giovedì 17 agosto 2023

Le Sorelle Soffici: Recensione & Riflessioni



Premetto che questo libro è arrivato in semifinale al premio Calvino e che è stato osannato dalla critica alla sua uscita. L'autore inoltre ha vinto il concorso Neri Pozza con un omaggio al defunto Daniele Del Giudice (non me ne intendo di letteratura italiana quindi non so chi sia questo Del Giudice, ma pare sia stato uno importante). Alla luce di ciò, scrivendo che secondo me "Le Sorelle Soffici" è una boiata pazzesca, in qualche modo mi espongo; oppure, nondimeno, rischio di fare la figura del rosicone o quant'altro. Non è questa la mia intenzione: non m'interessa di critici, salotti letterari e premi altolocati vari (mi ricordo ad esempio che Andrea De Carlo, uno dei migliori scrittori italiani del suo tempo, scatenò una grande polemica dimettendosi dalla giuria di uno di questi ultimi). Fatto quindi salvo che ciò che scrivo sia soltanto frutto della mia serenissima opinione, il libro, narrato in prima persona dalla figlia malata di mente di un ipotetico industriale, un ricco così potente da avere legami diretti con la politica e da risentire di tangentopoli, sembra voler denunziare la cattiveria umana e l'egoismo eccetera eccetera, e rappresentare le "strategie di sopravvivenza" di questa giovane ragazza che si rifugia dalla fantasia per fuggire dalla realtà. L'idea di base penso che sia molto buona, il problema è come viene attuata; il finale nondimeno è pessimo. Il libro è molto breve e sembra quasi un abbozzo di un romanzo vero e proprio (scrivere "abbozzi" di romanzi è un problema comune alla maggiorparte della letteratura italiana contemporanea, ma di questa tendenza ne discuterò più avanti). Lo stile di scrittura è buono ma ricorda molto quello di altri libri tipo "La Solitudine dei Numeri Primi" o "L'Arminauta", ossia i libri editati (o ghost writati, non saprei) da Raffaella Lops, la moglie di Paolo Giordano. La Lops infatti viene citata molto calorosamente nella pagina dei ringraziamenti del libro. 


Abbiamo quindi questa loli kawaisou, Veronica Soffice, che narra le vicende, vere o false che siano, in prima persona. Ogni tanto si spoglia (si percepisce un certo retrogusto lolicon nel racconto e comunque, a mio avviso, un autore maschio che racconta dalla prospettiva di una ragazzina è molto kitsch, per non dire fetish ); spesso s'inventa di parlare con una sorella che in realtà è morta, nonché con scrittori defunti che fanno brevi comparsate casuali senza aggiungere alcuna riflessione né arricchimento alla "trama". La nonna, pure lei defunta (?), viene re-immaginata come novella Baba-Jaga eccetera eccetera. Quando il padre industriale muore arriva il Gomblottista 1!111!!11!, tale medico cattivo e ovviamente pedofilo (mi pare che in una scena/metafora si seghi su una foto della sorella immaginaria di Veronica), che trama per prendersi l'eredità in combutta con lo psichiatra, che anzi di dichiarare incapace di intendere e volere una ragazzina appena maggiorenne imbottita di psicofarmaci, che si piscia addosso e non supererebbe nemmeno il test di realtà che fanno gli psichiatri alla prima seduta, decide di farla passare per sana, in modo tale che il cattivo possa farla sposare con un suo accolito. In casa a  un certo punto arriva pure un alias di Bettino Craxi, che stringe la mano alla fanciulla facendola andare in stato catatonico con la sua energia negativa, manco fosse Rasputin o un signore dei Sith. Il tutto ovviamente in modo abbastanza confusionario e ovattato, quasi come se l'autore volesse in qualche modo mettersi al riparo da eventuali critiche di stampo politico attraverso il suo stesso stile di scrittura (non credo che si vincano i premi esponendosi politicamente). L'importante comunque è far passare il messaggio che negli anni novanta si facevano cose losche, c'erano i cattivi e le bambine soffrivano. Insomma, un libretto di Geronimo Stilton. Si capisce che l'autore non abbia mai veramente frequentato certi ambienti dell'alta borghesia industriale e non abbia mai avuto a che fare con psichiatri o giovani ragazze con problemi mentali. Fosse stata una semplice fiaba senza pretese di raccontare determinate realtà della vita, Le Sorelle Soffici, almeno ai miei occhi, avrebbe fatto una figura migliore. Così invece è la bruttissima copia di un manga di Mohiro Kitoh, un raccontino-ino-ino salvato soltanto da rari momenti di poesia che emergono da un caos narrativo che pur essendo voluto, talvolta sembra scappi di mano persino all'autore stesso, che deve gestire una marea di personaggi in un andirivieni di dialoghi, monologhi e descrizioni di luoghi e allucinazioni, cosa che può fare con disinvoltura un Gabriel Garcia Marquez, ma non di certo un quasi-esordiente, per quanto bravo e ambizioso che sia. Infatti, ad esempio, vengono man mano introdotti nuovi nomi di persone come se fossero scontati, e questo genera ulteriore entropia. Inoltre la struttura a diario, sempre a mio parere, è un escamotage per camuffare le falle della narrazione (o non-narrazione che dir si voglia). 


