sabato 23 luglio 2016

Hell Girl: Recensione

Titolo originale: Jigoku Shoujo
Regia: Takahiro Omori
Soggetto: Hiroshi Watanabe
Sceneggiatura: Kenichi Kanemaki
Character Design: Mariko Oka
Musiche: Yasuharu Takanashi, Hiromi Mizutani
Studio: Deen
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 2005-2006


«In questa pazzia, incertezza,
riusciremo a lasciare il ricordo delle nostre emozioni?
In questa pazzia, mi hai dato la vita,
come possiamo proteggere le nostre emozioni?
In questa pazzia, incertezza,
come possiamo proteggere noi stessi?»

Il filone della Nuova Animazione Seriale (1995-2006) ha prodotto innumerevoli anime sobri, adulti, intellettuali e dai significati profondi, nei quali venivano messe a nudo l'incertezza, la pazzia e la confusione caratteristiche del periodo in cui opere come “serial experiments lain” e “Paranoia Agent” vedevano luce. I valori tradizionali sui quali si fondava il Giappone in seguito alla crisi economica novantina erano venuti meno, e l'intera nazione era disorientata, nonché succube del vuoto interiore postmoderno, altro fattore che ne lacerava – e ne lacera tuttora – l'identità nazionale e culturale, nonché quella coesione sociale estrema e quanto mai emozionale – di difficile comprensione per un occidentale - sulla quale si basano i ferrei valori gerarchici insiti nello spirito giapponese.

«Questo mondo è governato dal destino.
Un filo che si avvolge intorno ad un fragile e inutile pregiudizio.
Rabbia, odio, rancore, dolore e sofferenza.
A mezzanotte ascolteremo la tua vendetta.»

In un turbinio di cattiveria, incomprensione ed egotismo – e pertanto odio, dacché non si può odiare senza identificarsi col proprio ego/soggetto -, in una società che sta perdendo di vista la sua ragion d'essere, alcune persone, giunta la mezzanotte, si collegano a internet al fine di contattare la Jigoku Tsūshin, ovvero la Corrispondenza per L'inferno. Di sovente in preda ad un miscuglio di ansia e terrore, in soggezione o in lacrime, i suddetti malcapitati, una volta inoltrata la richiesta, vedono apparire Enma Ai, una ragazzina dallo sguardo fisso e dai capelli lunghi e neri, che consegna loro una bambola di paglia attorno alla cui testa è legato un filo rosso come il sangue. 


«Io sono Enma Ai.
Mi hai evocata.
Se desideri vendicarti, devi tirare il filo rosso.
Facendolo, stringerai un patto con me.
La persona che odi verrà subito bandita all'inferno.
Tuttavia... a vendetta compiuta dovrai pagare una compensazione.
Ogni maledizione richiede un sacrificio.
Quando morirai, anche tu finirai all'inferno.
Non potrai più accedere al Paradiso.
La tua anima soffrirà per l'eternità.»

Jigoku Shoujo”, allo stesso modo del “Paranoia Agent” di Satoshi Kon, è prevalentemente costituito da episodi autoconclusivi, incentrati di volta in volta su un diverso utente della Jigoku Tsūshin. Il primo episodio della serie, a scanso di equivoci, immerge immediatamente lo spettatore in quel cupo mood tipico di tutte le vicende che vedono direttamente coinvolta la “ragazza dell'inferno”, mettendo in scena la raccapricciante situazione di una tredicenne che subisce atti di bullismo da parte delle sue compagne di classe, in un crescendo di violenza psicologica che culmina con le suddette che tentano di obbligare la malcapitata a prostituirsi, ovvero a praticare, proprio come loro, l'enjo kousai – squallido fenomeno tipico del Giappone postmoderno (e non solo) secondo il quale delle ragazzine benestanti vendono il loro corpo a degli uomini adulti in cambio di soldi o regali.
Nell'opera pertanto appare fin da subito una gioventù completamente animalizzata e priva di valori, che sfoga la sua frustrazione e invidia sull'elemento “diverso” del gruppo; Mayumi Hashimoto, la protagonista dell'episodio, troppo debole e gentile per reagire, dopo aver contattato la Jigoku Tsūshin tenta il suicidio, venendo tuttavia fermata da Enma Ai, che la trasporta in una dimensione spirituale in cui il tempo è congelato e il sole è perennemente collocato nella fase del tramonto – simbolismo che si impone come una sorta di perenne “capolinea” della vita. 

