martedì 27 dicembre 2016

Haibane Renmei: Intervista agli autori


Con molto piacere pubblico la traduzione in italiano dell'intervista a Yasuyuki Ueda e Yoshitoshi ABe contenuta del dvd americano dell'opera da me posseduto (appartenente alla collana “Anime Classics” della Geneon Universal). Ho scelto di non integrare la recensione già presente nel blog con i retroscena contenuti in questa intervista per non disturbare il nostro etereo admin Onizuka90, e perché la reputo abbastanza significativa - e divertente - nella sua interezza. Buona lettura.

martedì 20 dicembre 2016

Texhnolyze: Recensione

 Titolo originale: Texhnolyze
Regia: Hiroshi Hamasaki
Soggetto: Production 2nd (Yoshitoshi ABe, Yasuyuki Ueda)
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Yoshitoshi ABe (originale), Shigeo Akahori
Musiche: Reiichi Nakaido
Studio: Madhouse
Formato: serie televisiva di 22 episodi
Anno di trasmissione: 2003


«Dentro ogni persona vive un mostro che farebbe tremare dalla paura persino il suo ospite. Quelli che non furono in grado di sopprimere il proprio mostro furono esiliati in un purgatorio sotterraneo. Proprio lui nacque in quel purgatorio sotterraneo creato dall'uomo. Più di chiunque altro, ha amato e odiato il mostro dentro di lui. Assieme alla seconda madre, è giunto nel mondo di coloro che hanno esiliato la sua gente. Una volta arrivato lì, quel mondo e la sua gente stavano lentamente aspettando la loro morte. Il mondo in superficie era il mondo dei morti. Il genere umano, così come il mondo da lui creato, era ormai giunto al crepuscolo.»

E' un'insieme di sensazioni, “Texhnolyze”. Sensazioni dure, forti, viscerali. La morte del mondo, la perdita dell'umanità, lo smarrimento, la crescita e il ritrovamento di quanto perduto. Il nulla. Lo spirito. La materia. La carne, le lacrime e il sangue, che si fondono in un triste gioco di corrispondenze poetiche, malinconiche e allo stesso tempo feroci. Lo sguardo fisso di Ran, spettrale ragazzina che osserva impassibile il tutto, comunicando con la voce della città sotterranea, Lux, l'ultima roccaforte del genere umano, l'ultimo posto in cui l'umanità può ancora cercare un motivo per esistere, anche se ormai, all'infuori del dolore e della perdita, nulla le è più concesso. L'alternativa è il mondo dei morti, quello in superficie, in cui ogni cosa è sempre uguale a sé stessa, monotona, priva d'iniziativa, passione e desiderio. E' il mondo asettico dell'oggidì, con tutta la sua vuotezza spirituale? Oppure è l'estrema sintesi dell'umana condizione, una farsa che trova la sua dignità soltanto nell'elevarsi a tragedia? 

venerdì 25 novembre 2016

La postmodernità: considerazioni e spunti di riflessione



«E così sei tornato, farabutto, ficcanaso che non sei altro? Vuoi tornare ad affliggerci e tormentarci, desideri ancora esporre i nostri corpi ai pericoli e costringere i nostri cuori a prendere sempre nuove decisioni? Com'ero felice; potevo sguazzare nel fango e crogiolarmi al sole; potevo trangugiare e ingozzarmi, grugnire e stridere, ed ero libero da pensieri e dubbi: “Che devo fare, questo o quello?”. Perché sei tornato? Per rigettarmi nell'odiosa vita che conducevo prima?» [Elpenoro si rivolge a Ulisse dopo la sua liberazione dall'incantesimo di Circe]

Spesso, nei miei scritti, utilizzo molte volte il termine “postmodernità”, un nome “totalizzante” che di fatto serve ad etichettare l'assetto sociale tipico del mondo occidentale, soggetto al modello capitalistico e consumistico esportato dagli Stati Uniti in (quasi) tutto in mondo industrializzato. Ma che cos'è precisamente questa “postmodernità”? Che caratteristiche ha? Questo dossier ha lo scopo di chiarire ai miei lettori e alle mie lettrici cosa effettivamente essa sia, sperando che questi ultimi, dopo averlo letto, non soltanto comprenderanno meglio cosa intendo dire quando parlo di “bambini vecchio”, “animalizzazione”, “simulacri” et similia, ma che si facciano altresì un'idea ben più chiara del mondo in cui vivono e della sua confusionarietà ed insensatezza, sperando che, nel loro piccolo, possano migliorare il loro stile di vita grazie ad una certa presa di coscienza, rendendolo meno disumano. Fatta questa premessa, ho reso la bibliografia del dossier molto corposa al fine di fornire numerosi strumenti di comprensione e approfondimento a chi legge: in essa troverete tutti i testi che vi servono per acquisire consapevolezza della famigerata condizione postmoderna nella quale siete vostro malgrado invischiati. Buona lettura. 

sabato 12 novembre 2016

Wet Moon: Recensione

Titolo originale: Wet Moon
Storia: Atsushi Kaneko
Disegni: Atsushi Kaneko
Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: Star Comics
Volumi: 3
Data di uscita: 2011


«Ehi, ascoltami... che aspetto pensi che abbia il lato nascosto della Luna? Nessuno può ancora saperne niente, e sono libera di dare sfogo alla mia immaginazione, no? Però... presto gli esseri umani andranno lassù. E a quel punto, questa mia libertà scomparirà di colpo.»
– Ruri –

Si definisce wet moon (“luna bagnata”) – in italiano nota come “luna a barchetta” – una particolare fase lunare in cui la falce illuminata si ritrova coricata sull’orizzonte con le due estremità protese verso l’alto, assumendo un aspetto simile a un ghigno beffardo. Come un freddo faro nella notte, la Luna si fa da sempre osservatrice esterna delle vicende dell’uomo, che – affascinato dalla sua argentea luce – nel corso dei secoli ha alimentato innumerevoli leggende e credenze popolari ad essa legate. Ed è proprio questo richiamo primordiale e inarrestabile che sta al centro di “Wet Moon”, cupo e onirico manga pubblicato a partire dal 2011 sulle pagine della rivista “Comic Beam” di Enterbrain, e firmato da uno degli autori contemporanei più eclettici e geniali del Sol levante: Atsushi Kaneko.

domenica 6 novembre 2016

Zettai Shounen: intervista agli autori e location hunting

 

"Zettai Shounen" è un anime a parer mio fondamentale nella storia dell'animazione di nicchia. Nonostante il suo status di titolo misconosciuto e dimenticato, la sua qualità intrinseca, le sue atmosfere tipicamente giapponesi, i messaggi e i contenuti di cui si fa carico lo rendono un piccolo capolavoro attualissimo e ricco di spunti di riflessione. Grazie alla gentilezza dell'amico Cristian "Garion-Oh" Giorgi, uno dei massimi esperti italiani di anime e manga, nonché traduttore GP Publishing/J-Pop/Magic Press e articolista Dynit, è ora possibile usufruire in questa sede della traduzione in italiano dell'intervista a Kazunori Ito (sceneggiatore dell'anime) e a Tomomi Mochizuki (regista dell'anime) rilasciata dalla rivista online Anime Style. A ciò, sempre in questo post e sempre grazie a Garion-Oh, allego due raccolte di fotografie delle location realmente esistenti in cui sono ambientati i due archi narrativi della storia: Tanna e Yokohama.

sabato 22 ottobre 2016

Strange Circus: Recensione

Titolo originale: Kimyō na Sākasu
Regia: Sion Sono
Soggetto: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Musiche: Sion Sono
Produttore: Sedic
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2005


«Ero stata condannata a morte fin dalla nascita. O forse... era mia madre a dover essere giustiziata e ci siamo scambiate di posto.»

