L'assenza di muri e di elementi naturali fa convergere lo sguardo dello spettatore unicamente verso la condizione umana: è un film sugli esseri umani, non su altro. Le vicende umane sono farsesche e pertanto uno studio "filosofico" sulla natura umana non può che avvenire sul palcoscenico. Di mio ho colto in Dogville una critica al puritanesimo americano; inoltre, nonostante il regista sia dichiaratamente cattolico, in questo film sembra quasi che il perdono cristiano non sia possibile in quanto gli esseri umani per loro natura sono assimilabili a parassiti cattivi tendenti al solipsismo, pertanto incapaci "strutturalmente" di amare (e in merito al solipsismo, il significato del personaggio di Tom, il filosofo "razionalista" in perenne fase orale, narcisista e manipolatore forse anche a sua stessa insaputa, è palese). La Kidman, la bella ragazza giovane che fugge dai gangster per rifugiarsi in questo paesino di quindici anime, assume quasi connotati messianici: lei dà l'amore incondizionato alle bestie, i "cani" che abitano il paesello (e notare che il vero cane non viene rappresentato in scenografia, allo stesso modo della natura), ma i cani se ne approfittano e, una volta che si impauriscono (l'arrivo della taglia sulla testa della Kidman), diventano sempre più violenti e cattivi. Il cane diventa quindi la Kidman, che viene incatenata e abusata a oltranza: anche in questo caso ricalca un po' la figura del Cristo, che dapprima attuava l'amore verso gli esseri umani, inclusi gli ultimi, e che poi dagli ultimi veniva fatto crocifiggere. I mafiosi sono un po' come gli angeli dell'apocalisse e il loro capo mi è parso una metafora del Dio violento dell'antico testamento.
I dialoghi sono irrealistici e anche loro debitori a un certo tipo di dramma filosofico di stampo germanico (qualcuno in giro per il web ha scritto che questo film sia in un certo senso "nicciano": molto probabilmente non aveva torto). Nonostante la scenografia sia tutta al chiuso, la regia è molto virtuosistica e curata. Se vogliamo vedere i mafiosi come gli uomini di città e la Kidman come la persona che fuggendo dalla città pensa di trovare la pace in provincia, direi che il film ci ricorda che gli esseri umani sono gli stessi ovunque, cambiano soltanto le modalità della loro "umanità" o "dis-umanità", se vogliamo essere più realistici (la misantropia in fin dei conti è un frutto dell'albero del realismo). L'assenza dei muri nella scenografia mette tutti allo scoperto nella loro intimità: senza pareti divisorie cadono anche le maschere e si può osservare dove le persone diano il "meglio" di loro stesse, ossia nell'ambiente domestico, al riparo dalla pressione sociale e dagli sguardi altrui. Allo spettatore che osserva la scenografia di Dogville, in cui non esistono pareti (ma in cui i personaggi si comportano come se ci fossero), pare quindi di vedere degli animali: in un certo senso, sono proprio i muri divisori a nobilitare le persone, perché nascondono i loro lati più truci e meschini agli altri. Ciò detto, il punto più alto del film è indubbiamente il finale, simbolico in tutta la sua potenza visiva e concettuale nonché allegorica: se i parassiti non imparano ad amare, ossia ad accogliere veramente l'altro senza approfittarsene e sconfiggendo la paura, il loro destino è l'autoconsunzione. In parole povere: la morte.
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