Titolo originale: Digimon Tamers
Regia: Yuko Kaizawa
Soggetto: WiZ, Chiaki J. Konaka
Sceneggiatura: Chiaki J. Konaka
Character Design: Nakatsuru Katsuyoshi
Musiche: Arisawa Takanori
Studio: Toei Animation
Formato: serie televisiva di 51 episodi
Anni di trasmissione: 2001 - 2002
Nel 2001, nonostante il passaggio al nuovo millennio
fosse già avvenuto, le leggende sul fantomatico millennium bug
non erano ancora del tutto
svanite. In Giappone – e non solo - nei primi anni della
“nuova era” il contesto non era poi così diverso rispetto alla
seconda metà degli anni novanta; la transizione verso un orizzonte
temporale ignoto e a suo modo “astratto”, assai mitizzato e
temuto dai media, portava con sé tutte le vecchie fobie e paranoie
di una società decisamente poco disposta al cambiamento, che aveva
sperimentato il peso dell'incertezza con la crisi economica novantina
e, sin dagli anni ottanta, ricercato una comunione animistica e
sacrale con la tecnologia, la quale, venendo percepita come un
qualcosa “divino” grazie allo shintoismo, quando s'incominciò a
pensare che potesse manifestare i suoi lati negativi - sopratutto se
a livello digitale e informatico - inquietò parecchio i giapponesi,
che rimanevano spiazzati nell'ammettere che avrebbe potuto
trasformarsi da dio benevolo e utile alla vita di tutti i giorni nel
peggiore dei demoni, un “oni”
il quale, una volta andato fuori controllo, avrebbe minato la società
nelle sue fondamenta. La terza serie animata dedicata ai videoludici
“mostri digitali” creati dalla WiZ nel 1997 al fine di emulare il
successo planetario del Tamagotchi,
quasi come se in un contesto del genere l'avesse deciso il destino,
viene affidata interamente a Chiaki J. Konaka, uno dei creatori –
nonché sceneggiatore – di “serial experiments lain”, uno degli
anime più complessi, iconici e profondi mai realizzati, che nella
seconda metà degli anni novanta aveva spiazzato pubblico e critica
col suo innovativo tecno-animismo duro e privo di compromessi. Nasce
così “Digimon Tamers” - non a caso definito da alcuni come un
«“serial experiments lain” per
bambini» -, la serie più matura e introspettiva del brand.
Ben conscio che il target primario della sua opera
per volontà dei produttori di giocattoli debba essere quello
infantile, Chiaki J. Konaka, abituato a scrivere sceneggiature di
anime per adulti, decide di impegnarsi al massimo delle sue
potenzialità nella realizzazione della sua nuova creatura,
conferendo ai digimon e all'ambiente in cui si muovono un taglio più
realistico: innanzitutto, gli
“yokai” digitali che danno il nome all'opera diventano
delle intelligenze artificiali create dall'uomo, il cui scopo
primario, proprio come accade nel regno animale, è combattere tra
loro per potersi “mangiare” a vicenda (ovviamente assorbendo i
dati dei loro simili uccisi in battaglia). Nondimeno, nel momento in
cui il mondo digitale in cui essi vivono e quello materiale si
sovrappongono – proprio come accadeva in “serial experiments lain” tre anni prima, in cui il cyberspazio si fondeva col mondo
reale per mezzo della risonanza Schumann -, viene contemplata la
possibilità di una evoluzione/digievoluzione non più indotta
dall'assimilazione dei dati della preda uccisa come prestabilito
dalle leggi di digiworld, ma
dal contatto con un tamer (ovvero un “domatore” di
digimon). Per i “mostri digitali” questa nuova modalità di
crescita è strettamente correlata al livello di profondità del
rapporto d'amicizia che li lega al loro patner umano; il punto di
arrivo di tale percorso è la fusione tra uomo e digimon, che
nell'opera equivale ovviamente a un qualcosa di divino: la
tecnologia, caratterizzata dalle stesse leggi della natura (di nuovo,
shintoismo), diventa tutt'uno con i protagonisti della serie in
un'armoniosa unità indivisibile, che oltre a segnare l'avvento della
maturità dei bambini e il raggiungimento della comunione spirituale
con i loro amici digitali, simboleggia altresì la perfetta fusione
animistica tra uomo e macchina, nella quale quest'ultima viene
definitivamente “addomesticata”, umanizzata e controllata.
Al fine di “sincronizzare” il franchise dei
digimon con gli aspetti della vita quotidiana dei piccoli
telespettatori, in “Digimon Tamers” viene introdotto il Card
Slash, ovvero i
protagonisti della serie possono utilizzare delle carte del trading
card game dedicato ai digimon (ben noto ai bambini giapponesi sin
dal 1998) per potenziare il loro
“yokai” durante i combattimenti. In modo analogo a quanto
accadeva nei tokusatsu televisivi settantini, l'atto di strisciare le
carte da gioco sul digivice (quella
specie di Tamagotchi che hanno in dotazione i tamers) assume i
connotati di un rituale in piena regola, coadiuvato dalla ripetizione
di una sequenza carica di coolness factor la quale, allo
stesso modo di quella della digievoluzione,
cambia di personaggio in personaggio e viene accompagnata da un
incalzante brano di sottofondo. Oltre a coinvolgere i bambini che
all'epoca accorrevano nelle sale da gioco per sfidarsi con le loro
carte, il Card Slash accresce il realismo voluto da Konaka
nell'opera e rende le battaglie tra digimon leggermente più
complesse rispetto a quelle delle serie precedenti, in quanto in esse
la componente strategica assume una maggiore rilevanza.