Uscito nel 2005, "Strange Circus" rappresenta forse la piena maturità artistica di un Sion Sono sempre più elaborato e incisivo, che – lasciatosi alle spalle la critica sociale di "Suicide Club" e il nichilismo disperato di "Noriko's Dinner Table" – mette in scena un lucido e sfarzoso incubo a metà tra realtà e finzione, che scava con una perizia quasi lynchiana nelle pieghe nascoste dell'inconscio. Il film prende il via con il (meta)racconto della bella e algida Taeko, scrittrice di successo imprigionata su una sedia a rotelle; l'ultimo libro della donna racconta la cruda storia di Mitsuko, bambina violentata dal padre e costretta dallo stesso a spiare i genitori durante i loro atti sessuali, nascosta nella custodia di un violoncello. La bambina finisce così per attirare su di sé anche le gelosie della madre, figura nella quale si era sempre identificata, che comincia a picchiarla e a maltrattarla: questo fino a quando la piccola Mitsuko, per difendersi dalle percosse, spinge accidentalmente la donna giù dalle scale, uccidendola. È l'inizio di un'allucinante spirale di eventi, a cavallo tra passato, presente, realtà e sogno.

sabato 15 ottobre 2016

Boku wa Mari no Naka: Recensione

Titolo Originale: Boku wa Mari no Naka
Autore: Shuzo Oshimi
Tipologia: Seinen manga
Edizione Italiana: non disponibile
Volumi:9
 Data di uscita: 2012


Shuzo Oshimi è un poeta della quotidianità dell'oggidì, attento scrutatore del disagio giovanile e della vuotezza spirituale che ne è all'origine. La sua opera è una disamina dell'adolescenza, il periodo critico della vita, volendo anche quello più pericoloso, in cui ogni cosa è in via di definizione e la sostanza umana di chi lo vive, mutuata dall'infanzia, si deve scontrare col grigiore e la freddezza delle istituzioni, con le etichette, con un contesto che tende ad omologare ogni cosa al fine di preservare il suo – fragile - equilibrio. Oshimi è altresì un poeta della postmodernità; i suoi personaggi sono tanto banali quanto realistici, afflitti da un nichilismo giovanile imperturbabile e da una crisi di ruoli/identità il cui unico rimedio è la fuga. La fuga da sé stessi, la fuga dagli altri, la fuga dal passato. Non stupisce pertanto che il suo nuovo manga, “Boku wa Mari no Naka” - per gli inglesi "I'm inside Mari" e per i francesi "Dans l'intimité de Marie" – invero si tratti di una decostruzione del genere body swap comedy nella quale un hikikomori come tanti altri, tale Isao Komori, durante un regolare rituale di stalking, inspiegabilmente “diventa” la bellissima e inarrivabile Mari, la classica ragazza borghese in cima alla gerarchia sociale, quella che fino ad un momento prima era la concretizzazione di tutte le sue frustrazioni: purezza, perfezione, bellezza, consenso da parte dei più. La prospettiva pertanto viene ribaltata; poco importa che sia un hikikomori che scopre, nel corpo di una presunta ragazza-angelo, quanto falsa e precostruita sia quella che credeva un'esistenza priva di problematiche; o che una ragazza-angelo, una volta tolta la maschera, si riveli affetta della stessa patologia del suo disadattato “ospite”, che forse era rimasto sempre lì, dentro di lei, senza alcun transfert, dacché il vero problema era altrove, non tanto nei singoli individui, tutti intercambiabili tra loro e affetti dalle stesse patologie a prescindere dalla barriera della corporeità, ma nella non-sostanza e nel non-senso di un modo di vivere alienante e privo di punti di riferimento stabili. 

mercoledì 12 ottobre 2016

Cowboy Bebop: A review

Title: Cowboy Bebop
Directed by: Shinichirō Watanabe
Original concept: Hajime Hayate
Series story editor: Keiko Nobumoto
Original character design: Toshihiro Kawamoto
Mechanical designer: Kimitoshi Yamane
Music composed by: Yoko Kanno
A production of: SUNRISE INC. BANDAI VISUAL
Episodes: 26
Original run: April 3, 1998 – April 24, 1999


In the following article, I will be reviewing the anime series Cowboy Bebop, which can be classified as a postmodern space opera. Inspired by the innovative ideas of Osamu Dezaki's famous Space Adventure Cobra series, Cowboy Bebop will use them in two different ways in order to create its episodes. Firstly, it integrates them with brief, various explorations of different movie genres, stretching from comedy to hard boiled, from film noir to action movie or psychological thriller, with no disdain for a little cyberpunk touch. Secondly, they are amplified by the authors' vast store of knowledge on Western cinema and music. And here comes Cowboy Bebop, one of the most important Japanese anime series of the 1990s, whose appeal and success is to be found in its complex network of associations and quotes that resembles a mosaic, for you will need to have all the pieces to fully understand the picture.
Furthermore, it is worth mentioning that there is a recurring element in Shinichiro Watanabe's polyhedric work, coming from the Japanese folk legend Urashima Taro. Indeed, once we remove any postmodern element and reference to other anime, we can see remarkable analogies between the characters' complex personalities and background and the legend. Here Watanabe follows the steps of previous Japanese film directors who used the legend as metaphor of the phenomenology of postmodernity.

sabato 8 ottobre 2016

Aula alla deriva: Recensione

Titolo Originale: Hyouryuu Kyoshitsu
Autore: Kazuo Umezu
Tipologia: Shounen manga
Edizione Italiana: Hikari / 001 Edizioni
Volumi originali: 11
 Data di uscita: 1972


In Giappone, all'inizio degli anni settanta, la disfatta del sessantotto era dietro le porte, e ad essa si aggiungevano i numerosi disastri provocati dall'industrializzazione frenetica e incontrollata degli anni cinquanta e sessanta: la baia di Minimata e il fiume Agano erano avvelenati dal mercurio, il suolo della prefettura di Toyama dal cadmio e l'aria di Yokkaichi dal biossido di zolfo e dal biossido di azoto. Le innumerevoli intossicazioni riscontrate dagli abitanti di queste zone avevano mantenuto vivo nel subconscio collettivo giapponese il tetro ricordo delle malattie portate dalla radioattività nell'immediato dopobomba, e avevano altresì innescato un dibattito etico e giuridico che portò le autorità nipponiche ad alcune revisioni in materia legislativa atte a contenere l'inquinamento ambientale. In questo contesto, con il boom economico che svelava i suoi lati oscuri, lo spettro del ricordo dell'atomica e il caos politico derivante dal fallimento dei moti del sessantotto, nel 1972 la rivista Shounen Sunday pubblicava “Hyouryuu Kyoshitsu”, uno dei manga fondamentali del suo tempo - un anno dopo, quasi come se avesse voluto rispondere alla “sfida” della rivista rivale, Shounen Jump diede alle stampe un altro classico del fumetto giapponese post-apocalittico, l'iconico “Hadashi no Gen” di Keiji Nakazawa.
Vagamente ispirato al cupo “Lord of the Flies” di Golding, ma strettamente giapponese e allegorico nella sostanza, “Hyouryuu Kyoshitsu” narra la storia di Sho, studente delle elementari figlio del boom economico – e pertanto strettamente legato alla figura materna e pressoché privo di quella paterna, dacché all'epoca i padri di famiglia erano chiamati a sacrificarsi sul lavoro al fine di ricostruire un paese messo in ginocchio dalla WWII – il quale un giorno si ritrova teletrasportato, assieme a tutta la sua scuola, in un arido futuro in cui tutto ciò che rimane del genere umano è un tetro deserto color pece, colmo di raccapriccianti e minacciosi mostri. Nella scuola circondata dall'abisso tossico del nonsenso non ci sono più regole: spetterà ai bambini costruire una società partendo da zero, dapprima imponendo il razionamento delle scorte alimentari e la democrazia, e successivamente assistendo alla regressione di alcuni componenti del gruppo allo stadio primitivo, una delle tante divisioni interne che lacereranno una comunità allo sbando, succube degli allegorici orrori del dopoguerra i quali, giorno dopo giorno, si manifestano in tutta la loro violenza, proiettandosi indefinitamente in un futuro non troppo lontano nel quale ogni residuo di umanità è andato perduto.

