"L'ombra del bambù // spazza la scala // ma immobile rimane la polvere".
In questo post parlerò di Natsume Sōseki e "recensirò" i suoi libri. Innanzitutto, chi è Natsume Sōseki? In Italia pochi lo sanno, dato che a scuola non viene insegnata la letteratura giapponese e comunque le elite intellettuali del belpaese capiscono poco o nulla dell'argomento (in Italia vigono le equazioni Giappone = Gardaland e letteratura giapponese = Murakami Haruki + Banana Yoshimoto, quindi è logico che il più grande scrittore giapponese moderno venga perlopiù ignorato o affrontato in modo superficiale). Ma come sono arrivato io, Francesco tal dei tali, a Sōseki? Ci sono arrivato a ritroso, partendo dalla riflessione di Anno Hideaki, il regista di Evangelion. Nella sua opera prima Anno parlava di solitudine nella postmodernità, della difficoltà a definire se stessi in assenza di punti di riferimento sociali e affettivi, nonché del vuoto interiore che da tutto ciò derivava. Scavando poi nel pensiero e nell'opera dell'autore, sono quindi pervenuto a Love & Pop, che altro non è che l'adattamento filmico di TopazII, un romanzo di Murakami Ryuu (da non confondere con Murakami Haruki, che fa libri giocattolo a mio avviso privi di spessore intellettuale, da qui forse la ragione della sua fama in occidente). Ciò premesso, Murakami Ryuu è lo scrittore preferito di Anno Hideaki e pertanto il suo intellettuale di riferimento: tutto ciò che c'è di sociologicamente o psicologicamente elevato in Evangelion c'è anche nelle opere di Murakami Ryuu, e infatti, non per nulla, l'apice registico di Anno è l'adattamento diretto di un suo libro. A Murakami Ryuu tra l'altro si deve anche parte del successo di Evangelion in patria: fu proprio lui a capire immediatamente le potenzialità dell'opera e a parlarne bene nei suoi editoriali, contribuendo così ad alimentarne il mito. Partendo dall'animazione e passando per il cinema, siamo quindi giunti nel campo della letteratura giapponese. Dotato di un talento fenomenale e di uno sguardo disilluso e onesto nei confronti della società della Baburu, nonché della crisi che era conseguita dallo scoppio di questa bolla finanziaria che arricchì a dismisura il Giappone degli anni ottanta, con il suo romanzo d'esordio, Blu quasi infinitamente trasparente, Murakami Ryuu vinse il premio letterario più prestigioso del Giappone, il premio Akutagawa, e si sa che le raccomandazioni e il politically correct lì non contavano (e tutt'ora non contano). Il romanzo infatti, allo stesso modo di Evangelion, creò un certo scandalo e spaccò in due l'opinione pubblica. Murakami Ryuu e Anno Hideaki avevano colpito nel segno, additando i problemi di una società piena di contraddizioni e quantomai succube di un'occidentalizzazione più subita che assimilata. In pratica fecero la stessa cosa che fece Sōseki a suo tempo. Siamo quindi partiti da Evangelion, opera pop abbastanza conosciuta (e ancora a suo modo attuale) e siamo arrivati all'origine della letteratura giapponese moderna, ossia al protagonista di questa specie di monografia.
Chiusa questa parentesi introduttiva, durante la stesura del post ho fatto in modo che le recensioni dei vari libri scritti dall'autore, riportate in ordine cronologico, illustrassero man mano l'evoluzione della sua autorialità e alcuni avvenimenti salienti della sua vita. In ogni sezione ovviamente analizzo il libro nella sua edizione/traduzione italiana, quella accennata tra parentesi. Ho deciso di non mettere le foto delle copertine perché gli editori, con molta fantasia, ci hanno sempre messo sopra geishe su geishe: inutile quindi riportare nel post 6/7 illustrazioni di geishe, soprattutto in uno spazio dedicato a un autore amante della natura e non di certo dell'urbanesimo. Questo scritto comunque è un mio personalissimo omaggio a uno scrittore che tanto ho amato in questi ultimi tre anni: non nasce né per incitare la gente a leggerlo né con velleità pseudo-accademiche, ma per un mio mero egoismo personale. E' da notare che Akutagawa Ryuunosuke, che ho citato nell'introduzione e del cui suicidio accennerò in seguito, è una figura troppo complessa per essere trattata in questa sede: se avrò tempo, voglia e ispirazione scriverò un post dedicato interamente a lui.