Essendo un anime – almeno teoricamente - per
bambini, “Digimon Tamers” presenta una narrazione molto lineare,
la cui chiave di volta è l'interazione tra i vari personaggi, siano
essi adulti, bambini o esseri provenienti dai meandri più remoti di
digiworld. Sino al
ventiquattresimo episodio le vicende si svolgono lentamente e
“pacificamente”, lasciando allo spettatore il tempo per
familiarizzare con i vari protagonisti; giunto il trentaquattresimo
episodio, invece, l'opera si rivela per ciò che è realmente, ovvero
un anime che soltanto nell'apparenza pare user-friendly,
sicché nella sostanza presenta tutti i crismi tipici del cupo filone
della Nuova Animazione Seriale introdotto da “Evangelion”
a metà anni novanta, in particolare dello stile personale di Chiaki
J. Konaka – uno dei massimi esponenti della suddetta corrente
stilistica -, del quale il reset the world, l'introspezione
psicologica dei personaggi, l'esoterismo, il simbolismo e il
citazionismo colto sono i tratti fondamentali. Per quanto concerne
gli aspetti tecnici, “Digimon Tamers” si rivela nella media per
le produzioni Toei del suo periodo: la regia è perfettamente
funzionale a quanto narrato – e regala allo spettatore innumerevoli
scene commoventi, cariche di pathos e assai ispirate -, mentre invece
le animazioni, causa crisi economica ed elevato numero di episodi,
sono soggette alle leggi del risparmio. Nonostante abbia fatto molto
parlare di sé all'estero, la terza serie sui digimon in Giappone non
ebbe un'accoglienza delle migliori (si parla di uno share del 10,2%).
E' fondamentale notare che “Digimon Tamers” è una serie del
tutto indipendente dalle due precendenti: sebbene Konaka abbia
ricevuto durante la lavorazione dell'anime alcune lettere nelle quali
i fan lo invitavano ad inserirvi riferimenti a “Digimon Adventure”
e al suo sequel, egli, siccome riteneva ingiusto e disonesto da parte
di uno scrittore cedere a questo tipo di richieste, si rifiutò
categoricamente di inserire del fanservice nell'opera (gli autori di
anime dell'oggidì avrebbero molto da imparare da Konaka).
Quando crea i suoi personaggi, il geniale
sceneggiatore cerca dapprima di caratterizzarli in modo che siano
credibili come “esseri viventi”, e poi, soltanto in un secondo
momento, li dota di un passato e stabilisce i dettagli del contesto
nel quale si muovono. Questo fa sì che, in quanto a loro modo
“vivi”, gli attori di Konaka crescano, maturino, si pongano delle
domande e agiscano in modo realistico alle circostanze esterne nelle
quali si ritrovano invischiati. Per quanto concerne il cast di
“Digimon Tamers”, questa regola viene del tutto confermata,
grazie altresì al contributo del character designer Katsuyoshi
Nakatsuru, del quale Konaka ha dichiaratamente apprezzato la potenza
espressiva delle illustrazioni, che sono state per lui una valida
fonte d'ispirazione nella creazione di alcune figure indimenticabili.
Takato, il protagonista principale della serie, è un ragazzino come
tanti altri, del tutto privo di qualità speciali. I produttori di
“Digimon Tamers” si dimostrarono inizialmente refrattari a tale
caratterizzazione, in quanto fraintendevano il tipo di normalità
voluta dal creatore con l'immagine mentale di un personaggio
“silenzioso” e “ritirato”. Dopo numerose insistenze, Konaka
ebbe via libera, e prese forma quel bambino ordinario, determinato e
solare il cui più grande piacere è costruirsi il proprio digimon –
Guilmon - per poi giocarci in tutti i momenti liberi della giornata.
Quest'ultimo è liberamente ispirato ai kaijyu, i mostri
giapponesi come Godzilla o Gamera; essendo un otaku di prima di
generazione – guardacaso la stessa del suo “collega” Hideaki
Anno -, Konaka ammette di essere cresciuto con “Ultraman” e i
film sui kaijyu, che hanno avuto su di lui un forte impatto
formativo. L'amore di Konaka per i digimon deriva dal suo associarli
– sebbene egli riconosca che ciò in realtà sia improprio, giacché
i “mostri digitali” sono dei “mostri dell'era moderna” e non
del passato – ai kaijyu televisivi del suo tempo. E'
interessante notare che inconsciamente, come egli stesso ammette,
Konaka abbia riversato in “Digimon Tamers” un'idea di base che
intendeva utilizzare nel progetto di un film – poi accantonato –
sui mostri, da lui concepito e sviluppato con il fratello regista
Kazuya Konaka: un bambino incontra un piccolo kaijyu,
quest'ultimo lo segue a scuola e poi scoppia il panico. Nelle prime
tre puntate della serie, sebbene i dettagli dell'idea originaria dei
fratelli Konaka sia diversa, l'artista ha avuto modo di realizzare un
progetto a lui doppiamente negato – il concept
filmico dei fratelli Konaka era stato da loro scritto e proposto per
quel remake di Gamera che in seguito verrà affidato a Kazunori Ito e
Shuusuke Kaneko, “Gamera:
Guardian of the Universe”, rivolto ai nostalgici e non ai bambini
(il pubblico più idoneo a quanto steso dai due Konaka).