sabato 1 ottobre 2016

Mind Game: Recensione

Titolo Originale: Mind Game
Regia: Masaaki Yuasa
Soggetto: Robin Nishi
Character Design: Yūichiro Sueyoshi
Direzione dell'animazione: Yūichiro Sueyoshi
Produzione: Eiko Tanaka
Musiche: Seiichi Yamamoto
Studio: Studio 4°C
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2004


Era il 2004 quando un titolo passato quasi in sordina in patria, diretto da un regista di mezz'età sconosciuto ai più, fece le sue prime apparizioni nei festival nazionali. Come un vero e proprio pugno in faccia, il film sconvolse fin nelle fondamenta il cinema d'animazione giapponese: distanziandosi dagli ormai abusati tòpoi che monopolizzavano il mercato, l'allora trentanovenne Masaaki Yuasa (questo il nome del regista) e i produttori del vulcanico Studio 4°C decisero di calcare con forza il pedale dell'originalità, mettendo totalmente da parte la logica delle vendite per consegnare alla storia un prodotto quantomai anarchico, unico e irripetibile, fondamentalmente diverso da qualsiasi altra opera fosse stata concepita in precedenza. Trasposizione dell'omonimo manga semi-autobiografico di Robin Nishi, serializzato sulle pagine di "Comic Are!" di Magazine House, "Mind Game" si dimostra fin dai primi fotogrammi un vero e proprio esperimento visionario e anticonvenzionale, capace di amalgamare codici e correnti artistiche differenti – tra cui psichedelia, pop art, surrealismo, avant-garde e materiale live action – come nessun altro lungometraggio cinematografico aveva mai osato prima. Il risultato è un'opera che al momento dell'uscita fu ovviamente ignorata dalle masse, ma che pervenne quasi subito allo status di cult movie celebrato parimenti da critica nazionale e internazionale, persino nei circuiti che fino ad allora avevano bellamente ignorato l'animazione giapponese: il film fu lodato apertamente da mostri sacri dell'industria occidentale come Bill Plympton ("Idiots and Angels") e ottenne diverse candidature a rassegne di grande prestigio, arrivando a vincere il Grand Prize al Japan Media Arts Festival (superando, tra gli altri concorrenti, "Il castello errante di Howl") e ben cinque premi al Fantasia International Film Festival di Montréal, tra cui miglior film, regista e sceneggiatura. La stessa Madhouse, del tutto estranea alla produzione dell'opera, fu colta da un tale entusiasmo nei suoi confronti che si mise a promuovere la pellicola a spese proprie; difatti non è un caso che quasi tutti i lavori successivi del regista – tra cui i celebratissimi "Kaiba" e "The Tatami Galaxy" – saranno prodotti e realizzati dal noto studio d'animazione fondato da Masao Maruyama.

sabato 24 settembre 2016

Suicide Club: Recensione del film

Titolo originale: Jisatsu Sākuru
Regia: Sion Sono
Soggetto: Sion Sono
Sceneggiatura: Sion Sono
Musiche: Tomoki Hasegawa
Casa di produzione: For Peace Co. Ltd., Omega Project
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 2001


Tōkyō, primi anni Duemila. Una squadra speciale della polizia indaga su una tendenza che sta prendendo piede negli ultimi tempi tra i giovani Giapponesi: quella di mettere in atto dei veri e propri suicidi di massa, in cui nutriti gruppi di adolescenti si tolgono la vita con una sconcertante quanto agghiacciante indifferenza, nelle modalità e nei luoghi più disparati. Credendo che dietro a tutto ciò ci sia un vero e proprio culto istigatore, il detective Kurada – indirizzato da una ragazza nota sulle community online con il nickname di Kōmori ("Pipistrello") – inizia a seguire la pista di un misterioso sito internet che riporta quotidianamente il numero delle vittime; nel frattempo un nuovo gruppo j-pop composto da cinque ragazzine inizia a fare le sue prime apparizioni televisive, riscontrando in tutto il Giappone un successo clamoroso.

sabato 17 settembre 2016

Malice@Doll: Recensione

Titolo originale: Malice@Doll
Regia: Keitaro Motonaga
Soggetto & sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Shinobu Nishioka
Visual Concept: Yasuhiro Moriki
Musiche: Y-Project
Studio: Arts Magic
Formato: serie OVA di 3 episodi
Anni di uscita: 2001


La razza umana si è estinta. Ciò che rimane di essa sono le sue creazioni, in particolare uno squallido quartiere a luci rosse in cui delle prostitute robotiche vanno alla ricerca di clienti senza mai trovarli – in fondo, proprio a tal fine sono state programmate. Malice, bambola sessuale che si è guastata – le è uscita della colla da un occhio, che è andata a formare un'indelebile lacrima -, un giorno, mentre si reca dal robot adibito alle riparazioni, incontra una bambina fantasma, che la conduce nei meandri del sottosuolo per farla violentare da una gigantesca maschera dotata di tentacoli. Quando Malice si risveglia è diventata umana, e in più ha guadagnato un potere rivoluzionario: baciando i suoi colleghi androidi – «ti darò un bacio, è l'unica cosa che so fare» -, può infondere loro la vita, facendoli diventare degli esseri di carne e sangue. Ma mentre Malice in versione umana è perfetta, le “vittime” del suo bacio diventano delle mostruosità aberranti, grottesche e insensate. Era questa la sostanza dell'umanità che in passato popolò il mondo? Amore significa anche mutamento, perdita del sé e, in ultima sintesi, morte? Che rapporto c'è tra corpo e spirito? E tra sogno e realtà? Di certo, una mera macchina non può saperlo. Non può comprendere.

sabato 10 settembre 2016

Zettai Shounen: Recensione

Titolo originale: Zettai Shounen
Regia: Tomomi Mochizuki
Soggetto: Ajia-do, Genco, Kazunori Ito, Sogou Vision, Toys Works
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Character Design: Masayuki Sekine
Musiche: Hikaru Nanase
Studio: Ajia-do, Genco
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anno di trasmissione: 2005


«E’ dentro noi un fanciullino che non solo ha brividi, […] ma lagrime ancora e tripudi suoi. […] Noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena meraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello. Il quale tintinnio segreto noi non udiamo distinto nell’età giovanile forse così come nell’età matura, perchè in quella occupati a litigare e perorare la causa della nostra vita, meno badiamo a quell’angolo d’anima donde esso risuona.» [Giovanni Pascoli]

Ayumu Aizawa è un adolescente introverso, apatico e di poche parole, che durante l'estate si reca dal padre, che risiede in una piccola cittadina di campagna. Mentre vaga senza meta per le strade di un luogo privo di attrattive, egli incontra Miku, una bambina che parla e ragiona come un'adulta, la quale lo invita a cercagli il suo amico scomparso, Wakkun.
Per caso, in un giorno apparentemente noioso e ordinario come tanti altri, finalmente Ayumu incontra Wakkun, ma quest'ultimo, ben lungi dall'essere un bambino in carne ed ossa, si tratta di una sorta di Zashiki-warashi con gli stessi abiti e le stesse sembianze che Ayumu aveva in tenera età. Wakkun interagisce con alcuni strani yokai che paiono più degli UFO che delle creature del folklore giapponese, delle “fate materiali” le quali, all'occorrenza, da bizzarri oggetti meccanici luminosi si trasformano in bolle di energia che vagano per l'aria allo stesso modo del polline. Come se da questo incontro Ayumu avesse recuperato un frammento smarrito della sua anima, egli si reca assieme al sé stesso bambino a giocare nel bosco, ammirando la semplicità della natura e delle cose, senza pretesa alcuna. Ma dopo questo evento, in città incominciano a diffondersi voci indiscrete, secondo le quali dei kappa sono apparsi in un ambiente ormai violato dalla precarietà del misterioso e dell'inaccessibile. La giornalista Akira Sukawara, attratta da questo clima insolito, incomincia ad indagare sulle misteriose apparizioni, interagendo con gli asettici ritratti di una giovinezza svuotata e malinconica la quale, con la dovuta sofferenza interiore, sta muovendo i primi passi verso l'adultità. 