Volendo anche tralasciare quanto scritto sopra, il grande problema concettuale del libro, almeno secondo il mio modesto parere, è il finale, che invalida tutta la "storia", sempre se ciò che l'autore voleva far passare, tra le tante cose buttate lì in pentola, fosse una roba sulla crescita e sulla caduta delle "strategie di sopravvivenza" infantili (che poi sono proprio loro quelle che inducono la psicosi, non di certo la realtà: la realtà è neutra, la cattiveria umana è neutra). Sembra quasi che il messaggio che passi è che fuggire dalla vita sia una cosa fattibile, che tanto i grandi son cattivi, cattivi rimarranno e vaffanculo, viva le rori. No. Questo secondo me è un messaggio diseducativo (sempre se l'ho interpretato nella corretta maniera). A prescindere da ciò, mi sorge comunque un dubbio su tale direzione narrativa, così come sulla natura stessa di questo genere di "abbozzi" di romanzi. Queste due fenomenologie letterarie contemporanee, indipendentemente dall'opera analizzata/recensita, per me son legate: c'è un nesso tra il fatto che non si scrivano più vere storie, veri "romanzi", e che l'elogio dell'escapismo sia una cosa sempre più diffusa nella narrativa. Prima di tutto, cos'è il romanzo nella postmodernità? Che senso ha scrivere romanzi nell'epoca attuale, in cui tutti si tirano i segoni sui porno, giocano con gli smartphone e guardano Netflix? La gente vive realmente o vive nella finzione? Vivendo nella finzione, per forza di cosa si vuole far passare il messaggio che vivere nella finzione sia bello, perché non si conosce alcunché al di fuori di essa: non si è mai vissuto. Melville ha scritto un capolavoro dell'umanità perché lui sulla baleniera c'è andato veramente. Idem Céline, lui in guerra, a lavorare alla Ford e a curare i morti di fame senza beccare un quattrino c'è andato veramente. Forse al giorno d'oggi i libri veri sono quelli che parlano di disagio psicologico di tipo autobiografico, dato che in un mondo di illusioni in cui nessuno è realmente vivo non resta altro che impazzire. Libri tipo che ne so, quello di Federica Ooyen, che dallo psichiatra c'è andata sul serio (e non è una lettura piacevole da fare, sebbene l'onestà dell'autrice sia stata ripagata con moltissimi pareri entusiastici su Amazon). 


Perché sì, la scrittura è autoterapia. Lo scrittore è uno che vive molto intensamente, rimane scottato, e allora rimette a posto i cocci rotti dentro di sé mediante la sua arte. Se uno non vive, secondo me non è un vero scrittore. Il successo poi non deve interessare allo scrittore: lo scrittore è un uomo al servizio della vita, non al servizio degli altri uomini. Non si può scrivere un libro adattandosi a quello che vuole leggere un determinato tipo di pubblico o un determinato tipo di giuria concorsuale. Allo scrittore interessa che magari il suo libro faccia stare meglio qualcun altro con il suo stesso problema. Tanto non si guadagna comunque niente dalla scrittura, soprattutto nel 2023. La cosa che reputo veramente oscena, in conclusione, è che tutt'ora si forzino certi paragoni ormai impossibili, tipo che ne so, "il libro del nuovo Hemingway", "il nuovo Italo Calvino è tra noi". No, no, no. Vi state sbagliando. Quella gente lì viveva veramente, si sporcava le mani (lol su Calvino che respinge aspramente Morselli e quello si suicida, si suicida davvero, sparandosi in testa! E nessuno ricorda mai 'sto fatto). Insomma, erano altri tempi. Non esisteva il politicamente corretto, non c'erano gli smartphone e così via. Quindi per forza di cose si viveva di più, le vite delle persone erano più intense e reali (e quindi si leggeva e scriveva di più, e tutti leggevano, non soltanto i borghesi venuti su negli anni settanta in cerca di consensi socio-politici). Non si può quindi paragonare un periodo di fertilità a un periodo di irreversibile carestia. E' troppo ingiusto per tutti, soprattutto per gli autori, che rischiano di cadere nelle trappole del solipsismo e del narcisismo, due degenerazioni umane fin troppo attuali. 