Altri riferimenti
all'immaginario otaku di prima generazione presenti in “Digimon
Tamers” sono la digievoluzione finale di Guilmon, Dukemon, il cui
volto ricorda molto quello di “Mazinger Z”, e Justimon, palese
omaggio a “Gekko Kamen”, nonché i tipici rimandi apocalittici
onnipresenti nelle creazioni dell'autore.
Guilmon,
mostriciattolo innocente e “puro” nella sua “animalità”, è
ben diverso da Impmon, il diavoletto problematico che la WiZ
intendeva imporre come digimon principale dell'opera (fatto al quale
Konaka si era fermamente opposto, dato che voleva il suo illibato
kaijyu
come protagonista). Impmon è un disadattato, traumatizzato da due
padroncini che se lo contendono selvaggiamente come se fosse un
pupazzo e fermamente deciso ad accrescere ad ogni costo il suo
potere, giacché è perennemente afflitto da un forte senso
d'inadeguatezza, che gli
impedisce d'interagire con esseri umani e digimon senza manifestare
il suo disagio tramite provocazioni e prese in giro. Il sarcastico e
tormentato demonietto – in gran parte scritto da Atsushi Maekawa,
sceneggiatore che tra l'altro non viene nemmeno accreditato nello
staff della serie - è uno dei personaggi meglio caratterizzati di
“Digimon Tamers”, la cui crescita passa attraverso un grande
errore - proprio come il Faust, egli vende l'anima ad uno degli
antagonisti per ottenere il potere che desidera, potere che, preso
com'è dalla rabbia e dalla sua psicosi, il digimon utilizza nel
peggiore dei modi possibili, creando il massimo danno -, il senso di
colpa e la depressione ad esso conseguenti, la rinascita spirituale e
la presa di coscienza finale, nella quale questa volta Impmon riesce
a trasformarsi in Beelzebumon (la sua digievoluzione ultima, uno dei
digimon a parer mio più carismatici e badass
del brand) utilizzando questa volta il suo grande potere per
redimersi – sia agli occhi dei suoi padroncini che degli amici che
ha ferito. Finalmente, una volta maturato, Impmon sarà in grado di
accettarsi e di accettare gli altri, nonostante tutti gli errori
compiuti in passato (personalmente, nell'epopea di Impmon ho letto
una velata critica al modello americano, basato sulla competitività,
sulla prevacarizione del prossimo, sul successo a tutti i costi anche
a scapito della coesione sociale - valore fondamentale per i
giapponesi. Infatti, la redenzione di Impmon, dapprima solitario
predone insensato paragonabile a quei cowboy americani senza legge e
morale - Beelzebumon che vaga per il deserto senza meta su una moto,
armato di due fucili -, consiste proprio nell'accettazione del legame
emotivo col gruppo e nella soppressione dell'egoismo cattivo che
nasce da un individualismo “strumentalizzato”, malinconico, irragionevole e privo di consapevolezza). Ciò detto, in origine la caratterizzazione del piccolo
disagiato non doveva essere quella realistica e sentita sviluppata da Maekawa e Konaka:
secondo i piani della WiZ, Impmon avrebbe dovuto essere uno dei
cattivi principali sino a metà serie. Infatti il gioco
“Digimon Medley” riflette pienamente questo fatto.
Ruki Makino, entrata nel cuore del fandom per la sua
personalità e verosimiglianza psicologica, è indubbiamente un
personaggio memorabile, sebbene le premesse della sua
caratterizzazione siano prevalentemente legate al marketing.
Inizialmente, il produttore Hiromi Seki voleva che i tre
protagonisti principali di "Digimon Tamers" non fossero tutti maschili, e che nel gruppo
fosse presente un gaijin o comunque un bambino non cresciuto
in Giappone. Ma le alte sfere della Bandai (l'azienda sponsor della
serie), in virtù delle indagini di mercato, sapevano che i
giocattoli basati su figure femminili non avrebbero riscontrato un
buon successo presso il fandom dei digimon (il quale è
prevalentemente maschile), pertanto Konaka e i suoi collaboratori
ebbero l'idea di rendere l'unica ragazzina del gruppo più forte di
tutti gli altri, e di accoppiarla con un digimon altrettanto potente.
Nelle fasi preliminari di pianificazione, il creatore della serie aveva in mente di rendere il suo maschiaccio simile alla
Trinity di “Matrix” (le bozze iniziali del personaggio stese dal
character designer riflettono pienamente questo fatto). Soltanto in
un secondo momento Konaka e Nakatsuru vennero illuminati da una
formidabile intuizione: l'acconciatura “ad ananas” che fa di Ruki
un personaggio a suo modo unico. Nonostante la ragazzina dovesse
essere forte per le esigenze di marketing di cui sopra, Konaka non
voleva in alcun modo che utilizzasse un linguaggio duro e volgare. Molti sforzi dell'autore furono diretti verso la rappresentazione del
contrasto tra il lato più adulto della suddetta e quello più
infantile, una dicotomia psicologica la quale, assieme al rapporto
conflittuale che la protagonista ha con la madre (che la tratta come
amica e la fa vestire da donna, cose che Ruki non accetta in alcun
modo), contribuisce a creare una personalità contorta e particolare.
E' fondamentale notare che Ruki vive in una famiglia senza padre in
quanto Konaka, nel periodo del concepimento di “Digimon Tamers”,
aveva fatto delle ricerche sul numero di bambini delle scuole
elementari che vivevano senza una figura paterna di riferimento o in
una famiglia composta da un solo genitore, scoprendo che questi casi
erano molto diffusi nel Giappone dell'epoca. Sebbene l'essenza della
personalità di Ruki non sia dovuta all'assenza di una figura paterna
di riferimento, mediante la sua situazione familiare Konaka si
rivolgeva a quei bambini i quali, proprio come lei, avevano vissuto
in prima persona la crisi della famiglia giapponese tradizionale.
