mercoledì 8 dicembre 2021

Anna dai Capelli Rossi: Recensione 2.0

 Titolo originale: Akage no Anne
Regia: Takahata Isao
Soggetto: basato sull'omonimo romanzo di Lucy Maud Montgomery
Sceneggiatura: Takahata Isao
Character Design: Kondou Yoshifumi
Musiche: Miyoshi Akira, Kurodo Mouri
Studio: Nippon Animation
Formato: serie televisiva di 50 episodi
Anno di trasmissione: 1979
 

Se fosse ancora vivo, visionando Akage no Anne, e tenendo presente la fedeltà maniacale al romanzo originale della Montgomery che caratterizza la serie, verrebbe senz'altro da chiederglielo, dico a Takahata Isao - che all'epoca stava diventando un giovane padre -, se nella sua poetica e intellettualità sia stato influenzato da quel tipo di letteratura, o se l'abbia semplicemente utilizzata, facendola sua, per veicolare un messaggio vitalistico di grande impatto. A mio parere, in medio stat virtus, e l'opera in questione rimane forse la migliore storia di tensione e risoluzione mai vista in animazione. La "tensione" è ciò che deriva dall'animo ferito di Anne, orfana di entrambi i genitori e dal passato doloroso, che ritrova nella casa dai "Green Gables" (i timpani verdi) una nuova famiglia, formata dai fratelli Matthew e Marilla Cuthbert. A partire da questo evento vi sarà poi il suo percorso di crescita personale, narrato con la massima cura e delicatezza possibile, senza mai scadere nel melò. Il punto più tortuoso di tale cammino la spingerà poi a ricalibrare il tutto, compresa se stessa, per poi pacificarsi: God is in his Heaven, all right with the World. Questa citazione finale al Pippa Passes di Browning, nonostante il poeta fosse un del tutto sarcastico nel suo descrivere il pensiero di una giovane ragazza innocente transitata nei peggiori quartieri di Asolo (la solita critica al "migliore dei mondi possibili" di Leibniz a parer mio), per la Montgomery, così come per Takahata, ha invece valenza assoluta e simbolica: il mondo, e quindi la vita, vanno accettati per quello che realmente sono, con tutte le loro storture e durezze - "non devi fuggire!".
 

I dialoghi dell'anime ricalcano scrupolosamente quelli del primo romanzo (una su tutte: il Sou sa naa di Matthew, tanto caro ad Anno Hideaki, che lo mise sulla bocca dell'anziano macchinista di colore del Nautilus in Nadia ), scritto che nella sua prima edizione si apre con un'altra citazione a Browning:
 
Is it too late then, Evelyn Hope?
  What, your soul was pure and true,
The good stars met in your horoscope,
  Made you of spirit, fire and dew—

And, just because I was thrice as old
  And our paths in the world diverged so wide,
Each was nought to each, must I be told?
  We were fellow mortals, nought beside?
 
 
L'Evelyn Hope  mette in risalto una tematica che sarà poi fondamentale in Takahata, che essendo un intellettuale di spicco era molto informato sull'esistenzialismo: la vita è un confronto continuo con la Natura e le sue leggi, in particolare quella del caso, da qui l'essere in "balia delle stelle" ("concordo sul fatto che Dio possa essere piuttosto ingiusto talvolta" farà dire Takahata al venditore di cianfrusaglie nell'esilarante episodio in cui Anne si tinge i capelli di verde). Sicuramente viene in mente Marco, dacché nel suo Haha wo Tazunete Sanzen Ri il regista forniva forti spunti di empatizzazione con questo ragazzino che affrontava le difficoltà proprie dell'esistenza - dalla cattiveria umana alle monolotiche e incuranti Ande Argentine - per andare in cerca della madre. In Anne è tutto altresì molto chiaro: per la protagonista la vita è difficile, complici i suoi traumi interiori, dapprima curati con tonnellate di fantasie escapistiche, che fanno molto "strategie di sopravvivenza" alla Mawaru Penguindrum (chiamatemi Cordelia!), e in seguito con elevate ambizioni accademiche (l'ossessione per Gilbert Blythe, che la prendeva in giro da piccola per i tanto odiati capelli rossi, è del tutto proiettiva e frutto del disagio con sé stessa, disagio tipico delle persone in qualche modo ferite). D'altro canto, la sua "Bosom Friend" di buona famiglia Diana Barry è nata sotto una stella migliore, e nonostante l'affetto che c'è tra le due, quella a cui la vita sta andando avanti nel modo più semplice e lineare possibile non riuscirà mai veramente a capire la traumata e la sua corsa ad ostacoli. Lo dice la stessa Anne alla zia della sua amica, quando la prega di castigare lei anziché la sua "Bosom Friend": "sono stata così abituata ad avere persone arrabbiate con me che posso sopportare la cosa molto meglio di Diana!", e tutto ciò fa molta tenerezza. E su questo concetto di discomunicazione, nell'originale parlato in giapponese, Takahata mette molta enfasi, coadiuvando ovviamente il tutto con silenzi impercettibili, nonché gli sguardi interrogativi di Diana; il tutto senza mai trascurare insert song francesine à la Edith Piaf (cose già sentite, ma in versione meno leggera e più greve, in Hols e Heidi ).
 