sabato 3 settembre 2016

Mushishi: Recensione

Titolo originale: Mushi-shi
Regia: Hiroshi Nagahama
Soggetto: Yuki Urushibara
Composizione della serie: Hiroshi Nagahama
Character Design: Yoshihiko Umakoshi
Musiche: Toshio Masuda
Studio: Artland
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 2005-2006


"Mushishi", serie animata del 2005 tratta dall'omonimo manga di Yuki Urushibara, può definirsi alla stregua dell'identità interiore di un Giappone ormai iper-modernizzato, ma che al contempo ha sempre gelosamente conservato quelle caratteristiche ancestrali che si concretizzano nel legame spirituale con la natura, nel rapporto con gli antenati e nella fedeltà alle proprie tradizioni. Anche nel vastissimo campo dell'animazione i modelli pratici di tutto ciò sono svariati – si pensi al capolavoro miyazakiano "La città incantata", riconosciuto a livello internazionale con il premio Oscar – e spesso si ritrovano nascosti e integrati persino all'interno di opere di tutt'altro genere o contesto. È per questo che ritengo "Mushishi" – che si fonda esclusivamente sulla magnificenza del folklore nipponico – una serie profondamente giapponese, tanto nella forma quanto nei contenuti; nell'estrema rarefazione dei modelli visivi e narrativi incontra e riporta alla luce l'identità culturale del Sol levante, sopita ma al contempo sempre viva e rimpianta.
In un vortice di emozioni, filosofia e padronanza del mezzo espressivo, "Mushishi" si impone così come una delle migliori serie animate degli anni Duemila.

sabato 27 agosto 2016

Digimon Tamers: Recensione

Titolo originale: Digimon Tamers
Regia: Yuko Kaizawa
 Soggetto: WiZ, Chiaki J. Konaka
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Nakatsuru Katsuyoshi
 Musiche: Arisawa Takanori
 Studio: Toei Animation
Formato: serie televisiva di 51 episodi
Anni di trasmissione: 2001 - 2002


Nel 2001, nonostante il passaggio al nuovo millennio fosse già avvenuto, le leggende sul fantomatico millennium bug non erano ancora del tutto svanite. In Giappone – e non solo - nei primi anni della “nuova era” il contesto non era poi così diverso rispetto alla seconda metà degli anni novanta; la transizione verso un orizzonte temporale ignoto e a suo modo “astratto”, assai mitizzato e temuto dai media, portava con sé tutte le vecchie fobie e paranoie di una società decisamente poco disposta al cambiamento, che aveva sperimentato il peso dell'incertezza con la crisi economica novantina e, sin dagli anni ottanta, ricercato una comunione animistica e sacrale con la tecnologia, la quale, venendo percepita come un qualcosa “divino” grazie allo shintoismo, quando s'incominciò a pensare che potesse manifestare i suoi lati negativi - sopratutto se a livello digitale e informatico - inquietò parecchio i giapponesi, che rimanevano spiazzati nell'ammettere che avrebbe potuto trasformarsi da dio benevolo e utile alla vita di tutti i giorni nel peggiore dei demoni, un “oni” il quale, una volta andato fuori controllo, avrebbe minato la società nelle sue fondamenta. La terza serie animata dedicata ai videoludici “mostri digitali” creati dalla WiZ nel 1997 al fine di emulare il successo planetario del Tamagotchi, quasi come se in un contesto del genere l'avesse deciso il destino, viene affidata interamente a Chiaki J. Konaka, uno dei creatori – nonché sceneggiatore – di “serial experiments lain”, uno degli anime più complessi, iconici e profondi mai realizzati, che nella seconda metà degli anni novanta aveva spiazzato pubblico e critica col suo innovativo tecno-animismo duro e privo di compromessi. Nasce così “Digimon Tamers” - non a caso definito da alcuni come un «“serial experiments lain” per bambini» -, la serie più matura e introspettiva del brand.

sabato 20 agosto 2016

Harem End: Recensione

Titolo originale: Harem End
Autore: Shintaro Kago
 Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: inedito
Volumi: 1
Anno di uscita: 2012 


Shintaro Kago è un pazzo. Decostruttore estremo del fumetto, così efferato da reputare il suo stesso operato come merda, attraverso una perizia tecnica incontestabile, che si rifà all'iperrealismo grafico di Otomo e Maruo, il mangaka muove una satira grottesca di grande impatto, che fa di tutto per rimanere impressa nella mente del lettore, ponendosi con grande prepotenza attraverso corpi squartati in mille pezzi, cadaveri in putrefazione, sanguinose dissezioni di ragazzine innocenti, falli che diventano carri armati, parti del corpo umano che vengono ruotate e disassemblate allo stesso modo delle facce di un cubo di Rubik... insomma, si tratta di perversioni talmente creative da essere addirittura difficili da concepire, sicché provengono dagli angoli più reconditi della mente. Attraverso uno stile personalissimo, riconoscibile con poche tavole, il mangaka punta il ditino contro la società dei consumi e il suo deperimento dei valori, attraverso un masochismo splatter che stordisce come una bastonata in testa.
Un autore con un tale gusto dell'orrido, che ama collezionare action figures di cadaveri in putrefazione e strumenti di tortura (!), come si approccerebbe alla critica del medium animato e dell'otakuzoku in generale?
"Harem End" ci dà la risposta.

venerdì 12 agosto 2016

Aggiornamenti: prima parte


Con questo post nasce la rubrica dedicata all'aggiornamento degli scritti più vetusti del Bokura-no Kakumei, i quali di certo sfigurano di fronte a quelli più recenti. Inoltre, in questa sede verranno altresì segnalati eventuali upgrade dei dossier contenuti nel blog. 

giovedì 28 luglio 2016

Shinsekai Yori: Recensione

Titolo originale: Shinsekai Yori
Regia: Masashi Ishihama
 Soggetto: Yusuke Kishi
Sceneggiatura: Masashi Sogo
Character Design: Chikashi Kubota
 Musiche: Shigeo Komori
 Studio: A-1 Pictures
Formato: serie televisiva di 25 episodi
Anni di trasmissione: 2012 - 2013


«Non ti pare che veniamo trattati alla stregua del vasellame? Una volta che il forno viene aperto e la ceramica ispezionata, tutti i pezzi che presentano crepe o deformazioni sono destinati ad essere distrutti. Dato che tutto ciò che ci attendeva era il destino di una ceramica fracassata, abbiamo deciso di fuggire, nella speranza di trovare un futuro diverso.» [Dalla lettera di Maria a Saki]

Inevitabilmente, nel contesto della società giapponese, la “morte” dell'individuo avviene col suo ingresso nell'età adulta e nel mondo del lavoro. Ad una fanciullezza libera, spensierata e privilegiata, giunta una precisa scadenza, seguono una pressoché completa rinuncia alla propria identità personale e una totale dipendenza dal gruppo di appartenenza, il cui invadente sguardo s'insinua in tutti gli aspetti della vita del singolo, inclusi quelli più intimi e privati. Nell'adulto nipponico non è pertanto ammesso un “lato oscuro”: l'ombra va rimossa, e i tratti psicologici incompatibili con i dettami imposti dall'esterno devono essere soppressi, pena la totale esclusione dalla società. Gli individui che non si adeguano al sistema vengono considerati alla stregua del fango, isolati e demonizzati, in modo tale che la loro carica “sovversiva” non possa danneggiare un meccanismo costruito sulle fragili fondamenta del formalismo, dell'apparenza e, in primis, della vergogna. La vergogna di non essere all'altezza delle aspettative altrui; la vergogna di esternare le proprie emozioni; la vergogna che si prova nella gestione del rimosso psicologico, che rimane sempre in agguato nel subconscio, pronto a minare la coesione sociale del gruppo. Giusto per rendere l'idea della rigidità della società giapponese, in seguito all'arresto dell'otaku serial killer di bambine Tsutomu Miyazaki (1989), gli otaku che si recavano nei negozi per comprare o noleggiare videocassette contenenti cartoni animati, venivano schedati dalla polizia come se fossero dei potenziali criminali, anche se nei fatti erano innocenti ed innocui. Da questo esempio – una goccia nel mare – si deduce che, inevitabilmente, all'interno di un insieme di persone basato sulla totale dipendenza dal gruppo, la paura per il diverso e la paranoia diventano delle reazioni meccaniche immediate, che inevitabilmente portano a crudeli “cacce alle streghe” coadiuvate da misure repressive prive di giudizio, figlie di psicosi collettive ben mascherate da volti brillanti, puliti e sorridenti.
Dal canto suo, “Shinsekai Yori” (lett. “From the New World”, palese citazione all'omonima sinfonia di Dvořák, che fa da leit motiv all'intera opera), oltre ad interrogarsi sulla legittimità di una società del genere, va molto più a fondo, decostruendola e sezionandola mediante potenti strumenti allegorici. L'anime tratto dal corposo romanzo di Yusuke Kishi (grande successo di pubblico e critica in madrepatria), unisce geniali trovate grafiche e registiche ad un coacervo di riflessioni sulla natura umana, rivelandosi uno degli anime più meritevoli, innovativi e complessi recentemente creati.