Come fa notare l'artista, nell'ultimo episodio della
serie Ruki asserisce che «per gli esseri umani non è facile
cambiare»; ma, ironia della sorte, ella è proprio il
personaggio che alla fine più è cambiato in assoluto – se prima,
quando era chiusa in sé stessa e incurante di stabilire un legame
affettivo col suo digimon, l'adorabile “testa d'ananas” indossava
una maglietta con un cuoricino spezzato, quando avviene la sua
maturazione se la toglie, e ne indossa una con un cuore integro. La
crescita di Ruki è un percorso che porta da frammentazione a unione,
sia interiore che esteriore, e la naturelezza del suo sviluppo è
stata percepita anche dallo stesso Konaka, che fa notare come la
relazione tra Ruki e Renamon si sia evoluta spontaneamente, senza che
gli sceneggiatori se ne rendessero conto. Certi processi creativi, in
fondo, vengono direttamente dall'inconscio, che li prestabilisce
autonomamente per poi dirigerli verso l'esterno, mediante varie forme
che paiono plasmate col cuore. Infatti, lo sceneggiatore di “serial
experiments lain” è stato molto felice e soddisfatto del lavoro
svolto su “Digimon Tamers”, anche per quanto concerne il film
"Runaway Digimon Express", nel quale a suo dire il regista
Tetsuharu Nakamura (che nella serie aveva lavorato come assistente
alla regia) e lo sceneggiatore Hiro Masaki (presente anche lui nello
staff dell'opera televisiva), nonostante egli non fosse presente
durante la lavorazione, erano riusciti a prestare la dovuta
attenzione agli aspetti psicologici presenti nella serie e a
illustrare i retroscena inerenti la famiglia di Ruki che in essa non
venivano esposti.
Ritornando alla nostra “testa d'ananas”, è da elogiare
la scena nella quale, dopo un momento introspettivo carico di pathos,
ella si fonde con Renamon raggiungendo il grado più alto della
digievoluzione, una sequenza di grande bellezza accompagnata da un
canto melodioso, quasi sacrale – a sottolineare il carattere divino
della trasformazione vi è un'analogia di sottofondo tra Sakuyamon e
la Dea Lunare del matriarcato, che guardacaso è la
digievoluzione successiva a Taomon, il digimon del Tao. Il
canto è altresì una delle armi della sintesi tra Ruki e il suo
digimon, altro particolare molto brillante voluto da Konaka in
persona.
Il ragazzino immigrato in Giappone voluto dal
produttore Hiromi Seki si tratta del terzo membro del trio di
personaggi principali, Jianliang Lee, che per volere di Konaka non
viene reso completamente straniero, ma mezzo cinese e mezzo
giapponese - questa scelta era dovuta all'incremento degli studenti
gaijin all'epoca riscontrato nelle scuole elementari
nipponiche.
Lee-kun (così inizialmente lo chiama Takato,
utilizzando un suffisso che denota rispetto ma anche un certo
distacco) è un pacifista convinto, il cui scopo iniziale, a detta
stessa del suo creatore, è quello di fornire un punto di vista
differente rispetto ai valori e alle credenze infantili di Takato.
Ciò premesso, anche questo personaggio andrà incontro ad un
graduale processo di crescita, e se dapprima si rifiutava di far
evolvere il suo Terriermon (già introdotto dal film di “Digimon
Adventure 02” uscito un anno prima del qui presente “Digimon
Tamers”), in seguito comprenderà che il pacifismo sterile e fine a
sé stesso è inutile. Jianliang Lee è il personaggio che vive il
dramma familiare più complesso, e la sua tensione interiore,
dapprima sfogata sul suo digimon, con l'avanzare degli episodi
colpirà i suoi vari cari, trasmettendo allo spettatore le difficoltà
intrinseche presenti nella crescita di un piccolo uomo il quale, per
quanto equilibrato, intelligente e dotato di buon senso, si ritrova a
dover stabilire con una certa difficoltà quale sia la sua posizione
nel mondo e che ruolo giochino le altre persone in tale demarcamento.
L'ambientazione di “Digimon Tamers”, dato che
uno degli scopi prefissati di Konaka è quello di rappresentare gli
effetti che potrebbe avere l'esistenza dei digimon nel mondo reale,
per la maggiorparte della serie consiste nel quartiere di Shinjuku
ovest (la tana di Guilmon nel parco, il tunnel in cui i bambini
nascondono la sua digievoluzione perché troppo ingombrante, la
scuola di Takato ecc. sono tutti luoghi realmente esistenti). Questa
scelta stona completamente con le due serie precedenti, nelle quali
l'ambientazione prevalente era un mondo digitale fantastico dotato di
un certo sense of wonder. Ciò premesso, anche in “Digimon
Tamers” ad un certo punto i protagonisti si recheranno a digiworld,
ma, nuovamente, esso si rivelerà del tutto antitetico rispetto ai
suoi antesignani: il mondo digitale di Konaka è surreale, spietato,
e in esso il mondo reale costituisce una sorta di sole oscuro dotato
di anelli di campi di dati che “illumina” delle tetre lande
desolate (questo suggestivo design è dovuto al consolidato talento
visuale di Shinji Aramaki, che cura altresì la CGI delle splendide
scene biomerge delle digievoluzioni finali). In tale
dimensione “parallela” - liberamente basata sul concetto di World
Wide Web - non vivono soltanto i digimon, ma anche i digignomi,
delle creature ispirate alla mitologia celtica che si sono evolute in
modo indipendente sia dall'uomo che dai digimon. E poi, ibernato
nelle profondità dell'abisso virtuale, vi è il D-Reaper, un
programma adibito a “resettare” il mondo in cui si trova -
riportandolo nello “stato fondamentale” equivalente al vuoto -
nel caso in cui il numero di specie viventi in esso presenti sorpassi
l'ammontare di RAM necessaria a mantenerlo in vita. Inutile dire cosa
possa succedere nell'eventualità in cui esso diventi operativo nel
mondo reale postmoderno, così sovraccarico di entropia, simulacri e
informazioni fini a loro stesse; ma a questo punto dello scritto, è
ancora troppo presto per tentare di imbastire delle riflessioni sulla
geniale intuizione narrativa di Konaka.
