animale e competitiva dell'uomo stesso. Infatti la parte migliore di 1984 è invero Il Libro nel libro, quello scritto da Goldstein (nomen omen), che se da un lato è davvero l'ABC, dall'altro viene letto da lui a lei tra le coltri – e lei si addormenta. Il punto è dunque la naturale tendenza atropofaga dell'uomo.
(segue)
La naturale tendenza antopofaga dell'uomo.
RispondiEliminaMa perché?
Allo stato attuale, sono giunto a pensare che tutti i pensatori umani della storia abbiano detto e scritto la stessa cosa, ovvero una denuncia della natura umana difettosa, nei casi più fragili e pietosi proiettata per sfogo e tentativo autoterapico ossia strategia di sopravvivenza (credo sia il caso di Céline), nei casi più solidi e virtuosi narrata come tentativo di instaurare una narrazione positiva. Questo secondo caso credo sia quello di tutte le forme religiose del pensiero umano apparse sul pianeta.
Allo stato attuale, sono giunto a pensare che ci siano due fratture originali, o meglio ambivalenze intrinseche dell'essere umano (polisemia intesa), che discendono appunto dai due tratti fondamentali della sua stessa natura.
Il primo tratto umano fondamentale è la sua natura di "animale intelligente". Come si vede, è un ossimoro. Un animale, corpo mortale, non dovrebbe coscienza del sé ovvero della sua mortalità. Un'intelligenza, ossia un autocoscienza, non dovrebbe essere limitata dalla mortalità di un corpo fisico. Questa antinomia è irrisolvibile ed è a mio giudizio una delle due cause fondamentale di tutte le nevrosi e psicosi umane.
Il secondo tratto umano fondamentale è la sua natura di "essere pensate proiettivo suo malgrado". Posto che data un'autocoscienza essa determina l'appercezione del "Sé", con questo viene la percezione di un "dentro" e un "fuori" dal sé. Il Sé è chiuso, e non vorrebbe l'esistenza d nulla al di fuori del sé, ma nel caso dell'uomo ne ha invero bisogno. Non parlo di bisogni materiali, ma esistenziali. L'uomo conferma la sua esistenza tramite la proiezione del Sé sul non-sé, il che ovviamente include la necessità di una qualche forma con "l'altro", dove altro è tutto il campo di esistenza dell'uomo singolo, ovvero il mondo delle cose e delle altre persone, per come percepite dal singolo. Come si vede è di nuovo un conflitto intrinseco, un'ambivalenza insuperabile, perché il Sé vorrebbe essere l'unico determinante di tutta la sua percezione, ma ha bisogno di un esterno su cui proiettarsi e a cui relazionarsi per riuscire a confermare e validare in qualche modo la sua stessa esistenza.
Come si vede, queste due ambivalenze fondamentali afferiscono rispettivamente all'uomo singolo nella sua solitudine assoluto e all'uomo calato nella presunta realtà e società che gli sta intorno.
(segue)
Da dette due ambivalenze fondamentali, originarie, intrinseche e insuperabili, credo discendano tutti i tentativi, le strategie di sopravvivenza psichica dell'uomo. Per il punto a cui mi trovo ora, credo che – con maggiore o minore coscienza – la vita di ogni essere umano altro non sia che un disperato tentativo di sopravvivere ai suoi difetti immanenti, ovvero a sé stesso. Il tentativo di trovare una qualche forma di equilibrio psichico, più o meno ingannato, più o meno stordito, ma quantunque pseudofunzionale nella sua ineluttabile instabilità.
RispondiEliminaE sono stati fatti svariati tentativi comunitari.
Questo è lo stesso discorso che facevo per il "pensiero umano". L'essere umano, anche il più cosciente, oscilla tra la sua naturale tendenza animale e meccanica all'antropofagia e la sua tendenza intellettuale alla sopravvivenza pietistica per il suo simile. Quindi ogni pensiero umano, anche il migliore, potrà concretizzarsi in una forma di controllo e sfruttamento personale del prossimo e delle masse (antropofagia) o consolazione e cura degli altri e dei più (illuminazione). Non è che questa cosa valga solo per i pensieri religiosi, vale anche per ogni pensiero filosofico, o meglio potremmo dire che ogni pensiero umano intellettuale è in realtà religioso, ovvero politico in senso latissimo.
In realtà, ogni pensiero umano strutturato ovvero ogni religione è una narrazione, ovvero una narrativa. Una narrativa usata a scopo di ottenere un bene proprio oppure il bene di una comunità, come dicevo. E anche nella determinazione dei confini della "comunità" si aprono molte trade. Perché tra l'Io e gli Altri, inevitabilmente l'Io determinerà "i miei". E "i miei" posso essere la sola famiglia naturale nucleare dell'io, oppure tutta la sua specie biologica, e quindi tutti gli insiemi concentrici che possiamo immaginare tra questi due estremi. Ci si dovrebbe forse chiedere quale si provi essere la circoscrizione più funzionale alla sopravvivenza dei più, ma almeno a giudicare dalla storia della nostra autocoscienza la sensazione è che anche questo cambi nel tempo, in un alternanza che in ottica frattale altro non è che un ordine di grandezza superiore nel raggiungimento di agognati equilibri destinati ad essere sempre instabili.
SI MONVMENTVM REQVIRES, CIRCVMSPICE
@Shito
RispondiEliminaTi rispondo con una canzone di un vecchio gruppo folk anni settanta.
So many people on the street
It's sad to think they're gonna die
The only link we have cut
You start off fresh and full of life
A life that's bright and full of light
The crowds of faces on the street
The lady that you're gonna meet
But time's gonna shoot you down in the end
Time's gonna shoot you down in the end
You'll find everything has turned to dust
You've seen those faded photographs (Faded photographs)
Crowded streets and horse-drawn trams (And horse-drawn trams)
The hopes, the dreams, the plans they made (The plans they made)
The love affairs that flare and fade
But time's gonna shoot you down in the end
Time's gonna shoot you down in the end
You'll find everything has turned to dust
Time shot down the twenties
EliminaWith the bootleg and its flappers
Time shot down the thirties
The years, an act by Hitler
Time shot down the forties
And the freedom that they fought for
Time shot down the fifties
With the innocence of Monrow
Time shot down the sixties
With the Kennedys and Vietnam
And there you are and here I am
Office girls and movie stars
Actors in a two-bit farce
Specimens in see-through jars
Visto che hai citato un gigante della letteratura americana come Melville, cosa ne pensi invece di Faulkner (sempre se hai letto qualche suo romanzo e se così non fosse ti consiglio candidamente di iniziare con "Luce d'agosto)?
RispondiEliminaMai sentito. Lo prendo, stavo giusto cercando un romanzo da leggere. Grazie!
EliminaAggiornamento: Ho provato a leggere Faulkner ma ci sono troppe ripetizioni. Mi sa che la traduzione è pessima. Non sono riuscito ad andare avanti (mi riferisco alla Luce di Agosto, sì, edizioni Adelphi). Grazie lo stesso cmq.
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