*-----* I LIBRI DI 夏目 漱石 *-----*
WAGAHAI NEKO DE ARU & BOCCHAN (1905-1906, "Io sono un gatto" nell'edizione Neri Pozza; "Il signorino" nell'edizione Neri Pozza)
"Io sono un gatto" e "Il signorino" (il primo è il romanzo d'esordio del grande scrittore), sono due opere divertenti e umoristiche, ma a mio avviso non fondamentali. Nel primo, grande successo di pubblico che permise a Sōseki di intraprendere la carriera di scrittore tout court, il narratore principale è un gatto intellettualoide che osserva la decadenza del mondo degli uomini e ci fa sopra dell'ironia; il secondo invece è un romanzo educativo e di formazione che all'epoca veniva fatto studiare nelle scuole (la trama comunque non è banale ma molto rocambolesca). Bocchan, tra l'altro, è stato anche citato nell'importantissimo studio antropologico Il crisantemo e la spada di Ruth Benedict, colei che gli alti comandi americani avevano incaricato di studiare la cultura giapponese in vista della dominazione postbellica. Trattasi quindi di un testo di particolare interesse storico-culturale, sebbene nello stile e nelle tematiche non sia ancora al livello dei capolavori del maestro.
*-----* 草枕 *-----*
KUSAMAKURA (1906, "Guanciale d'Erba" nell'edizione Neri Pozza)
Il libro si apre così: "Se si usa la ragione il carattere si inasprisce, se si immergono i remi nel sentimento si è travolti. Se s'impone il proprio volere ci si sente a disagio. E' comunque difficile vivere nel mondo degli uomini.
Quando il malessere di abitarvi si aggrava, si desidera traslocare in un luogo in cui la vita sia più facile. Quando s'intuisce che abitare è arduo, ovunque ci si trasferisca, inizia a la poesia, nasce la pittura".
Si capisce fin da subito l'intento narrativo di Sōseki, che con quest'opera scrive un saggio sulla natura dell'arte come auto terapia, utilizzando come filo condutture la narrazione minimale di un pittore che vaga senza meta per le montagne. Lo stile qui è molto diverso da quello essenziale - ma al tempo stesso ricco di contenuto - dei futuri romanzi: le descrizioni sono molto curate, quasi proustiane; la poesia spesso cerca di diventare immagine, con la consapevolezza dell'autore/narratore stesso; non c'è una vera e propria critica sociale e lo spazio è lasciato a riflessioni mistico/filosofiche, molto probabilmente ispirate da un reale peregrinaggio di Sōseki in un tempio buddhista (uno spunto autobiografico che viene altresì utilizzato in Mon, sebbene lì venga rielaborato in chiave quasi grottesca).
Sōseki in Kusamakura venera l'immagine del femminile come fondamento della natura (le descrizioni delle donne che incontra lungo il suo cammino in montagna tentano di convergere al realismo visuale, un po' come le poesie di cui il testo è infarcito), e paragona i mistici, tra cui Gesù Cristo, ad artisti. Quindi, con la comprensione del sacro come narrazione autoriparativa del sé, proprio come lo è l'arte, seguendo Heidegger l'autore si abbandona al principio femminile dell'immanenza e, sul finale, composta la "poesia definitiva" sull'essere, raggiunge la per così dire "illuminazione" contemplando il "sentimento compassionevole" che appare sul viso di una ragazza di nome Nami, in uno dei momenti nel tempo in cui ella sta fissando il treno che porterà il suo ex marito a morire in Manciuria. Il tutto converge quindi nel passaggio "Il poeta versa infinite lacrime, mentre per un uomo comune ne può bastare un litro. Quindi il poeta è più tormentato di un uomo qualsiasi, i suoi nervi sono molto più sensibili. Proverà gioie ignote al volgo, ma anche un'incommensurabile tristezza". In pratica, la condizione umana è un'inferno e soltanto il poeta o il mistico sono in grado di farsene carico per mezzo della loro sensibilità ed abnegazione, proiettando dapprima le loro narrazioni riparative sul reale per sopravvivere e, soltanto in seguito, rinunziando ad esse lasciando libero spazio all'ignoto, che può essere percepito soltanto dai pochi esseri sensibili che hanno accolto in sé il principio del "femminile sacro" di cui è impregnato questo libro. E in questo Soseki è molto Schopenauer: ragiona quasi come un tedesco.