Sempre nel momento in cui gli abitanti di digiworld – realisticamente parlando – s'insinuano in quello che rappresenta il nostro mondo, è inevitabile che l'agenzia governativa che dapprima monitorava le comunicazioni elettroniche del pianeta - Hypnos, palese citazione all'omonimo racconto breve di H. P. Lovercraft - si prefigga un nuovo scopo, ossia di cancellare tutti i digimon dalla faccia della terra, in quanto ovviamente li considera pericolosi per la salvaguardia del genere umano. Inizialmente, lo scopo di Hypnos – comandata da Mitsuo Yamaki, misterioso “man in black” che indossa gli occhiali da sole anche di notte e apre e chiude compulsivamente un vecchio accendino zippo in qualsiasi circostanza – è di costruire un'arma in grado di distruggere i digimon: questo obbiettivo porterà alla nascita di Yuggoth (marchingegno che porta lo stesso nome di un pianeta immaginario del ciclo di Cthulhu) e Shaggai (citazione del racconto breve “Gli Insetti di Shaggai”, scritto da Ramsey Campbell e basato su un'idea di Lovercraft), temibile arma in grado di strappare via l'anima dei digimon dal loro corpo, dando origine a scene lievemente disturbanti.
Se nella prima parte dell'anime Mitsuo Yamaki si
rivela un pericoloso antagonista che agisce nell'ombra, col
proseguire della storia capirà di aver sbagliato, e si unirà alla
causa dei bambini aiutando i creatori di digiworld e dei digimon –
il Wild Bunch Group, ispirato al team di menti geniali che
creò lo Xerox Alto a inizio anni settanta e il primo gioco di
ruolo in rete, nonché ad Alan Kay, il creatore del Dynabook
-, tra i quali è presente Jiang-yu Lee, padre di Jianliang Lee e
adulto meglio caratterizzato dell'opera, giacché nello sviluppo
delle tematiche di “Digimon Tamers”, l'interazione padre-figlio
per Konaka è fondamentale. Come molti anime del suo tempo che
tentano di affrontare l'avanzare della postmodernità con ricette
tipicamente giapponesi quali amicizia e coesione sociale/familiare,
la terza serie dedicata ai digimon, sebbene ciò non sia stato
inizialmente previsto dal suo creatore, fornisce dei ritratti
familiari molto umani e credibili. In particolare, il settimo e il
ventiquattresimo episodio si focalizzano principalmente sul rapporto
tra genitori e figli, genitori che, escluso lo “straordinario”
Jiang-yu Lee, sono persone normali, di tutti i giorni, che nel
momento in cui i figli rivelano loro che dovranno recarsi a
digiworld per il bene di tutti, rischiando anche la vita - Konaka, in
modo molto coerente con i suoi intenti educativi, non vuole
assolutamente mostrare dei figli che mentono ai genitori o che
spariscono senza avvisarli -, rimarranno sconvolti, in parte
contrariati e in parte fieri del coraggio dei loro bambini. Konaka
elogerà apertamente il lavoro fatto dallo sceneggiatore Hiro Masaki
nel quarantesettesimo episodio, quello in cui viene mostrata la
reazione del padre di Juri alla psicosi della figlia: stando alle
parole del creatore, che inizialmente aveva concepito il suddetto
come un genitore freddo e distaccato, Masaki ha saputo approfondire
al meglio questo piccolo particolare, espandendolo sino al nucleo dei
drammatici risvolti dell'opera.
«Ehi, possiamo cambiare il destino?»
«Certo che possiamo.»
«[...]»
«Non possiamo cambiare il passato, ma...
Possiamo cambiare noi stessi in modo tale da
poterlo accettare.»
«Intendi dire che non dovremmo curarcene?»
«Anche se non possiamo cambiare il passato,
possiamo cambiare il presente.
Cambiando il presente, possiamo cambiare il
futuro.
Comunque...
Non possiamo imporre questa idea a ognuno.
Juri deve cercare di cambiare da sé.»