 
Ora Mayumi è dotata del potere assoluto: può mandare all'inferno le sue aguzzine venendo tuttavia marchiata indelebilmente – anche lei, una volta conclusasi la sua vita, finirà tra le fiamme primigenie, a bruciare per l'eternità. Come accade per tutti i personaggi della serie che tirano il filo rosso, non vi è alcun pentimento nell'atto compiuto: alcuni addirittura asseriscono che siccome la loro vita è già di per sé un inferno, la compensazione da pagare ad Enma Ai non è poi così gravosa. D'altro canto, neanche chi finisce all'inferno si redime, e quando viene traghettato lungo il fiume della morte dalla protagonista, non manca di tediarla con le proprie psicotiche asserzioni, che provengono direttamente dal vuoto dell'animo. Perché se non c'è spirito, non ci può essere redenzione, e tutto diventa un freddo labirinto allegorico nel quale morte e annullamento diventano le uniche vie di “salvezza” da percorrere.

«Odiare o essere odiati, e qualcuno odierà ancora. Mandare o essere mandati all'inferno, e qualcuno vi sarà nuovamente mandato. Ho assistito a questo ciclo ripetutamente. Nessuno può fermarlo.»
[Enma Ai]

Tra stalker di mezz'età che perseguitano tredicenni indefese, arrampicatrici sociali che arrivano ad uccidere i loro rivali e a sfruttare giovani hacker per arricchirsi, bambine che vengono ricattate da violente matrone dalle pulsioni omicide, mogli infedeli che si danno all'edonismo incuranti dei sentimenti dei mariti et similia, Enma Ai compie imperturbabile il suo dovere, rigida e spietata come quella tradizione che incarna nella sua arcaicità. La porta dell'inferno è costituita dall'arco di un tempio shinto, e nella dimora della suddetta è presente una nonna-ombra che tesse perennemente la sua tela, in contrasto con l'immobilità assoluta del non-luogo ancestrale in cui risiede. Il rapporto tra Enma Ai e i suoi tre servi è solido e immediato, nonché privo dei difetti di comunicazione tipici degli individui postmoderni. Gli occhi rossi della ragazzina rimandano al fuoco, l'elemento più temuto dai giapponesi, mentre i suoi capelli neri e sciolti, congiuntamente al velo bianco che indossa mentre fa il bagno alle terme, secondo il folklore del paese del Sol Levante sono dei potenti simboli dalla valenza mortifera. Eppure, allo stesso modo dei tragici greci, anche Enma Ai è costretta all'interno di un meccanismo più grande di lei, che la scuote nel profondo del suo animo ferito e malinconico. In una scena dell'anime, mentre sta seduta sulla veranda della sua abitazione con lo sguardo perso nel vuoto, ella schiaccia una coccinella che le stava percorrendo la gamba destra, e la colloca nella tela del ragno senza esprimere le sue emozioni, avvolta da un plumbeo silenzio. La “ragazza dell'inferno” non può fare giustizia, ma soltanto vendicare; partecipa alla sofferenza altrui senza intervenire e senza giudicare, lasciando che le cose compiano il loro naturale corso. La sua voce è candida e pacata, ma allo stesso tempo cupa e di ghiaccio. Le parole che ne escono sono taglienti come stilettate di rasoio, e si susseguono l'un l'altra attraverso incolmabili silenzi, che trasmettono ai più sensibili l'estrema solitudine che affligge l'animo della protagonista, il cui tormentoso passato viene rivelato negli ultimi tre episodi della serie – soltanto in questa occasione Enma Ai perderà la sua imparzialità e si accanirà contro un determinato personaggio, cercando di condurlo alla follia per poter vendicarsi, fatto che la metterà allo stesso livello dei malcapitati che in precedenza traghettava all'inferno. 
 