sabato 23 luglio 2016

Hell Girl: Recensione

Titolo originale: Jigoku Shoujo
Regia: Takahiro Omori
Soggetto: Hiroshi Watanabe
Sceneggiatura: Kenichi Kanemaki
Character Design: Mariko Oka
Musiche: Yasuharu Takanashi, Hiromi Mizutani
Studio: Deen
Formato: serie televisiva di 26 episodi
Anni di trasmissione: 2005-2006


«In questa pazzia, incertezza,
riusciremo a lasciare il ricordo delle nostre emozioni?
In questa pazzia, mi hai dato la vita,
come possiamo proteggere le nostre emozioni?
In questa pazzia, incertezza,
come possiamo proteggere noi stessi?»

Il filone della Nuova Animazione Seriale (1995-2006) ha prodotto innumerevoli anime sobri, adulti, intellettuali e dai significati profondi, nei quali venivano messe a nudo l'incertezza, la pazzia e la confusione caratteristiche del periodo in cui opere come “serial experiments lain” e “Paranoia Agent” vedevano luce. I valori tradizionali sui quali si fondava il Giappone in seguito alla crisi economica novantina erano venuti meno, e l'intera nazione era disorientata, nonché succube del vuoto interiore postmoderno, altro fattore che ne lacerava – e ne lacera tuttora – l'identità nazionale e culturale, nonché quella coesione sociale estrema e quanto mai emozionale – di difficile comprensione per un occidentale - sulla quale si basano i ferrei valori gerarchici insiti nello spirito giapponese.

«Questo mondo è governato dal destino.
Un filo che si avvolge intorno ad un fragile e inutile pregiudizio.
Rabbia, odio, rancore, dolore e sofferenza.
A mezzanotte ascolteremo la tua vendetta.»

In un turbinio di cattiveria, incomprensione ed egotismo – e pertanto odio, dacché non si può odiare senza identificarsi col proprio ego/soggetto -, in una società che sta perdendo di vista la sua ragion d'essere, alcune persone, giunta la mezzanotte, si collegano a internet al fine di contattare la Jigoku Tsūshin, ovvero la Corrispondenza per L'inferno. Di sovente in preda ad un miscuglio di ansia e terrore, in soggezione o in lacrime, i suddetti malcapitati, una volta inoltrata la richiesta, vedono apparire Enma Ai, una ragazzina dallo sguardo fisso e dai capelli lunghi e neri, che consegna loro una bambola di paglia attorno alla cui testa è legato un filo rosso come il sangue. 

sabato 16 luglio 2016

Patlabor 2 - The Movie: Recensione

Titolo originale: Kido Keisatsu Patlabor 2 - The Movie
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Kazunori Ito, Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Character Design: Akemi Takada, Masami Yuki
Mechanical Design: Yutaka Izubuchi, Shoji Kawamori, Hajime Katoki
Musiche: Kenji Kawai
Studio: Production I.G
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1993


«Non pensate che io sia venuto a mettere pace sulla terra; non sono venuto a metter pace, ma spada. Perché sono venuto a dividere il figlio da suo padre, la figlia da sua madre, la nuora dalla suocera; e i nemici dell'uomo saranno quelli stessi di casa sua.» [Dal Vangelo secondo Matteo, 10,32-11,5]

Il secondo film del celebre franchise di “Patlabor”, ideato e sviluppato dal gruppo HEADGEAR (composto da Mamoru Oshii, Kazunori Ito, Akemi Takeda, Yutaka Izubuchi e Masami Yuki), a scanso di equivoci, si tratta di uno dei più grandi capolavori del cinema di animazione di tutti i tempi. Il lungometraggio - un thriller politico intellettuale e filosofico dai molteplici livelli di lettura -, si trova completamente agli antipodi rispetto al mood leggero e scanzonato tipico dell'usuale universo animato di “Patlabor”. Con esso, oltre a nascere quella storica collaborazione tra Mamoru Oshii e Production I.G. che nel 1995 porterà all'epocale “Ghost in the Shell”, si conclude il sodalizio tra i cinque artisti dell'HEADGEAR, i quali, una volta lasciata carta bianca al loro talentuoso regista, donano alla storia un film splendido, inarrivabile, lento, complesso – a detta del critico cinematografico Tony Rains, “Patlabor 2” è il «primo, inequivocabile grande film» di Oshii -, elegante, sontuoso ed estremamente autorale. 

sabato 9 luglio 2016

Anime, manga e otaku: l'angolino del lettore


Questo "dossier" nasce per raccogliere le mie considerazioni personali inerenti alcuni tra i più noti libri su anime, manga e otaku in circolazione (i tomi sulla cultura giapponese più generale e non necessariamente vincolata a questi tre argomenti non verranno commentati, ma solamente citati nelle bibliografie di eventuali miei dossier/approfondimenti su determinati aspetti del Giappone e della postmodernità; oppure in una possibile nuova sezione del blog dedicata esclusivamente alla letteratura, giacché la mole d'informazioni e titoli da trattare in questo caso è molto alta, e riportare tutto in questa sede risulterebbe oltremodo prolisso). Ciò premesso, i lettori sono invitati a commentare e a proporre a loro volta eventuali titoli da me ignorati nello scritto, in modo tale da accrescere la completezza di questa sorta di “punto di ritrovo” - sempre soggetto ad aggiornamenti - in cui i fan più assetati di sapere possono scegliere che libri acquistare per acquisire una maggiore consapevolezza degli argomenti trattati nel blog e della letteratura esistente su di essi, che non sempre è brillante e meritevole – come tutte le cose, d'altronde. Inutile dire che la maggiorparte degli studiosi e accademici interessati ad anime, manga e otaku sia perlopiù straniera - molto probabilmente a causa della nostra equazione cartoni=bambini, un pregiudizio che soltanto recentemente sembra stia svanendo dagli ambienti culturali che contano, e al parallelo, deteriore culto dell'infanzia in voga nell'italico stivale, secondo il quale «gli unici anime che contano veramente sono quelli che vedevamo da bambini», un leit motiv abbastanza ricorrente anche nella letteratura a tema -, pertanto la conoscenza dell'inglese è obbligatoria per approcciarsi ad alcuni testi da me ritenuti fondamentali. Alla luce di ciò, tutti i libri da me citati con il titolo in inglese sono disponibili esclusivamente in inglese, mentre quelli con il titolo italiano in italiano. Dato che non conosco il giapponese (ma cercherò di provvedere a questa carenza in futuro, tempo permettendo), purtroppo in questa sede i libri scritti nella suddetta lingua verranno ignorati. Ringrazio inoltre Jacopo Mistè (autore del ben noto blog Anime Asteroid) per avermi fornito i suoi pareri inerenti tre libri da me non letti. 

sabato 2 luglio 2016

Sailor Moon Crystal Season III: Recensione

Titolo originale: Bishoujo Senshi Sailor Moon Crystal: Death Busters-hen
Regia: Chiaki Kon
Soggetto: Naoko Takeuchi
Sceneggiatura: Yuji Kobayashi
Character Design: Akira Takahashi
Musiche: Yasuharu Takanashi
Studio: TOEI animation
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 2016