[Dialogo tra Ruki e Renamon]
Nel progetto di “Digimon Tamers” che presenta ai
suoi datori di lavoro, Konaka dichiara di voler comunicare ai bambini
postmoderni, che secondo lui sono
fin troppo passivi, a sviluppare una propria volontà (infatti
Takato si “costruisce” il suo digimon da solo e, come tutti gli
altri protagonisti della serie, possiede un vasto potere
decisionale). In seguito, durante la lavorazione dell'opera, lo staff
si chiede in che modo vada affrontata la morte di un digimon: se esso
debba rinascere o se la sua scomparsa debba essere una cosa
definitiva, drammatica, che lasci un senso di vuoto attorno a sé,
proprio come la morte di una persona nel mondo reale. Sin dall'inizio
della lavorazione dell'anime, Konaka aveva in mente la seconda
opzione. Per lui in un cartone per bambini la morte non va trattata
con leggerezza: infatti, la tragica dipartita di un personaggio a
serie inoltrata diventerà il punto di partenza per trasmettere un
messaggio molto forte ai piccoli telespettatori, ovvero che vita e
morte non sono affatto cose insensate, e che il destino
va compreso e accettato positivamente, senza alcuna tendenza
al nichilismo – potente monito al limite del religioso decisamente
confortante ed educativo per dei bambini che percepiscono la perdita
di valori, la solitudine, la vuotezza interiore e il disagio esistenziale dei loro
fratelli maggiori. La triste vicenda della dolce, allegra e solare
Juri, che una volta fatta l'esperienza diretta della morte di un
amico, si chiude nel suo dolore, ossessionata da un trauma
appartenente al passato (la morte della madre, avvenuta quando ella
era ancora molto piccola) e da un destino che non riesce a
comprendere, soffocata com'è dalla sofferenza e, in ultima sintesi,
dalla paura che tutto ciò che sta vivendo sia privo di ogni
finalità, non era stata inizialmente prevista da Konaka.
Quest'ultimo, nonostante assieme al regista Yukio Kaizawa (è sua
l'idea di rendere Juri una ventriloqua che ama giocare con un pupazzo
da mano) avesse già deciso nelle fasi iniziali della lavorazione il
passato del personaggio, decise di non rivelare il suo trauma
infantile sino al momento in cui non fosse servito allo sviluppo
della trama.
Come dicevo, essendo firmato da Chiaki J. Konaka,
“Digimon Tamers” non rinuncia all'esoterismo e ad alcune
incursioni nella filosofia e nel folklore orientale. Si pensi ai
Deva, le bestie sacre che dominano digiworld, che si rifanno
al mito buddhista dei Dodici Generali Celesti protettori del
Buddha della Medicina Bhaiṣajyaguru; nel buddhismo
giapponese, queste figure mitologiche vengono associate ai dodici
animali dello zodiaco cinese, pertanto, alla luce di ciò, è ben
chiaro da che fonte derivi l'aspetto fisico di questi digimon che tra
l'altro, allo stesso modo delle loro controparti mitologiche, sono
dotati di delle “armi divine” - ad esempio, i generali Śaṇḍilya
and Indra erano armati con uno scudo e una lancia, allo stesso modo
delle loro controparti digitali Sandiramon e Indramon. Gli attacchi
finali di tali bestie sacre, invece, posseggono gli stessi nomi dei
Naraka (gli “inferni” del buddhismo) citati nel Purana
di Vishnu. Sempre in modo coerente col buddhismo – ma anche col
taoismo -, “Digimon Tamers” invita a non alimentare rabbia ed
emozioni negative, tutte forme di attaccamento alle cose del mondo
che impediscono la crescita dell'individuo, negandogli l'accesso al
mistero dell'esistenza (il trentaquattresimo episodio sotto questo
aspetto è ineccepibile).
«Avevate ragione maestro. I Deva possiedono un
loro senso della giustizia.»
«E' come il tempo.
Adesso è nuvoloso, ma più avanti diventerà
sereno.
Che sia sereno o nuvoloso, noi definiamo il tutto
come yin o yang.
Ma ciò che yin e ciò che è yang è in perenne
mutamento.»
«E' proprio come quello che sta accadendo
ora...»
«Due mondi sono andati oltre i loro domini.
Ma gli esseri umani, o piuttosto, coloro che
vivono in ogni mondo, credono che la loro via sia quella giusta.»
«Che cos'è “la via giusta”?»
«Se scopri che la tua via è sbagliata, continua
a cercarne una migliore.
Questo è il significato della vita per gli
esseri umani, così come lo è per coloro che sono nati nell'altro
mondo.» [Dialogo tra Jianliang Lee e il suo maestro di Tai-chi]
Parlando attraverso il saggio cinese, Konaka
riconduce in modo totalizzante quello che accade nel suo anime ad una
manifestazione dei mutamenti del Tao, l'attività unificatrice del
dualismo cosmico yin e yang. La digievoluzione - che è
indissolubilmente legata all'evoluzione personale dei patner umani
dei digimon e, in ultima sintesi, dell'umanità intera -, simbolismo
centrale dell'opera, viene indotta da Calumon, un digimon la cui
versione software prende il nome di digientelechia – l'entelechia è
una concezione filosofica concepita da Aristotele nella quale una
determinata realtà contiene al suo interno la meta finale verso la
quale tende ad evolversi (infatti il termine è composto dai vocaboli
en e telos, ovvero “dentro” e “scopo”). Il
filosofo Tommaso Campanella aveva operato una sintesi tra la
concezione aristotelica e neoplatonica secondo la quale la natura è
un insieme di realtà viventi, ognuna delle quali animata e tendente
al proprio fine, ma, allo stesso tempo, unificata a tutte le altre,
la cui totalità è guidata verso un unico traguardo da un unico
spiritus mundi (”anima
del mondo”). Con queste premesse, la concezione finalistica del
destino di Konaka si sovrappone mirabilmente alla concezione
filosofica di un'anima del mondo/Tao che impone il mutamento
delle cose e la possibilità di ogni mondo di evolversi verso un fine
ultimo compatibile con l'unione armonica, organica e sfuggente
dell'universo - non a caso, nella descrizione cosmologica contenuta
nella “Trilogia di Valis”
di Philip K. Dick (uno degli scrittori preferiti di Konaka),
l'entelechia aristotelica viene “affiancata” al taoismo. Si pensi
inoltre al modo in cui digiworld e il mondo reale sono concatenati
l'uno nell'altro formando un'unità indivisibile nella quale gli
opposti convivono e si trasformano repentinamente (e infatti il
digitale, in “Digimon Tamers”, ha lo stesso peso del reale, e con
quest'ultimo s'interfaccia e fonde a seconda delle circostanze).