Personalmente, nonostante sia il libro preferito di un genio come Glenn Gould (!), non reputo Kusamakura un capolavoro, sicché rimane troppo incerto nello stile e nelle intenzioni narrative (è un solipsismo dell'autore? E' un saggio? E' un romanzo? E' un'opera poetica/pittorica tradotta in prosa? Il tutto è troppo didascalico). Ciò detto, rimane comunque uno degli imprescindibili di Sōseki.
*-----* 三四郎 *-----*
SANSHIRO (1908, Casa Editrice Marsilio, collana letteratura universale)
Non capisco perché Sanshiro, Sorekara e Mon vengano etichettati come parti di un trilogia quando in realtà sono tre cose ben diverse. Boh, vallo a capire. Detto questo, Sanshiro è un ragazzo di provincia che va a studiare a Tokyo, e lo fa nel Giappone di inizio novecento che sta cercando di imitare il modello occidentale. In questo semplice abbozzo di trama già ci sono un infinità di contenuti. Il Giappone infatti, così come l'Italia, è un paese fortemente familistico e tradizionalista, che ha fatto molta fatica ad adattarsi prima al moderno (che è ciò di cui parla Sōseki nei suoi libri) che al postmoderno (che è ciò di cui parlano i sopracitati Murakami Ryuu e Anno Hideaki nelle loro opere). Moderno e postmoderno ovviamente sono dei nomi che si danno alle conseguenze sociali e filosofiche di determinati tipi di industrialismo (come scrivevo qui).
Sanshiro, così come il co-protagonista Professor Hirota, che sostiene che il Giappone della restaurazione Meiji, rinnegando la propria identità a favore dell'industrialismo, si stia autodistruggendo, sono entrambe due figure in crisi. A ciò si aggiunge la frustrazione sessuale e sentimentale tra Sanshiro e la bellissima Mineko, che modulo quelle tradizioni feudali e familistiche che all'epoca (e in parte tutt'ora) persistevano nonostante l'occidentalizzazione forzata e subita, anticipa l'incomunicabilità tra i sessi tipica dell'oggidì. Anche la crisi dell'accademia e del sapere viene largamente anticipata da Sōseki: i discorsi di Hirota sono emblematici e ancora attuali. La frasetta "siamo come pecore smarrite" riflette perfettamente il significato di tutto il libro e in un certo senso della condizione umana di fronte alla modernità: solitudine, vuoto interiore. Questo discorso sarà un po' il leit motiv di tutta la produzione Sōsekiana da qui in poi e culminerà in Kokoro, il romanzo più celebre dello scrittore nonché suo ultimo capolavoro.
Personalmente sono abbastanza legato a questo libro perché è l'ultimo che ho letto prima di iniziare a scrivere il mio: per costruire il mio stile mi sono basato abbastanza su quello di Sōseki e sui suoi fraseggi essenziali che vanno subito dritti al punto: ovviamente io vivo nel 2023 e i miei contenuti sono ben diversi rispetto ai suoi, ma almeno stilisticamente, e in un certo senso dal punto di vista delle tematiche, sono abbastanza debitore a questo libro. La figura del professor Hirota poi l'ho ripresa nel mio Antropofagia (il Professor MM), anche se lui dà l'allarme della futura e vicinissima autoconsunzione dell'umanità intera, e non soltanto di un specifico paese (oggigiorno c'è la postmodernità globalizzata e l'industrialismo-senza-limitismo, due cose ben più drammatiche di ciò che aveva vissuto lo scrittore).