Dall'ottavo episodio in poi, a fare da contraltare al carisma maledetto della suddetta piccola tenebrosa, compare un giornalista di nome Hajime Shibata, che incomincia ad indagare sulla Jigoku Tsūshin grazie alle visioni della figlioletta Tsugumi; questo piccolo nucleo familiare appare molte volte nel corso della serie, sino alle rivelazioni del finale, che spostano il rapporto dei due con Enma Ai su una dimensione karmico/atavica dall'aria di vetro. Hajime, dal canto suo, nonostante le apparenze, si rivela un personaggio molto complesso e realistico, nonché pieno di contraddizioni: il suo biasimo per l'operato della Jigoku Tsūshin supera una dura prova nel momento in cui egli si ritrova nel bel mezzo di un'amara vendetta inerente una situazione molto simile al suo passato, nel quale i semi del dolore derivanti dal tradimento erano germogliati in cuor suo allo stesso modo della persona intenzionata a tirare il filo rosso lì, nel presente, da lui vista con lo sguardo distorto da una superiorità morale fittizia ed incerta. D'altro canto, Tsugumi, nonostante la sua giovanissima età, dimostra una grande maturità e si prende cura del padre, disapprovando tuttavia le sue idee sull'attività di Enma Ai, che reputa moralmente accettabile – «e se fossi io a venire uccisa? Tu cosa faresti, papà? Non mi vendicheresti?»


Molti episodi dell'opera, nonostante il poco tempo a disposizione degli sceneggiatori per caratterizzare i personaggi e sviluppare le vicende, si rivelano dei piccoli capolavori dalla grande empatia. Si pensi al dodicesimo episodio, “Cocci Rovesciati”, nel quale si assiste ad un doppio suicidio rituale (shinjuu) tipico di molta letteratura giapponese del passato, in particolare delle opere teatrali di Chikumasu Monzaemon – aggiornato secondo i dettami del nostro tempo. E' la storia malinconica e sofferta di una ragazzina hikikomori, che ha deciso di alzare le barricate intorno al suo essere, rinunciando al contatto diretto con il prossimo che le crea disagio, e del suo professore, che ha perso la voglia di vivere. L'unico modo di comunicare dei due è internet, che d'altronde è altresì il non-luogo in cui è possibile invocare la Jigoku Tsūshin - “serial experiments lain” insegna: paradossalmente, la realtà virtuale diventa più reale della realtà stessa, sopratutto dal punto di vista comunicativo.


Il lato negativo – sempre se in un contesto privo di finalismo sia lecito parlare di “bene” e “male” - dell'operato di Enma Ai viene rappresentato nel ventitreesimo episodio, “La Luce dell'Ospedale”, nel quale a finire all'inferno non è un individuo dal «karma peccaminoso», ma una donna innocente e gentile, una semplice infermiera amata e apprezzata da tutti. A tirare il filo rosso questa volta è stato un uomo sconosciuto, un disadattato dal ghigno malefico che non esita a togliersi la vita una volta compiuto il suo insensato gesto estremo. Insensatezza ribadita dalla scelta degli autori di non rivelare le ragioni di una tale, inutile tragedia, che rimane impressa nella memoria come un breve corollario dell'umana follia.


Splendido, veramente splendido, il tredicesimo episodio, “La Vergine del Purgatorio”, nel quale Hajime s'imbatte in un antico libro illustrato che pare essere correlato alla Jigoku Tsūshin; grazie ad un incontro col capo editore del tomo, il giornalista risale a Fukumoto, un vecchio illustratore ossessionato da Enma Ai che da moltissimi anni ha detto di no alla vita, chiudendosi nel suo dolore a ritrarre sulle mura del suo appartamento il triste e delicato volto della ragazzina con la quale aveva stipulato un patto infernale nell'immediato dopoguerra. La scena che conclude l'episodio è pregna di un marcato lirismo poetico quanto mai giapponese nella sostanza: l'uggia derivante dai traumi passati, l'assenza di futuro e speranza – quando l'ultimo respiro verrà esalato, ci sarà l'inferno -, Enma Ai che si fa carico di morte e rinascita, come l'eterno femminino, che tuttavia scompare nell'ignoto, negli abissi della memoria. Il rifugio nell'arte.


E poi c'è la “Sposa Bambola” tenuta perennemente sotto scacco della suocera, famosa e ricca artigiana ossessionata dai feticci, dagli oggetti, dalla loro bellezza immune al mutamento. Nel diciannovesimo episodio di “Jigoku Shoujo”, filosofia e critica al sistema familiare giapponese si fondono: se da un lato la moglie-oggetto è costretta dal nucleo familiare di cui è l'ultima arrivata a rinunciare alla sua individualità, dall'altro, invece, viene ripercorso il dramma umano della fuga dall'impermanenza delle cose – anche alle soglie degli inferi, la vecchia padrona di famiglia rimane in preda della sua ossessione per la bellezza immobile, proiettandola sul candido e severo volto di quella mortifera bambola-novella Caronte che ormai, impassibile, la sta traghettando all'inferno.