«Per le creature il Tao è indistinto e
indeterminato. Oh, come indeterminato e indistinto nel suo seno
racchiude le immagini! Oh, come indistinto e indeterminato nel suo
seno racchiude gli archetipi! Oh, come profondo e misterioso nel suo
seno racchiude l'essenza dell'essere! Questa essenza è assai genuina
nel suo seno ne racchiude la conferma. Dai tempi antichi sino ad oggi
il suo nome non passa e così acconsente a tutti gli inizi. Da che
conosco il modo di tutti gli inizi? Da questo.» [Lao-Tze, “Tao
Te Ching”]
L'anima del mondo che «racchiude gli archetipi»
non può che rimandare ad un'altra ricorrenza presente nella poetica
di Konaka, ovvero l'inconscio collettivo junghiano. Dalla
sovrapposizione delle varie stratificazioni esoteriche dell'opera
emerge in ultima sintesi il principio d'individuazione come
motore dell'evoluzione dell'individuo (simbolismo utilizzato, sebbene
in modo più approfondito e diretto, anche nel capolavoro “serial experiments lain”), che diviene padrone del suo destino
accedendo al Sé – rappresentato
dal cerchio e dal mandala: non a caso, nell'ultimo stadio della
digievoluzione, il pilota fuso col suo digimon è di fatto racchiuso
all'interno di una sfera con dei cerchi che gli orbitano attorno -
e diventando consapevole dell'unificazione onnicomprensiva, ma allo
stesso tempo indeterminata e mutevole, incarnata dal Tao. In fondo,
non è raro che in alcuni anime e manga il Tao venga messo a
fondamento di determinati cicli di creazione e distruzione, nei quali
tuttavia viene contemplata la possibilità di uno sviluppo
psicologico individuale (si pensi al “Narutaru” di Mohiro Kitoh).
Altro punto in comune di “Digimon Tamers” col
precedente “serial experiments lain” è la presenza nell'anime di
un personaggio di nome Alice (oltre a Juri, ovviamente). Nel
quarantaquattresimo episodio della serie appare Alice McCoy, figlia
del professor Rob McCoy, leader – liberamente ispirato alla figura
di Linus Torvalds - del Wild Bunch Group. L'affascinante
gothic lolita di Konaka –
che per hobby, da buon lolicon,
crea bambole delle ragazzine protagoniste dei suoi lavori, come ad
esempio “serial experiments lain”, “The Big O” e
“Malice@Doll” -, allo stesso modo dell'eroina di Lewis
Carroll, è una viaggiatrice del “mondo attraverso lo specchio”,
ovvero, in questo caso, digiworld; il suo patner è il digimon canino
Dobermon, e il suo ruolo nella serie, per quanto ella faccia poche
comparse, si rivela fondamentale nello sviluppo della trama.
Sebbene in Giappone non sia usuale portare sul luogo
di lavoro le foto dei propri cari e della propria famiglia, Rob McCoy
possiede una foto di sua figlia sulla sua scrivania perché Konaka,
durante una vacanza, aveva notato che questa usanza era molto comune
tra gli occidentali. Ciò detto, il nome “Alice” è una
ricorrenza tipica nei lavori dell'autore: nel 1995 egli aveva scritto
“Alice 6”, una serie televisiva diretta dal fratello Kazuya
Konaka – opera che tra l'altro anticipava di qualche anno il tetro
mood di “serial experiments lain”; al 1996 invece risale
il videogioco per PlayStation “Alice in Cyberland” - tipico
ibrido novantino tra gal game e avventura -, del quale Konaka
scrisse lo scenario (l'artista curò altresì lo script dell'omonimo
OAV). I personaggi principali del videogioco si chiamano Alice, Juri
e Rena (che guardacaso in “Digimon Tamers” diventerà “Renamon”).
L'archetipo “Alice” rimanda in ogni caso a quel simbolismo del
“viaggio nel mondo dall'altra parte” tipico dell'immaginario di
Konaka, autore che fa del confine tra realtà e cyberspazio –
volendo tra mondo sensibile e inconscio -, una delle chiavi di volta
della sua poetica.
Ma ora, per concludere, è doveroso imbastire alcune riflessioni sul “vero nemico” della serie. Il D-Reaper, che giace congelato nelle profondità di digiworld allo stesso modo di un Grande Antico lovercraftiano, per poi risvegliarsi una volta percepito l'aumento di entropia dei due mondi concatenati i cui confini hanno oltrepassato le loro rispettive barriere proibite, è uno degli antagonisti più truci, temibili e mostruosi dell'intera animazione giapponese. Il programma, anch'esso intriso dei concetti religiosi cari a Konaka, possiede una Juri devastata psicologicamente come se si trattasse di una divinità appartenente al pantheon shintoista intenta a far sua una giovane miko emotivamente instabile (le cerimonie religiose nelle quali delle piccole sciamane vengono “possedute” dagli spiriti sono ancora oggi diffuse in Giappone). Di nuovo, la macchina viene dotata di attributi divini, ma questa volta si tratta di una macchina pericolosa, che intende adempiere il suo dovere dopo aver giudicato l'umanità e il suo modo di vivere come “dati sovrabbondanti” dannosi ed inutili per l'universo (tutto ciò dopo essersi evoluta e aver "studiato" gli esseri umani grazie a Juri). La suggestione del possibile reset the world novantino col D-Reaper – che incarna altresì il “lato oscuro” della tecnologia, quello completamente de-umanizzato e alieno ai valori giapponesi di cui accennavo nel primo paragrafo dello scritto - si ripete (e guardacaso, il programma originario che costituiva tale mostruosa divinità, il cosiddetto Echelon, per Konaka è una creazione del dipartimento di sicurezza degli USA).