In conclusione, Sanshiro è il primo capolavoro di Natsume Sōseki.
*-----* それから *-----*
SOREKARA (1909, erroneamente tradotto "E poi" nell'edizione Neri Pozza)
"Così come sulla superficie di un formaggio, fino a quando conserva la sua forma, non appare alcunché dalle muffe che agiscono all'interno, allo stesso modo Daisuke non era cosciente delle cose che lo agitavano".
Sorekara (traduzione by Shito: "Da lì" ) è il mio libro preferito di Natsume Sōseki e pure lui, come Sanshiro, un capolavoro della letteratura. Il protagonista è Daisuke, un dandy mantenuto che ha assimilato la cultura occidentale senza averla né capita né contestualizzata, e che passa il tempo o con le geishe o chiuso in casa a oziare. Il tutto senza mai sistemarsi e ignorando le pressioni del padre industriale, che lo vorrebbe far sposare con la bella e giovane figlia di un proprietario terriero (all'epoca in Giappone ignorare il volere del padre era una cosa socialmente inaccettabile). Al di là del sesso mercenario, l'interesse romantico di Daisuke è Michiyo, la moglie del suo unico amico, Hiraoka. La cosa paradossale è che è stato Daisuke stesso a far mettere insieme i due, privandosi di una giovane e disponibile Michiyo per farla poi finire ingabbiata in un matrimonio infelice e per lei logorante. Tutto ciò perché Daisuke è un eterno bambino, un Urashima nel palazzo del Dio Drago incapace di dare una direzione alla propria vita e di prendere delle decisioni consapevoli. Quando il nostro otaku ante litteram si sveglierà e compirà l'unico vero atto di volontà della sua vita, ossia reclamare una Michiyo ormai malata e tormentata, sarà troppo tardi e si arriverà a un finale simbolico e alienante che mi ha un po' ricordato il neorealismo di un certo tipo di cinema italiano (Antonioni? Potrebbe essere).
Nel libro Sōseki espone in modo abbastanza didascalico, per mezzo dei pensieri del protagonista, la sua visione sociologica, che avremo modo di conoscere altresì nel suo saggio sull'individualismo (di cui parlerò più avanti, dato che vado in ordine cronologico). Tuttavia qui il pessimismo prevale, contrariamente al saggio. Cito alcuni passi:
"Inoltre cominciava a essere oppresso dall'ansia che pervadeva il Giappone moderno. Si trattava di un fenomeno barbaro che nasceva dalla mancanza di fiducia tra le persone. [...] Era inoltre convinto che se gli uomini avessero avuto fiducia gli uni negli altri, non ci sarebbe stato bisogno di alcun dio. [...] Ne conseguiva che nei paesi in cui esistevano gli dei, la gente era bugiarda. Però aveva scoperto che il Giappone moderno non aveva più fede né nella divinità, né negli uomini E attribuiva tutto ciò alla situazione economica".
"Una popolazione che subisce a tal punto la pressione dell'Occidente non ha libertà mentale, e non può realizzare nulla di valido. [...] Prova a parlare con qualcuno: la maggiorparte delle persone sono instupidite. [...] Disgraziatamente, lo sfinimento fisico va di pari passo con il deterioramento spirituale. E non è tutto: c'è anche il decino morale".
"Leggendo i romanzi occidentali, era sempre rimasto concertato dai dialoghi tra uomini e donne, a suo avviso troppo audaci, troppo compiacenti, e soprattutto troppo franchi ed espliciti. In lingua originale erano accettabili, pensava, ma in giapponese neppure traducibili. Di conseguenza non aveva alcuna intenzione di utilizzare mezzi espressivi d'importazione per sviluppare la sua relazione con Michiyo. Tra loro due, almeno, le parole usuali erano più che sufficienti. Il problema però era di scivolare da un punto A a un punto B senza nemmeno rendersene conto. Quel giorno Daisuke riuscì per un soffio a fermarsi a un passo dal precipizio".