9 commenti:

  1. "La gente vive realmente o vive nella finzione?"
    Mi vengono in mente le visual novel che ho letto e il tentativo di "sentire" o "percepire" la "sofferenza" del protagonista in opere come "Steins Gate" o "Kara no Shoujo".Cercare di "vivere" una "tragedia"/"dramma" in un ambiente controllato e artificiale ma senza sofferenza reale.

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    1. "Cercare di "vivere" una "tragedia"/"dramma" in un ambiente controllato e artificiale ma senza sofferenza reale"

      E questo è Brave New World di Huxley direi, che ha anticipato di gran lunga la direzione che sta prendendo la società attuale.

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  2. Questa tua nuova stroncatura mi ha fatto tornare in mente quando grazie alla tua precedente (di "Spatriati") avevo colto l'occasione di un incontro con l'autore: si trattava di un evento di una serie organizzata dal Centro manoscritti dell'UNIPV, in cui le discussioni erano solitamente centrate sulle abitudini e le tecniche di lavoro di scrittori/trici -- quale rapporto avevano con la scrittura a mano o con quella a computer, attraverso quanti e quali abbozzi e riscritture si passava dalle prime idee al romanzo finale. Direi che si cercava di tracciare una continuità nel senso del "labor limae" tra gli scrittori italiani del Novecento e i contemporanei, e di solito i/le partecipanti (ero andato a un altro paio di incontri) rispondevano bene a questo stimolo. Era comunque gente che aveva dei cumuli di "compuscritti"/manoscritti di bozza da donare al centro, quindi c'era una buona selezione alla fonte :D
    Nel caso di "Spatriati" non si era parlato molto della trama del romanzo a parte qualcosina sul tema generale, quindi non avevo potuto confrontare le tue critiche. Probabilmente anche in questo caso farò fatica a farmi un'idea del romanzo, visto che le campane contrarie non avranno la tua stessa chiarezza...!
    (Personalmente concordo con l'opinione dell'autore che ti sembra di ravvisare, cioè che negli anni '90 si facessero "le cose brutte": aggiungiamoci i 2000, e secondo me nei 2010 si sono fatte cose migliori. Proprio perché basate sul non aver vissuto - o almeno non abbastanza - tali periodi, le mie opinioni a proposito sono abbastanza immutabili...) Ciao!

    P.S. Ne sai senza dubbio più di me sulla letteratura italiana contemporanea comunque: non ho capito la frase sul "vincere il concorso Neri Pozza con un omaggio a un autore defunto" e altri nomi mi sono sconosciuti...

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    1. Ciao *lui*

      "Probabilmente anche in questo caso farò fatica a farmi un'idea del romanzo, visto che le campane contrarie non avranno la tua stessa chiarezza...!"

      Molte recensioni su Amazon mi sembrava concordassero con la mia analisi. Resta cmq uno dei tanti "manga a loro stessa insaputa" della letteratura italiana contemporeanea.

      BTW, Il concorso Neri Pozza e il Premio Calvino sono i due principali premi italiani per gli esordienti. Il primo è gratuito e il secondo è a pagamento (bisogna sganciare 100 euro a submission). Se si vincono o si arriva tra i finalisti di solito si viene pubblicati.

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    2. Ah, bene, abbiamo una coscienza critica diffusa :D
      Non mi era chiaro il fatto che l'opera proposta fosse definita solo "un omaggio a un autore defunto".

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    3. La letteratura italiana che vogliono far passare per altolocata va avanti di omaggi di omaggi di omaggi al passato. Anche nel fumetto mi hanno detto che funziona abbastanza così. Nel libro cmq l'autore parla della sua corrispondenza con 'sto Del Giudice prima che morisse e lo omaggia interfacciandosi con i personaggi dei suoi libri.

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  3. Scusami il secondo commento ozioso:
    "Che senso ha scrivere romanzi nell'epoca attuale?"
    Dalla mia nulla autorità e con la grossa possibilità di scrivere una stupidaggine, ho l'impressione che tu abbia dimenticato una possibilità dell'espressività contemporanea: parlare di minuzie e/o esprimere banalità con il massimo trasporto emozionale e autentica convinzione. Se si riuscisse a elaborare e interpretare questo sentimento, ho l'impressione che ne verrebbe fuori qualcosa di valido e di realmente corrispondente alla contemporaneità del "Primo Mondo" (appunto si tratterebbe di parlare dei "First World Problems", cit.). Ciao di nuovo.

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    1. "parlare di minuzie e/o esprimere banalità con il massimo trasporto emozionale e autentica convinzione"

      Quindi scrivere manga shounen e spacciarli per capolavori della letteratura autoctona. CI siamo già secondo me.

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    2. Effettivamente se si vuole una dimensione di romanzo il risultato potrebbe essere quello.

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