 

Esistono due tipi di remake: quelli praticamente inutili, in quanto si trattano di mere manovre commerciali fini a sé stesse, che immancabilmente svuotano le opere da cui derivano del loro valore iconico, e quelli intelligenti, ovvero ben diretti e rispettosi dell'originale, che viene omaggiato con le dovute precauzioni. I primi due archi di “Sailor Moon Crystal”, nuovo adattamento animato del manga di “Sailor Moonprodotto dalla Toei per il ventesimo anniversario delle Sailor Senshi, indubbiamente appartengono alla prima categoria; un discorso diverso vale invece per il terzo arco del suddetto progetto, costituito dal remake che si è posto l'obbiettivo di adattare l'Infinity Arc del manga della Takeuchi, proprio quello che corrisponde, televisivamente parlando, alla serie meglio riuscita del brand, quel “Sailor Moon S” (1994) diretto da Kunihiko Ikuhara e sceneggiato da Yoji Enokido. Fortunatamente, presa coscienza della disfatta denominata “Crystal”, la Toei Animation ha deciso di cambiare lo staff dell'anime e di affidare tutto nelle mani di Chiaki Kon, una regista veramente appassionata di “Sailor Moon” e disposta a “salvare” le vicende di Michiru, Haruka e della famiglia Tomoe dal vergognoso oblio privo di verve che erano state le prime due stagioni del remake. Nasce a questo modo una sobria rivisitazione - fortunatamente sprovvista di scene di trasformazione realizzate mediante un'orripilante computer grafica - di un mito del passato, coadiuvata da continui rintocchi di sottofondo inneggianti all'opera novantina diretta da Kunihiko Ikuhara, rispetto alla quale, senza invadenti ambizioni - a parer mio la serie originale rimane comunque inarrivabile -, essa si presenta come una versione “complementare" - e non "alternativa" - della medesima storia, con la differenza di essere più fedele al manga. 

sabato 25 giugno 2016

House: Recensione

Titolo originale: Hausu
Regia: Nobuhiko Obayashi
Soggetto: Chigumi Obayashi
Sceneggiatura: Chiho Katsura
Musiche: Asei Kobayashi, Mickie Yoshino
Effetti speciali: Nobuhiko Obayashi
Produzione: Nobuhiko Obayashi, Toho Company
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1977
 

A detta di Nobuhiko Obayashi, regista, produttore e addetto agli effetti speciali di "House" (Hausu, 1977), fu sua figlia Chigumi – all'epoca frequentante il sesto anno delle elementari –, a suggerirgli l'idea di una casa che divorasse i propri abitanti. Mentre si stava pettinando davanti allo specchio del bagno, la ragazzina iniziò a fantasticare su quanto sarebbe stato terrificante se il suo stesso riflesso, in quell'attimo, fosse uscito dallo specchio per mangiarsela. Il padre, colpito e affascinato da quest'insolita immagine, chiese alla figlia cos'altro all'interno della loro casa avrebbe potuto attaccarla: «a volte, mentre suono il piano, le dita iniziano a farmi molto male; mi sento come se la tastiera me le stesse masticando». Incoraggiata dal padre, la piccola Chigumi Obayashi continuò così a concepire orrori nati dalla propria casa: fu in questo modo che, lentamente, iniziò a prendere forma la struttura narrativa e l'approccio visivo di "House".

sabato 18 giugno 2016

The Red Spectacles: Recensione

Titolo originale: Akai Megane
Regia: Mamoru Oshii
Soggetto: Kazunori Ito, Mamoru Oshii
Sceneggiatura: Kazunori Ito
Musiche: Kenji Kawai
Produzione: Shigeharu Shiba, Daisuke Hayashi
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1987


Ispirandosi vagamente al romanzo “The Man in the High Castle” di Philip K. Dick, verso la fine degli anni ottanta Mamoru Oshii creò la Kerberos Saga, una narrazione multimediale il cui primo passo fu il qui presente “Akai Megane”, storico esordio dell'irrequieto regista nel campo del cinema live action tout court (percorso che condurrà al notevole “Avalon”, che sancirà la maturità dell'Oshii regista di film dal vivo). Fatto salvo ciò, la Kerberos Saga continuò con il manga “Kenrou Densetsu”, pubblicato tra il 1988 e il 1999, e poi con un secondo live action, “Stray Dog: Kerberos Panzer Cops” (1991). Il prodotto più notevole di questa insolita epopea dal sapore di thriller fantapolitico si tratta indubbiamente di “Jin-Roh” (1999), un lungometraggio – inizialmente concepito come serie OAV - scritto da Oshii e diretto dal giovanissimo talento Hiroyuki Okiura.
“Akai Megane” è un film molto insolito, permeato da un bizzarro alone di “B-Movie” coadiuvato da una scarna commistione tra il noir distopico à la “Alphaville, une étrange aventure de Lemmy Caution” (film seminale nel suo genere targato 1965 e ovviamente molto apprezzato da Oshii) e la commedia teatrale dell'assurdo (genere che il regista trasporrà in animazione due anni dopo, con il suo particolarissimo e brillante “Gosenzosama Banbanzai!”). Protagonista del lungometraggio è il fuggitivo Koichi Todome, un ex membro del corrotto gruppo speciale di polizia denominato Kerberos Panzer Cops, ormai smantellato dalle alte sfere del potere e ritenuto illegale. Ritornato in Giappone al fine di ritrovare i suoi compagni scomparsi, Koichi viene catturato da alcuni spietati agenti governativi – il cui simbolo è un gatto, che si contrappone all'identità “canina” del protagonista -, i quali lo torturano e tormentano al fine di carpirne i segreti politici inerenti il corpo di polizia “pirata” che intende riesumare, che secondo loro sono contenuti nella borsa che lo sventurato si porta sempre appresso (sulla quale è presente un adesivo raffigurante un basset hound, il marchio di fabbrica del regista). Inizialmente gli ex compagni di Koichi sembrano averlo tradito, tuttavia la natura umana è molto complessa, e pertanto certe dinamiche sociali si riveleranno imprevedibili. 

sabato 11 giugno 2016

Paranoia Agent: Recensione

Titolo originale: Mousou Dairinin
Regia: Satoshi Kon
Soggetto: Satoshi Kon
Sceneggiatura: Seishi Minakami
Character Design: Masashi Ando
Musiche: Susumu Hirasawa
Studio: Mad House
Formato: serie televisiva di 13 episodi
Anno di trasmissione: 2004


Nel dicembre del 2000 un diciassettenne di Tokyo, subito dopo aver litigato col padre, uscì di casa munito di mazza da baseball e aggredì otto passanti a Shibuya, in preda a un letale miscuglio di rabbia e frustrazione. Sulla base di questo fatto di cronaca, Satoshi Kon decise di creare la sua prima – e purtroppo ultima, causa prematura morte – serie televisiva, “Paranoia Agent”, il canto del cigno di quel cupo e psicologico filone della Nuova Animazione Seriale (NAS) introdotto da “Evangelion” a metà anni novanta, nel quale temi adulti come la critica alla società giapponese, l'alienazione giovanile, la perdita di riferimenti fissi indotta dalla postmodernità et similia venivano di sovente coadiuvati da una regia molto sofisticata e d'autore.
“Paranoia Agent” parla di una psicosi collettiva che viene esternata mediante la simbolica apparizione di shounen bat, inquietante ragazzino dotato di mazza da baseball il quale, nel momento di massima tensione psicologica di un personaggio, ne cancella il disagio esistenziale mediante un salvifico e brutale colpo in testa, che con macabra ironia allevia la sofferenza e l'alienazione della “vittima”. 

sabato 4 giugno 2016

Ping Pong the Animation: Recensione

Titolo originale: Ping Pong the Animation
Regia: Masaaki Yuasa
Soggetto: Taiyō Matsumoto
Character design: Nobutake Itō
Direzione delle animazioni: Nobutake Itō
Musiche: Kensuke Ushio
Studio: Tatsunoko Production
Formato: serie televisiva di 11 episodi
Anno di uscita: 2014