La discomunicazione qui è totale: sia tra lui e lei, sia nei processi mentali di lui, che per impostare un rapporto con una donna deve addirittura ricorrere alle sue analisi sociologiche e letterarie, rimanendovi come intrappolato ("riuscì per un soffio a fermarsi a un passo dal precipizio", sic!). Quando tuttavia sarà costretto ad andarsene a lavorare, Daisuke metterà tutto ciò da parte e finirà come in catalessi. Non per nulla considero questo libro una sorta di Welcome to the NHK ante litteram: cambiano gli attori e cambia il palcoscenico, ma la sostanza è sempre la stessa.
*-----* 門 *-----*
MON (1910, erroneamente tradotto "La Porta" nell'edizione Neri Pozza)
Il romanzo (traduzione corretta: "Portale" ) parla di una coppia socialmente emarginata a causa di un mistero che verrà rivelato soltanto verso la fine del libro (e che è legato alla rovina di Yasui, uno dei pochi amici che Sousuke, il protagonista, ha avuto in vita sua). Per il resto Sousuke e sua moglie Oyone, profondamente legati, vivono in solitudine, cercando di ignorare un senso di colpa dal quale invero non riusciranno mai ad affrancarsi. L'alienazione sociale in questo libro non viene imputata all'industrialismo o alla cultura occidentale, bensì è frutto della natura umana stessa, del principio del "mors tua, vita mea"; volendo utilizzare un termine familiare per chi mi legge, dell'antropofagia. L'amore qui non esiste, Sousuke e Oyone formano una coppia interdipendente a causa della loro mera incompletezza e debolezza: l'essere umano è un povero parassita che si nutre dei suoi simili, che porta dentro di sé un grande vuoto, che è naturalmente predisposto alla noia. Il libro si focalizza molto sulle psicologie dei personaggi e sul contrasto violento tra la loro interiorità e la società di fuori, rappresentata da parenti distaccati, vicini facoltosi da compiacere, rigattieri approfittatori e quant'altro. Date le condizioni fisiche di Sōseki viene posta una certa enfasi sulla tematica della malattia, che qui sembra quasi diventare, con grande gioia degli esistenzialisti europei, la naturale condizione umana. Nonostante queste ottime premesse e nonostante questo sia appunto il romanzo più "esistenzialista" di Sōseki, non lo considero un capolavoro per via della parte riguardante il peregrinaggio al monastero, che ho trovato banale, e il finale affrettato (molto probabilmente dovuto a un violento attacco di ulcera che debilitò lo scrittore in concomitanza alla stesura del libro).
*-----* 彼岸過迄 *-----*
HIGAN SUGI MADE (1912, tradotto come "Fino a dopo l'equinozio" da Neri Pozza; tradotto come "Sin oltre l'altra riva" da Shito, dato che "Higan" si riferisce alla "riva distante" del sanskrito, da cui il titolo della LeGuin)
In questo periodo il grande scrittore stette molto male, sia fisicamente che psicologicamente (nel 1911 morì l'amata figlia minore), tant'è che dovette prendersi due mesi di pausa dalla scrittura prima di rimettersi a lavorare su questo libro. Si sentì sempre più straniato dai giudizi dei critici letterari e rimarcò nella nota introduttiva del qui presente romanzo il voler rivolgersi alla classe media e non alle èlite intellettuali del suo paese. Paradossalmente, se ne uscì con un'opera avventurosa basata perlopiù sullo stile di scrittura che altro. In pratica un mero lavoro da mestierante, che oggigiorno risulta leggibile esclusivamente per via dello stile di scrittura e dell'eventuale interesse giappofilo del lettore italiano. Higan Sugi Made, nonostante la sua simpatia e il suo essere un'opera scanzonata, invero risulta parecchio tedioso e inconcludente. Le vicende narrano del giovane Keitaro, un neolaureato senza alcun particolare talento che non riesce a trovare lavoro e che si imbatte in ogni genere di strani individui (in primis il coinquilino Morimoto, che gli racconta un sacco di fandonie spacciandosi per grande avventuriero e che poi sparisce nel nulla). Keitaro, nel suo umiliante status di disoccupato, compie un pedinamento su commissione lasciandosi guidare dal bastone "magico" lasciato dall'ex coinquilino (sigh!), senza ovviamente concludere alcunché; ascolta gli altri personaggi raccontare le loro storie e in alcuni di questi passaggi, nonostante la leggerezza della narrazione, si avverte l'eco della morte della figlia dell'autore, e con ciò si ritorna a qualche barlume del Sōseki più psicologico e indagatore dell'animo umano. Ciononostante, Higan Sugi Made è un'opera del tutto trascurabile, da leggere soltanto nel caso in cui si voglia migliorare il proprio stile di scrittura (tecnicamente, soprattutto dal punto di vista delle descrizioni della Tokyo di inizio novecento, questo romanzo è impeccabile). Sono comunque dell'idea che Higan Sugi Made sia una trollata di Sōseki nei confronti dei critici letterari del suo tempo, che si aspettavano da lui l'ennesimo capolavoro sul quale elaborare le più inutili e svianti sovranalisi, e che invece si son ritrovati in mano la storiella di un coglioncello col bastone psicotropo.
