Titolo originale: Dwaejiui Wang
Regia: Yeun Sang-ho
Soggetto: Yeun Sang-ho
Soggetto: Yeun Sang-ho
Sceneggiatura: Yeun Sang-ho
Character Design: Yeun Sang-ho, Kim Chang-su
Musiche: Been Eom
Musiche: Been Eom
Studio: Studio Dadashow
Formato: film cinematografico
«Un coltello è quello che distingue gli esseri umani dagli animali.
Non è una parte del mio corpo, ma mi dà comunque forza.
Ma quando gli uomini crearono i coltelli, anche qualcos'altro di inaspettato fu creato.
Il male.
Come gli artigli affilati di quel gatto, così è il rifiuto di lasciar andare il coltello, che non è una parte del nostro corpo.
Ciò che ci rende umani è il male stesso.
Ma allora, cosa possiamo fare per ottenere il potere? Forse delle buone azioni?
No. Per ottenere il potere dobbiamo diventare il male.
Se non vuoi essere una nullità devi diventare un mostro. Capito?»
Un giorno, dopo aver brutalmente ucciso la moglie, Hwang Kyun-min, un
amministratore delegato pieno di debiti, chiama il suo amico d'infanzia
Jung Jong-Suk, uno scrittore fallito prigioniero di una vita piena di delusioni e frustrazioni. L'incontro tra i due diventa un pretesto per ricordare i
giorni in cui andavano a scuola, un'istituzione non molto diversa dalla
società in cui ora vivono, da adulti; tra un frammento di memoria e
l'altro, emerge il ricordo dello scaltro Re dei Porci, un
disadattato armato di coltello che li proteggeva dagli atti di bullismo
quotidiani perpetuati dall'elite della classe, un ristretto gruppo di
ragazzi provenienti da famiglie potenti e agiate, i quali potevano
permettersi di infliggere ogni tipo di umiliazione ai meno fortunati
restando impuniti e protetti dalle istituzioni.
Si intuisce subito dove il regista coreano Yeun Sang-ho voglia andare a
parare con il suo tetro film d'esordio; non serve neanche citare la
ricerca del realismo più nauseante ed allucinato che traspare da ogni
singolo fotogramma dell'opera, in cui ogni cosa è orrenda proprio perché
è così, e non può essere altrimenti. Il ritratto dell'attuale società
coreana che ne scaturisce è paragonabile a quello del Giappone
postbellico, in cui il divario sociale e la violenza dominavano
incontrastati; non per nulla, "The King of Pigs" ha molto in comune col gekiga
giapponese degli anni sessanta e settanta, una corrente di pensiero
adulta e disillusa che culminava quasi sempre in una feroce negatività
senza alcuna speranza di redenzione.
L'allegorico ambiente scolastico, nell'immaginario del sociopatico
protagonista Jung Jong-suk, viene suddiviso - in un modo che ricorda
molto "La Fattoria degli Animali" di Orwell -, tra cani e porci; ci sono
quelli che ringhiano aggressivi con la bava alla bocca, pronti ad
azzannare i membri della casta inferiore: gli sporchi, arrivisti e
codardi maiali dalle carni tenere e succulente. Inutile dire che i porci
sono destinati a rimanere per sempre porci, non è possibile che possano
trasformarsi in cani: la struttura stessa dell'ambiente esterno non lo
permetterebbe mai, è una fredda ed imperturbabile legge della natura che
non portrà mai essere modificata. Come direbbe Golding, «l'uomo produce il male come le api producono il miele»; il Re dei Porci è in un certo senso un'equivalente del Signore delle Mosche,
un'ossessione da incubo la quale tormenta gli eterni perdenti che non
riescono ad accettare la loro miserabile condizione e che si agitano come porci nel fango, scaricando sui più deboli le loro ansie e
frustrazioni, tentando di emulare i cani in modo rituale - la
raccapricciante scena in cui i tre protagonisti torturano un gatto
indifeso con un coltello.
Il carburante che mette in moto la macchina della follia da sempre
latente nell'uomo è un dio ben noto a tutti: il dio denaro. Nel film
emerge una pesante critica allo sfrenato consumismo della Corea del Sud,
dove un paio di pantaloni di marca ed un innocuo smartphone - dei
capziosi e vani status symbol che in quei lidi sono privilegi
di ben pochi eletti - possono diventare dei veri e propri strumenti di
prevaricazione del più debole; la scena chiave in cui il protagonista
ruba dei jeans Guess alla sorella - ignaro che siano da donna, soltanto
per emulare il tanto invidiato establishment scolastico - con il suo
sfociare in un macabro, impunito atto di bullismo denso di pura
cattiveria, ricorda molto quello che in Italia disse parecchi anni fa
Frankie HI-NRG MC con il suo brano "Quelli che Benpensano": «gli ultimi saranno sempre gli ultimi, se i primi sono irraggiungibili.»
Sono quindi mattonate sui denti dal ferreo realismo, quelle che questo
misconosciuto film d'animazione coreano fa arrivare in faccia
all'occasionale spettatore occidentale. Il punto culminante
dell'angoscioso cammino orchestrato con maestria da un autore
decisamente incazzato con la razza umana è il simbolico finale, con le
sue tragiche immolazioni che fanno finire il tutto nel peggiore dei modi
possibili, giusto per confermare in modo agghiacciante, con una
profonda sottolineatura rosso sangue, quanto l'uomo sia debole, inetto
ed egoista - un misero animaletto condannato alla disperazione,
all'irrazionalità e alla mediocrità, ed assolutamente incapace di
diventare l'onnipotente mostro che vorrebbe essere.
Dal punto di vista tecnico l'opera risente del basso budget ch le è
stato destinato; sebbene la regia e la sceneggiatura siano ottime, le
animazioni risultano assai grossolane e scattanti, e talvolta
penalizzano parecchio la resa del prodotto finale. Interessante notare
la scelta dello stile grafico, che si dimostra rozzo, disturbante,
efficace nel descrivere i deliri del gruppo di inetti a cui dà forma.
Detto ciò, come prova d'esordio questo "The King of Pigs" si dimostra
assai maturo, lucido e spietato; nondimeno, con il successivo "The Fake"
il regista avrà modo di aggiornare le tematiche sviluppate in questo
film, migliorando ulteriormente la sua truce, violenta e disillusa
poetica.
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