Ora che ho formalmente ottenuto il mio PhD in Fisica, proprio nel bel mezzo di una pandemia che sembra non finire mai, penso sia arrivato il momento di affrontare l'argomento "scienza" nel contesto consumistico di massa in cui viviamo. Perché sì, neanche l'accademia si è sottratta alle leggi della società liquida dei consumi. Anzi, vuoi forse per certi motivi ideologici (vedasi l'età anagrafica sessantottina dei professori ordinari), ne è stata addirittura l'avanguardia, una sorta di laboratorio sperimentale sia della precarietà esistenziale che della simulacrizzazione della cultura.
La cosa che più mi ha stupito quando ho iniziato il dottorato, è stata che gli articoli scientifici che producevo dovevano essere registrati in un archivio online nel quale venivano etichettati come "prodotti". Pertanto la scienza, che nel passato era considerata cosa nobile, così come la filosofia, diventava un "prodotto", come quelli dei supermercati. In questo grande archivio di dati, i lettori avrebbero potuto "consumare" tutta la scienza che volevano, così come si scelgono i prosciutti al bancone frigo del Carrefour. Ma per arrivare su di uno scaffale, un prodotto deve essere lavorato in un'industria: in una catena di montaggio fordista. Infatti la scienza attuale, che amo definire "postmoderna", è fatta a questo modo: per la maggiorparte, si produce una fitta quantità di articoli (scritti molto frettolosamente) che vanno a perfezionare modelli già esistenti. Almeno per quanto riguarda la fisica, il mio campo, la ricerca fondamentale (quella che vorrebbe sviluppare nuove teorie formali tipo la relatività di Einstein), anche se molti non lo dicono perché devono intercettare finanziamenti, è in un vicolo cieco. In pratica, anche qui vedo una sorta di fine della Storia.