*-----* こころ *-----*
KOKORO (1914, tradotto come "Anima" nell'edizione SE - sigh! - e "Il cuore delle cose" - di nuovo, sigh! - nell'edizione Neri Pozza)
"La solitudine è il prezzo da pagare per essere nati in un'epoca così piena di libertà, di indipendenza e di egoistica affermazione individuale."
Questo libro, il cui titolo corretto in italiano è semplicemente "ANIMO", con la "O", è un capolavoro dallo stile essenziale, pulito e senza tempo. In esso vi è un po' tutta la poetica del Sōseki giunto alla maturità espressiva. Narra dell'incontro tra uno studente universitario e un vecchio misantropo chiuso in se stesso e nel suo passato. Gli eventi sono minimali e lo spazio è lasciato alla psicologia dei personaggi, ai dialoghi e al finale simbolico a effetto. Solitudine e incomunicabilità sono le colonne portanti di quanto narrato, e il difetto tipico di Sōseki, ossia l'essere troppo didascalico, qui è ridotto al minimo. Impossibile approcciarsi seriamente alla letteratura giapponese (ma anche a quella mondiale) senza aver letto questo libro.
*-----* 私の個人主義 *-----*
WATAKUSHI NO KOJINSHUGI (1914, "My Individualism" nella traduzione in inglese di Sammy I. Tsunematsu, Tuttle Publishing)
In questa analisi considero l'edizione inglese perché quella italiana, edita da :duepunti Edizioni, è fuori catalogo e pressoché introvabile. L'edizione inglese comunque, reperibile per pochi euro su Amazon in ebook, è molto accurata e oltre a Watakushi no Kojinshugi contiene un altro saggio dell'autore e una sua biografia molto dettagliata.