«Le persone talentuose che sanno esattamente chi sono non cercano nulla. Quelli che non sanno chi sono... sono loro che lottano più duramente per vincere, in modo da provare qualcosa.» [Jō Koizumi]

"Ping Pong the Animation". Ovvero lo spokon secondo Masaaki Yuasa.
Se vista nell'ottica della flessione di titoli degni di nota che la sta trascinando in questi ultimi anni, l'animazione giapponese può dirsi arrivata a un punto morto. All'interno dell'ondata di produzioni omologate e iper-schematizzate che ci sta investendo in questo periodo, la ricerca stilistica e la coraggiosa innovazione che caratterizzavano l'industria fino agli anni Novanta sono sempre più un eco lontano, un fioco riverbero che riecheggia privo di forza in mezzo alla penuria di originalità; potersi gustare nel 2014 un prodotto come quello che mi accingo a recensire, vera e propria rivisitazione anticonvenzionale di uno dei generi più in voga nell'ultimo decennio, rappresenta dunque una piacevolissima scoperta.
Ma direi di procedere per ordine.

sabato 28 maggio 2016

Akira: Recensione

Titolo originale: Akira
Regia: Katsuhiro Otomo
Soggetto: basato sull'omonimo manga di Katsuhiro Otomo
Sceneggiatura: Katsuhiro Otomo, Izo Hashimoto
Musiche: Shoji Yamashiro
Studio: Tokyo Movie Shinsha
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1988


Negli anni ottanta in Giappone si affermò una generazione di autori che non aveva ricordi diretti del trauma di Hiroshima e Nagasaki: per ovvi motivi anagrafici, il ricordo più scottante impresso nella memoria di questi artisti era la sanguinosa sconfitta dei loro fratelli maggiori nelle contestazioni – nel 1970, data del totale fallimento del movimento studentesco, alcuni membri dell'Armata Rossa fuggirono in Corea del Nord mediante un dirottamento aereo, e il loro capo, Takamaro Tamiya, dichiarò ai media giapponesi la celebre frase “noi siamo Ashita no Joe”. Ciò premesso, il colpo di grazia ai residui idealistici dell'Armata Rossa arrivò a inizio anni ottanta, con l'ascesa al potere di una destra nazionalista e militarista che si fece carico di numerosi scandali politici – dei quali poco importava ad una nuova generazione di adolescenti quanto mai edonisti, i cosiddetti figli della bolla, consumatori aggressivo-passivi privi di ideologie e assai indifferenti, annoiati, senza uno scopo per vivere. Inutile dire che tutto ciò era la naturale conseguenza del benessere e dell'avanzare, sempre più incalzante, della postmodernità come la intendiamo oggi.
Katsuhiro Otomo - classe 1954 -, con il suo “Akira”, uno dei lavori più rappresentativi della storia dell'animazione, prende come spunto il fallimento ideologico a cui aveva assistito da adolescente, e su di esso costruisce un imponente edificio d'immagini i cui protagonisti sono dei veri e propri Ashita no Joe ottantini, dei delinquenti delle strade che si muovono a bordo delle loro moto in un mondo ipertecnologico, distopico e post-apocalittico, in cui i monolitici grattacieli della cosiddetta Neo-Tokyo rappresentano le invalicabili istituzioni, nonché il potere della vecchia generazione che opprime il nuovo, impedendogli di mutare il paradigma sociale vigente.
Tra i bousouzoku (lett: "gli sfrenati") di Otomo - da lui esplicitamente inseriti nel film in quanto appartenenti ai suoi ricordi giovanili, ma comunque onnipresenti sulle strade della Tokyo degli anni ottanta – è presente Tetsuo, un ragazzino debole, edonista, succube di un complesso d'inferiorità nei confronti del capo-banda Kaneda, che gli fa da padre/fratello maggiore – proprio come Ashita no Joe, i protagonisti di “Akira” sono degli orfani senza radici, abbandonati a loro stessi nei sobborghi decadenti di una città piena di contraddizioni. Alla luce di ciò, Tetsuo - potentissimo esper i cui poteri psichici latenti si risvegliano improvvisamente, dopo il contatto con uno strano bambino-vecchio mutante - ricalca il modello comportamentale della generazione di adolescenti cresciuti durante la grande bolla: è introverso, complessato, frustrato e – inconsciamente - alla ricerca di una figura materna che lo consoli. D'altro canto, Kaneda sembra quasi indietro di dieci anni, in quanto punta tutto sulla fisicità e risolve i suoi problemi direttamente, come se fosse un adulto, senza cercare il supporto di nessuno. La moto/simbolo fallico (a detta dello studioso di cinema Jon Lewis) di Kaneda, che simboleggia il potere, inizialmente non può essere guidata da Tetsuo: l'interazione tra i due ragazzi è in parte l'allegoria di uno strano rapporto padre/figlio e corpo/mente, che si dirama lungo l'ambizioso pastiche postmoderno di Otomo attraverso una rielaborazione simbolica in chiave cyberpunk dei caotici mutamenti sociali del Giappone in corso dagli anni sessanta agli anni ottanta, che vengono raccontati in modo indiretto mediante l'ausilio di un carismatico apparato pseudo-mistico-fantascientifico nel quale, da un nichilismo allucinato e totalizzante, emerge la figura del messia Akira, l'uomo-Dio-bambino-Buddha che si fa portatore del rinnovamento in un mondo corrotto, in cui la perenne stagnazione sociale fa presagire un'incombente fine della Storia. 

venerdì 20 maggio 2016

Shirobako: Recensione

Titolo originale: Shirobako
Regia: Tsutomu Mizushima
Composizione serie: Michiko Yokote
Character design: Kanami Sekiguchi
Musiche: Shirou Hamaguchi
Studio: P.A. Works
Formato: serie televisiva di 24 episodi
Anno di uscita: 2014


Aoi Miyamori, Shizuka Sakaki, Emi Yasuhara, Midori Imai e Misa Todo sono cinque studentesse appassionate di animazione che, per il festival scolastico del loro ultimo anno di liceo, decidono di realizzare artigianalmente un cortometraggio anime da proiettare nella propria scuola. Le amiche, all'alba del loro ingresso nella società lavorativa, si scambiano una promessa: in futuro dovranno riuscire a realizzare una loro opera originale, curandone insieme gli aspetti produttivi.
Alcuni anni dopo Aoi è diventata un'assistente di produzione e lavora insieme a Ema, divenuta animatrice, alla Musashino Animation (abbreviato in MusAni), uno studio tornato da poco sulla cresta dell'onda. Midori nel frattempo studia all'università, mentre Misa è stata assunta da un'azienda specializzata in computer graphics e Shizuka, doppiatrice in erba, lavora part-time in un bar per mantenersi gli studi di recitazione.
"Shirobako", serie d'animazione di 24 episodi uscita nella stagione invernale del 2014, è dunque il (meta)racconto di queste cinque ragazze e del loro sogno, che si intreccia con quelli di centinaia di altre persone, all'interno di una delle fabbriche di sogni più vaste e prolifiche al mondo.

lunedì 16 maggio 2016

Il Bokura no Kakumei si espande


Sono trascorsi due anni da quando io e il mio collega Onizuka90 abbiamo deciso di aprire un blog tutto per noi, in cui scrivere liberi da vincoli commerciali, editoriali e, sopratutto, da compromessi legati al mainstream e alla ricerca ossessivo-compulsiva di visualizzazioni e consensi da parte delle masse. Il nostro obbiettivo, sia in passato che nel presente - nonché futuro -, è di proporre recensioni e articoli di qualità - ovviamente nei limiti delle nostre conoscenze e capacità personali -, privilegiando un approccio analitico agli oggetti del nostro interesse, in modo tale da divulgare contenuti di una certa rilevanza; fornire dignità intellettuale ad un media che soltanto ultimamente si sta facendo strada nella cultura con la C maiuscola, superando le etichette preconfezionate che gli hanno attribuito i più; generare un dibattito in modo costruttivo, ben lungi dalle lobotomizzanti tendenze della maggiorparte dei siti a tema anime, manga ecc. presenti nel web, che privilegiano la quantità alla qualità rinunciando ad arricchire culturalmente un fandom molto spesso inconsapevole del contesto e delle potenzialità intellettuali delle opere (quelle meritevoli, s'intende) di cui usufruisce.