L'incomprensione del dolore altrui è un tranello nel quale inizialmente cade anche Marilla, che nella sua metodicità abbisognerà di una spiegazione razionale (Anne le parla del suo passato) per poter prendere la decisione di adottare la piccola (i due fratelli erano inizialmente interessati ad un maschio per alleviare il carico di lavoro di Matthew nei campi). D'altro canto, il timido Matthew, uomo a suo modo infantile (nel suo contesto storico non si è mai sposato nonostante sia proprietario di terreni), empatizza subito con la piccola Anne, e  contrariamente a Marilla, la ama incondizionatamente fin dal principio. La figura di Matthew sarà quindi fondamentale nel fornire validazione alla piccola, che inizierà un percorso di crescita tortuoso, soprattutto a livello interiore, emancipandosi gradualmente dalle sue "narrazioni" personali riparative. La scena della fine del club di letteratura è fondamentale: come dice Diana ad Anne, "scrivevamo di amore, sogni, omicidi e di altre cose... ma ora è tutto finito!". Una volta avvenuta effettivamente la crescita, la finzione dovrebbe lasciare il posto alla realtà (tematica molto cara ad una persona come Takahata, che di fatto lavora utilizzando un medium nato come cosa infantile: l'animazione). Ciò detto, il regista è talmente attento ai dettagli che col passare delle puntate, anche la camera da letto di Anne cambia: quando lei diventa quattordicenne, quella stanza nel "timpano verde" si rivela molto elaborata e raffinata, con tanto di foto della maestra sulla scrivania a simboleggiare la volontà di crescere seguendo una strada incontaminata dal vizio (come anche Marilla insegna). I due fratelli alla fin fine si riveleranno una famiglia priva di disfunzionalità: Matthew farà ciò che deve fare un padre con la sua bambina, ossia fornirle un solido supporto emotivo privo di sbavature; dal canto suo Marilla le trasmetterà il suo codice morale, nonché la sua conoscenza in quanto donna (con il consiglio più importante a coronare il tutto: ossia quello di riallacciare i rapporti con Gilbert Blythe, pena una vita nel rimpianto).

 
Sicuramente, nel 1979, anno in cui andava in onda per la prima volta in Giappone Akage no Anne, che tra l'altro era il primo anno dell'anime boom, Takahata faceva vedere che "bisogna crescere". La necessità del pubblico otaku di quel periodo, che per sua natura era congelato in un'adolescenza senza fine (volendo citare il titolo di un libro di Saito Tamaki), era una narrativa drammaturgica, melodrammatica (Yamato, le lamette di rasoio inviate a Dezaki Osamu dalle fan di Berubara perché l'anime non era fedele al manga, Toward the Terra ecc.). Mi viene in mente Mustapha Mond di Brave New World che dice al "selvaggio": "certo, la felicità non è mai saliente come la tragedia". Invece Takahata, totalmente refrattario alla narrativa melodrammatica, mostra una ragazzina la cui stanza cambia nel corso del tempo - e non rimane sempre la stessa come la cameretta dell'otaku. La piccola per di più vuole giocare a fare Elaine di Astorat, ma la sua barchetta affonda ed ecco che deve intervenire Gilbert, il principio di realtà che la riporta, bagnata fradicia, a riva. Ovviamente quel gioco non verrà più ripetuto da Anne e dalle sue amiche: quello, così come infiniti altri episodi nell'odissea casareccia della protagonista, sono allusioni a quel principio universale che sancisce che il dolore (correttamente elaborato) induce alla crescita, e la crescita di per sé comporta dolore (il distacco dalle illusioni/narrazioni). D'altro canto, in una società dell'edonismo non vi è più crescita, e a ciò è correlato il rifiuto dell'esperienza del dolore, che verrà sublimato mediante l'intrattenimento, da quello melodrammatico fino ad arrivare alla mera pornografia sedativa. Tutto ciò era ben chiaro ad Anno Hideaki (si pensi a quanto da lui dichiarato nell'intervista di Pierre Giner del '97), che dal canto suo adorava Akage no Anne, e quella linea conduttrice di cui "persone ferite si risolvono" la prese come idea di partenza nella sua dichiarazione di intenti "Noi cosa stiamo cercando di creare?" risalente a poco prima della messa in onda della serie TV di Evangelion ["Sono tutti e due estremamente spaventati dal venire feriti. Tutti e due, come cosiddetti protagonisti della storia, difettando di positività, si direbbero inadeguati... Si dichiara che "continuare a vivere è continuare a cambiare" ]. Nella mente del regista, l'opera di cui tanto si è parlato dal '95 a oggi doveva in origine essere un God is in his Heaven, all right with the World  MarkII, molto probabilmente positivo e pieno di speranza, con la stessa ingenuità di vitalistica serenità intesa dalla Montgomery. Tutto ciò soprassedendo sull'ovvietà citazionistica del logo della Nerv