In Giappone, nel periodo Meiji, era diffusa tra gli intellettuali nipponici la sudditanza alla cultura inglese ed europea. Lo stesso Sōseki fu mandato dal governo a Londra per farsi plagiare, cosa da lui lamentata nell'introduzione a questo saggio. Ma essendo lo scrittore una persona intelligente, il (sofferto) soggiorno a Londra si tramutò in un'occasione per riflettere sulla necessità sì di assimilare la cultura altrui, tuttavia senza perdere il proprio "individualismo" giapponese. Nella pratica, Sōseki scrive quasi come un Proust, ma scrive cose di giapponesi con un fraseggio alla giapponese, interessandosi soprattutto ai problemi nati da questa "modernità d'importazione" con la quale gli intellettuali dell'epoca dovevano immancabilmente confrontarsi (e che, come lui stesso ammette, non erano capaci di comprendere, in quanto troppo distante). Nel suo saggio sull'individualismo Sōseki estende questa riflessione a un discorso di tipo sociologico: gli individui sono felici se sono liberi di costruire la propria individualità nel rispetto di quella altrui, e lo Stato deve intervenire a limitare questa libertà individuale soltanto in caso di guerre o crisi economiche. Ovviamente il denaro è un mezzo coercitivo e pertanto industrialismo e consumismo non accrescono le libertà individuali, ma le limitano, allo stesso modo dei socialismi. La lettura che ho dato a questo scritto è quella della formulazione di un "anarchismo di destra" molto figlio del suo tempo: è chiaro che soltanto le persone libere, talentuose e fortunate (nonché capaci di reggere il peso della solitudine) possano sviluppare appieno la propria individualità, mentre invece i meno abbienti e gli individui scarsamente intelligenti si facciano per forza di cose manipolare. E' facile infatti che questo "anarchismo di destra" giapponese diventi snobismo intellettuale: non per nulla Akutagawa, erede spirituale di Sōseki, si suicidò giovanissimo come reazione al deperimento dei valori giapponesi, quindi per protesta verso la mediocrità dei manipolabili; in ultima sintesi, per puro snobismo. E' da notare comunque che questo "anarchismo di destra Sōsekiano" influenzerà, tra i tanti, anche il fumettista Matsumoto Reiji (ai miei occhi Capitan Harlock, dal punto di vista dei contenuti, è praticamente il saggio di Sōseki portato in animazione).
*-----* 道草 *-----*
MICHIKUSA (1915, "Erba lungo la Via" nell'edizione autoprodotta curata interamente da Antonio Vacca)
"Nulla nell'umana esistenza può giungere a un reale compimento! Quello che è accaduto un tempo si ripeterà in futuro, in un eterno perpetuarsi. Non c'è scampo o salvezza! A mutare è la sola forma, la mera superficie della realtà; ed è tale travestimento che inganna e travaglia la ragione umana!" Tali parole erano fiorite sulle labbra dell'uomo, come ombre dai cupi riflessi.
La moglie rimase in silenzio. A un tratto, sollevò la bambina e cominciò a baciarne le guance rosate, esclamando: "Cha brava bambina! Cha brava bambina! Noi non sappiamo di cosa stia parlando tuo padre!"
Questo è un libro interamente e dichiaratamente autobiografico. Viene narrata la vita di Sōseki a partire dal suo ritorno dall'Inghilterra sino alla nascita della sua terza figlia (con la quale più o meno coincide l'inizio della sua attività di scrittore professionista). In italiano il libro esiste soltanto come autoproduzione: la traduzione di Antonio Vacca a occhio mi sembra buona; inoltre l'edizione è stata confezionata con molta passione (ci sono delle illustrazioni interessanti, la copertina è molto bella: finalmente non c'è la solita geisha che non c'entra niente con la sostanza dell'opera). Il problema è tuttavia quello tipico di tutto il self publishing: manca un editing adeguato. Il virgolettato infatti è talvolta incorretto, ci sono molti typo e apostrofi persi per la strada; nondimeno, le E maiuscole con l'apostrofo al posto dell'accento mi fanno rabbrividire (per carità, le uso pure io in questa sede, ma nei libri sarebbe opportuno usare ALT + 0200). Per il resto chapeau, abbiamo uno dei romanzi più importanti dell'autore in italiano. Michikusa infatti è un quasi capolavoro, "quasi" soltanto per via della sua ripetitività (va bene che Shimada, il patrigno dell'alter ego dell'autore, sia il "main villain" della situazione e quindi debba apparire un sacco, ma gli episodi in cui va a chiedere soldi all'economicamente impossibilitato aspirante scrittore, tentando ogni volta di circuirlo e ingannarlo, sono troppi e tutti uguali tra loro). Ciò premesso, Michikusa è talmente tanto un'affresco sulla miseria umana, perlopiù privo di qualsiasi forma di morale e del tipico didascalismo dell'autore, che sembra avanti di una cinquantina d'anni rispetto a quando è uscito. In esso poi, pur essendo un romanzo, vi è praticamente tutto il cinema di Ozu.