«Il vero inferno è dentro le persone.» [Enma Ai]

Parole che suonerebbero bene in bocca ad un Sartre, quelle della “ragazza dell'inferno”, nella loro franchezza, mettono in luce il ricorrente dilemma dell'identità tanto caro alla Nuova Animazione Seriale e al nichilismo postmoderno tipico di alcuni dei suoi rappresentanti. Le Malebolge dell'animo, ben lungi dall'essere collocate all'esterno dell'Io, fanno sì che il principale nemico dell'uomo sia l'uomo stesso, confuso e molestato dalle sue stesse irrazionali pulsioni, che vengono coadiuvate da mire egotistiche illusorie e meccaniche le quali, nella loro capziosa danza – non sempre conscia - si scombinano e ricombinano in molteplici maschere in contraddizione tra loro stesse, che delimitano l'essenza di un'identità che si crede congiunta quando invero non lo è, succube com'è di quell'infernale entropia interiore che brucia tutto ciò che trova lungo il suo cammino, culminando nella totale assenza di idealismi, coesione sociale e virtù – tre cose molto care alla cultura giapponese. Si pensi a “La Maschera in Frantumi”, il settimo episodio della serie, nel quale Ayaka, piccola aspirante attrice assetata di successo, compie ogni sorta di nefandezza e doppiogiochismo al fine di ottenere la parte di protagonista in uno spettacolo per il quale non ha alcun talento – lo spettacolo della vita, cogliendo l'allegoria insita nella vicenda. Il titolo della puntata è esemplare, un gravoso monito che trova compimento nel finale in cui, al cospetto di Enma Ai, la maschera da brava figlioletta non può più esistere, e ciò che rimane è soltanto il nulla.


Stilisticamente parlando, l'opera non si fa carico di grandi pretese dal punto di vista dell'horror stricto sensu, e preferisce assumere i connotati di quelle allegorie psicologiche e filosofiche tipiche del suo tempo. Ciò premesso, il grosso dell'azione “horrorifica” di “Jigoku Shoujo” avviene durante la vendetta dei vari personaggi, in cui i lacché di Enma Ai, assumendo varie, raccapriccianti forme grazie alla loro natura spiritica, tormentano i malcapitati di turno destinati all'inferno, facendo leva sulle loro nevrosi e complessi psicologici. I punti deboli di questa bellissima serie riguardano prevalentemente gli aspetti tecnici, penalizzati da animazioni low budget (molto probabilmente subappaltate presso qualche studio coreano o filippino), da alcuni cali qualitativi nel disegno e da una palette cromatica non sempre soddisfacente. La regia raggiunge molteplici picchi memorabili (la scena del dipinto che piange nel tredicesimo episodio è una delle più belle che abbia mai visto in un anime), ma fallisce nel preservare gli stessi standard di merito degli episodi meglio riusciti per tutta la durata della serie. L'unica puntata di “Jigoku Shoujo” che personalmente reputo debole e fuori luogo è la ventesima, “Jigoku Shoujo vs Jigoku Shounen”, una sorta di autoparodia pseudo-shounen da combattimento che non c'entra nulla, ma proprio nulla con l'atmosfera dell'opera, un piccolo gioiello dimenticato coadiuvato da una splendida colonna sonora dall'elevato impatto emozionale, che ne compensa i numerosi decifit visivi attraverso un'opportuna commistione di tristezza e inquietudine. Basta soltanto pensare alla bellissima sigla di chiusura, che con sua delicata eleganza - macchiata da un certo intento allegorico -, s'inserisce indelebilmente durante l'epilogo di ognuna delle vicende trattate, sottolineando lo stato d'animo di Enma Ai, che tra i fiori immobili, con i capelli al vento e lo sguardo fisso, sembra quasi che osservi il nostro mondo, un mondo ormai sprofondato nel baratro della malinconia.

«Tutto porta ad un punto morto, non c'è modo di sfuggirvi.
La mia tristezza vola come gli uccelli in cielo.
Questo mondo è effimero.
Sono obbligata a questa eterna sofferenza.
Volente o nolente.
E tutto ciò che resta, sono soltanto i sogni.»









 



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