sabato 14 maggio 2016

Ano Hana: Recensione

Titolo originale: Ano Hi Mita Hana no Namae wo Bokutachi wa Mada Shiranai
Regia: Tatsuyuki Nagai
Character Design: Tanaka Masayoshi
Musiche:  Remedios
Studio: A-1 Pictures
Formato: serie di 11 episodi
Anno di uscita: 2011


Ano Hi Mita Hana no Namae o Bokutachi wa Mada Shiranai abbreviato AnoHana è una serie del 2011 diretta da Tatsuyuki Nagai, noto anche per Toradora!, e prodotta dallo studio A-1 Pictures.
I primi episodi di AnoHana erano riusciti a illudermi che questo titolo potesse avere grandi potenzialità, ma devo con rammarico constatare che il risultato finale è stato ben al di sotto delle mie aspettative. Forse mi aspettavo qualcosa di meno ovvio e svenevole e la conclusione, seppur con un retrogusto amaro, si caratterizza per uno stucchevole buonismo a me insopportabile. Gli autori sono riusciti infatti nell'intento di rendere un finale di per sé triste in un qualcosa che abbia lo stesso un contenuto positivo, a banalizzare quella che poteva essere una stupenda e tragica conclusione volendo a tutti i costi ostentare buoni propositi capaci solo di produrre compromessi confusi e di basso livello, sfociando quindi in uno scialbo eccesso di buoni sentimenti, suggestivo ma anodino.

sabato 7 maggio 2016

Mawaru Penguindrum: Recensione

 Titolo originale: Mawaru-Penguindrum
Regia: Kunihiko Ikuhara
Soggetto: ikuni chowder (Kunihiko Ikuhara)
Sceneggiatura: Kunihiko Ikuhara, Takayo Ikami
Character Design: Lily Hoshino (originale),Terumi Nishii
Musiche: Yukari Hashimoto
Studio: Brain's Base
Formato: serie televisiva di 24 episodi
Anno di trasmissione: 2011


Tredici anni dopo aver dato alla luce il capolavoro “La Rivoluzione di Utena”, Kunihiko Ikuahara torna nuovamente in scena con un'altra opera dall'indiscutibile valore, “Mawaru Penguindrum”, adattamento (in)fedele e molto autorale di uno dei racconti più celebri della letteratura giapponese, il “Ginga Tetsudou no Yoru” di Kenji Miyazawa. Commistione postmoderna tra fiaba, commedia dell'assurdo e tragedia greca, l'anime in primis è un vero e proprio atto d'amore del suo regista nei confronti degli emarginati, di coloro i quali sono stati confinati nell'anonimato ai limiti della società giapponese, che nell'opera viene rappresentata mediante molteplici, toccanti metafore in un geniale andirivieni di situazioni estreme, riflessioni e dialoghi brillanti. Protagonisti della storia sono i due fratelli Shouma e Kanba Takakura, i quali - allo stesso modo del Miyazawa che nel 1924 iniziava a scrivere il suo racconto in preda al dolore - stanno vivendo il dramma della perdita dell'adorata sorellina Himari, la quale soffre di una grave malattia incurabile. Ha così inizio il loro viaggio a bordo del “Treno della Via Lattea” - il treno del destino -, che nell'anime diventa la metropolitana di Tokyo; all'inizio di questo percorso, che si snoda tra una puntata e l'altra della serie – ogni “fermata” è un episodio dell'anime, scelta abbastanza metanarrativa – tra allegorie ed eventi realmente accaduti, Himari torna misteriosamente in vita grazie ad un copricapo a forma di pinguino, il quale tuttavia la possiede per alcuni brevi frangenti trasformandola nell'impertinente Principessa del Cristallo, una surreale madamigella la quale reclama a gran voce ai due sfortunati fratelli il penguindrum, un oggetto magico che le permetterebbe di avere salva la vita.

mercoledì 27 aprile 2016

Taiyou no Ouji - Hols no Daibouken: Recensione

 Titolo originale: Taiyo no ouji - Hols no Daiboken
Regia: Isao Takahata
Soggetto & sceneggiatura: Kazuo Fukuzawa
Character Design: Yoichi Kotabe
Musiche: Michio Mamiya
Studio: Toei Animation
Formato: film cinematografico
Anno di uscita: 1968


"Taiyou no Ouji - Hols no Daibouken" ("Il Principe del Sole - La grande avventura di Hols"), il primo film diretto da Isao Takahata, è uno dei lavori fondamentali della storia dell'animazione. Siamo nel lontano 1968, nell'epoca delle rivolte studentesche, della guerra del Vietnam, delle agitazioni sociali, dell'occupazione americana in Giappone. L'animazione nel paese del Sol Levante è ancora allo stato embrionale: sono passati soltanto cinque anni da quel fatidico 1963 in cui Osamu Tezuka creava "Tetsuwan Atom", la prima serie televisiva giapponese animata della storia. Per emulare il successo dell'opera, la colossale Toei animation produceva anime per bambini utilizzando le tecniche di animazione low budget ideate da Tezuka - "bank system" in primis - e imponendo agli sceneggiatori trame e soggetti alquanto banali, generando nel frattempo il malcontento degli animatori - sfruttati e sottopagati - tra i quali vi erano non pochi giovani volenterosi pieni di idee, che avevano visto i loro sogni stroncati sul nascere da ritmi di lavoro frenetici e dalla più completa mancanza di libertà di espressione. In questo contesto, nascevano i primi sindacati degli animatori, e gli ideali socialisti prendevano piede anche negli studi Toei; Takahata e Miyazaki - all'epoca ancora giovanissimi - si conoscono proprio perché Miyazaki, animatore di base (praticamente l'ultima ruota del carro nella catena di produzione) impegnato nella lotta proletaria come segretario del sindacato degli animatori, ha l'opportunità, grazie al suo incarico politico, di intrattenere rapporti con gli inavvicinabili senpai della Toei. I due fanno amicizia grazie alla loro comune passione per Grimault e il cinema sovietico, in particolare Lev Atamanov ("La Regina delle Nevi" è un'opera che li ha visceralmente colpiti, proprio come il modo di fare cinema di Grimault, che consisteva nella trasposizione fiabesca delle idee populiste di Prévert e compagni - il socialismo come condizione necessaria e sufficiente di convivenza armonica tra gli uomini).

sabato 16 aprile 2016

Toradora!: Recensione

 Titolo originale: Toradora!
Regia: Tatsuyuki Nagai
Soggetto: Yuyuko Takemiya & Yasu
Sceneggiatura: Mari Okada
Character Design: Yasu (originale), Masayoshi Tanaka
Musiche: Yukari Hashimoto
Studio: J.C. Staff
Formato: serie televisiva di 25 episodi
Anni di trasmissione: 2008 - 2009


Taiga e Ryuuji, la tigre e il dragone, sono fatti l'una per l'altro. Lei è dolce, insicura e sensibile, ma si nasconde dietro ad un temperamento aggressivo e irriverente; lui invece è il classico bravo ragazzo della porta accanto, un meticoloso casalingo il cui carattere è in completa antitesi con l'aspetto fisico - quello di un teppista dallo sguardo tagliente. Si sa già come andrà a finire la storia: soltanto il dragone può competere con la tigre, pertanto il loro destino è già segnato fin dal principio. Tuttavia, dacché non è la meta che importa veramente, ma il cammino che si compie per raggiungerla, le due anime così vicine, ma in realtà parecchio distanti tra loro - proprio come le stelle, citando un dialogo dell'opera -, attraverseranno una moltitudine di ordinarie vicissitudini prima di unirsi: lui è innamorato di un'altra, lei di un'altro, e all'inizio tra i due c'è soltanto una strana amicizia, che pare la concreta realizzazione dell'ideale familiare di cui lei necessita, essendo una bambolina minuta ignorata e abbandonata a sé stessa da due genitori divorziati e assenti.