Sōseki ci racconta della sua adolescenza infelice e del suo essere stato succube dei genitori adottivi, che da un lato lo viziavano e dall'altro lo manipolavano; il difficile rapporto con i parenti e con un mondo in veloce trasformazione che sembra lasciarlo perennemente indietro; la sofferenza derivante dal suo lavoro malpagato di insegnante. Le vicende si avviano quando Shimada, caduto in disgrazia, inizia a chiedere soldi al figliastro, credendolo benestante per via della sua istruzione. Kenzō, nome dell'alter ego di Sōseki, inizialmente aiuta il vecchio, ma poi quest'ultimo se ne approfitta. La cosa sembra diventare un tacito paradosso morale sulla natura umana: vale veramente la pena aiutare delle bestie antropofaghe - antropofagia che tra l'altro viene incitata dalla spietatezza della società giapponese - e opportuniste? A ciò l'autore non fornisce alcuna risposta. Il focus rimane comunque sul rapporto di Kenzō con la moglie: la nevrastenia di lei, i continui litigi, la famiglia di lei che fa pesare l'unione tra i due dato che non l'ha mai approvata... I problemi del tanto decantato "individualismo" di cui il saggio dell'anno precedente, che quando viene applicato alla vita familiare finisce per far impazzire ancora di più una donna sola e tormentata, che tra le tante cose sembra altresì soffrire per il suo non essere allo stesso livello intellettuale dello scrittore (che da bravo partner non manca mai di farle pesare la sua scarsa intelligenza). I due apici dell'agonia si hanno quando lei cerca di tagliarsi con un rasoio e lui la blocca, e poi quando, dopo un violento litigio, lei va di matto e lui la lega con una corda a sé, un po' come accade in un film di Kitano Takeshi di inizio anni duemila, Dolls (che tra l'altro è uno dei miei preferiti). Eventuali considerazioni filosofiche non vengono comunque messe in atto: è il lettore che deve trarre le sue conclusioni, essendo quest'opera puramente autoriparativa, forse scritta con la consapevolezza stessa della morte (l'anno dopo Sōseki morirà, lasciandosi dietro molti rimpianti). Il tema della vecchiaia è infatti ricorrente, con il protagonista che invidia la giovinezza dei suoi studenti, che contrariamente a lui non hanno tutti questi traumi e dolori del passato da portarsi dietro, e che rimane interdetto di fronte al deperimento fisico della moglie e della sorella. Osservando poi il suocero fallito, che da uomo di successo si deve accontentare di un banale lavoro di assicuratore a causa di un rovescio di fortuna, Sōseki trae un bilancio sull'inutilità ontologica della condizione umana, cosa che molto probabilmente, per un uomo idealista come lui, è stata un po' l'apice della sofferenza (e penso che sia stata questa riflessione ad averlo spinto a diventare uno scrittore).
E qui mi fermo: finito Michikusa, Sōseki inizierà a scrivere una nuova autobiografia, ma come avevo accennato, nel 1906 verrà stroncato da una commistione di sofferenze fisiche e psicologiche per lui ormai intollerabili. Si spegneva così, a soli 49 anni, uno dei più grandi scrittori mai esistiti, nonché il primo scrittore giapponese della modernità.
Gran bella disamina di un autore che purtroppo non ho ancora letto nulla delle sue opere. Come hai fatto notare nella tua analisi sembra avere diversi punti di contatto con la poetica di Ozu seppure con una visione ancor più pessimistica e misantropica della società giapponese e dell'essere umano in generale; per esempio in Viaggio a Tokyo nonostante la forte drammaticità degli eventi c'è sempre uno spiraglio di luce e di candida umanità rappresentato dal personaggio di Setsuko Hara.
RispondiEliminaP.S. sto leggendo Moby Dick molto lentamente ma lo sto amando e so che è uno dei tuoi romanzi preferiti. Tra i suoi altri romanzi mi attirava molto anche "l'uomo di fiducia" per caso lo hai letto?
Ciao, benvenuto. In effetti personaggi come quello di Setsuko in Soseki non li ho mai letti. Di solito lui usa la moglie come modello, quindi abbiamo spose nevrotiche e malate. Di Melville ho letto soltanto Moby Dick e Clarel.
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