Chiudendo la necessaria parentesi sociologica e ritornando all'opera in sé, personalmente mi ha molto colpito come Takahata abbia messo in scena la morte. Se la sofferenza derivante dalla vita all'orfanotrofio di Anne veniva impressa nell'inconscio dello spettatore mediante veloci flashback cupissimi che facevano da contrasto con le bellezze naturali di Avolnea, la morte invece viene rappresentata nel suo aspetto più naturale, e quindi mostruoso dal punto di vista umano: chi prima c'era poi semplicemente non c'è più, e la vita in sé stessa continua ad andare avanti incurante della cosa. Tutto continua a scorrere allo stesso modo, sebbene vi sia quella sensazione di ritorno al nulla, di perdita, che è terribile come la solitudine e il silenzio più assoluti. Penso che pochissime opere di finzione, incluse quelle cinematografiche, possano in qualche modo fornire una rappresentazione della morte lucida come quella di Takahata. Dal canto suo, parlando in generale, Akage no Anne è uno dei grandi capolavori dell'animazione seriale di tutti i tempi, ed è talmente perfetto (vuoi anche per il grande contributo dell'animatore/character designer  Kondou Yoshifumi, che in un certo senso ha "dato la vita per Takahata" morendo poi a 48 anni per il troppo lavoro) da risultare irreplicabile. Per concludere, le opere di Takahata sono talmente vitalistiche che, come la vita in sé stessa, mostrano cose diverse a seconda dell'età di chi le guarda. Per questo motivo, ogni recensione incentrata su un'opera di questo regista è in qualche modo incompleta a causa della visione ontologicamente parziale del recensore. Spero comunque di aver evidenziato in questa nuova versione del mio scritto i punti intellettualmente salienti di questa importante opera di Takahata/Montgomery: e poi chissà, quando sarò più vecchio forse potrò coglierne ulteriori dettagli a me per ora invisibili. 
 




2 commenti:

  1. Ogni singolo episodio di Akage no Anne è significativo. Però, ho visto di recente l’episodio 28. Trovo molto interessante come la figura di Marilla sia sociale ma allo stesso tempo incredibilmente privata. Sociale perchè è un po la faccia della "famiglia" visto che Matthew è leggermente disagiato e timido. Infatti ci tiene a fare in modo che Anne sia sempre presentabile ed educata. Allo stesso tempo, però, si rende conto che anche le persone che sembrano a lei affine in vedute sono alla fine diverse. Tutti danno i vestiti eleganti alle bimbe ma lei ci tiene a tenere Anne sobria. E la cosa INCREDIBILE è che è proprio Matthew a voler rendere Anne come le altre--sociale-- e non Marilla regalandogli un vestito alla moda. MA Marilla stessa alla fine cede, confidandosi in privato ma NON davanti ad Anne (e già questo è minuziosamente significativo), perchè troppo affezionata ad Anne. Poi, squisito il fatto che è l'occhio maschio di Matthew a notare la differenza in abbigliamento tra Anne e le ragazze e che ci abbia dovuto pensare per un giorno intero! Un po come connettersi con quel suo senso primordiale e sessuale che a volte si scorda di avere.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sì, la cosa è particolare perché di solito è la femmina a sentire maggiormente la pressione sociale per istinto di conservazione. Marilla d'altro canto la trovo con un forte imprinting religioso: non so se sia protestante o no, ma comunque Gesù Cristo predicava che non bisogna badare a come ci si veste.

      Matthew ama molto profondamente Anne e a me ha colpito molto quando le dice, una volta che lei è cresciuta, che deve conservare un minimo di romanticismo nell'età adulta. E' davvero un "padre" molto affettuoso e comprensivo.

      Elimina