Il grande dio color sangue che approfitta di un piccolo cuore spezzato, si evolve in modo vagamente reminiscente del colloide di “Blood Music”, risucchiando in sé interi palazzi e assumendo molteplici avatar uno più mostruoso dell'altro contemporaneamente, allo stesso modo di Krishna, a parer mio si comporta come se si trattasse dell'ombra rimossa della postmodernità tutta, che affligge una società in crisi rivoltandole contro tutta la sua alienazione, il suo cinismo, la sua smania di calcolare, di sopraffare, di ampliarsi e produrre al massimo senza alcun limite, in un contesto in cui la tecnica ha preso la sua strada lasciando indietro l'uomo (Heidegger docet). Lungo tale percorso, la macchina si auto-potenzia ed espande all'infinito, avviando – non senza rinunciare ad un inquietante ghigno malefico - l'umanità decadente che l'ha creata verso l'annichilazione totale, basandosi sull'efficientismo economico (dal punto di vista dell'entropia dell'universo, per il D-Reaper l'uccisione della razza umana rappresenterebbe un – seppur microscopico - profitto), sul riduzionismo scientifico (per il D-Reaper valori, spirito e grandi narrazioni non esistono: egli si basa soltanto sulle leggi della fisica e dell'informatica fini a loro stesse) e sull'oggettificazione degli esseri umani (per il D-Reaper, gli uomini sono soltanto dati da cancellare; per il capitalismo incontrollato invece sono meri dati da cui trarre profitto, ma la sostanza a parer mio è simile), tutte caratteristiche fenomenologiche tipiche di un modo di vivere decisamente malato e patito dai giapponesi, che se lo sono visti impiantare all'interno della loro cultura in un colpo solo, senza averlo vissuto progressivamente e con continuità come l'occidente che l'ha creato. Il D-Reaper, un po' angelo della morte, un po' giudice estremo di un'umanità agli sgoccioli e un po' fredda macchina senz'anima nata nel contesto della Guerra Fredda e sviluppatasi grazie alla sovrabbondanza d'informazioni della rete e alla sofferenza di una bambina, è tutto ciò che l'uomo postmoderno ha creato senza consapevolezza. L'antidoto a tale antagonista così vicino al nostro mondo reale, inutile dirlo, è l'amore – quello vero, non quello delle pubblicità e degli slogan -, la consapevolezza, la coscienza, la comprensione, l'intelligenza e la coesione sociale – il biomerge, l'evoluzione finale in cui la macchina, contrariamente al D-Reaper, sviluppa un cuore e un'umanità, diventando tutt'uno con l'uomo/bambino giunto all'apice della sua evoluzione “spirituale”. Inutile dire che l'incitazione alla consapevolezza, l'evoluzione e la sconfitta della meccanicità fine a sé stessa – sia all'interno dell'uomo che al suo esterno - siano tutti punti cardine dell'esoterismo – di cui Konaka a quanto pare è un vero e proprio intenditore -, quello sincretistico, ovvero comune a tutte le religioni – o meglio, al lato esoterico di tutte le religioni (la religione di massa, essendo uno strumento di potere e controllo, non può dirsi esoterica). Perché in fondo, che cos'è la postmodernità se non l'ennesima ricaduta dell'uomo poco consapevole di sé stesso nelle spire della meccanicità e della non-umanità?
La potenza metanarrativa e simbolica del D-Reaper, all'epoca
della prima messa in onda di “Digimon Tamers” - coincidente con
l'attentato terroristico dell'undici settembre 2001 – ebbe un forte
impatto sul pubblico americano, tant'è che la mannaia della censura
aveva immediatamente colpito l'attacco del micidiale antagonista alle
torri gemelle di Shinjuku (scelta narrativa ovviamente scorrelata e
indipendente dal vero attentato mosso dai terroristi di al-Qāʿida).
Evidentemente, di fronte allo spettro del D-Reaper, che in questo
caso si comporta come l'ombra mediatica correlata ad una sorta di
psicosi collettiva, la rimozione è la via più facile da percorrere
per sedare il terrore. La studiosa Margaret Schwartz in un suo scritto dell'epoca riflette pienamente la crisi del suo tempo:
completamente a digiuno di shintoismo, taoismo, cultura giapponese e
filosofia orientale, ella, tirando in ballo i digimon, descrive un
conflitto percettivo tra “digitale” e “reale” in un contesto
pregno di alienazione e solitudine. Rimane scioccata dal fatto che i
digimon siano allo stesso tempo dati ed esseri viventi, e per lei il
male negli anime basati su questi ultimi è rappresentato dal rifiuto
di riconoscere che essi siano creature reali. Ma in fondo, in un
mondo in cui ognuno diventa sempre più isolato ed alienato, i mostri
digitali dei cartoni animati e dei videogiochi iniziano a dimostrarsi più veri delle persone –
«vogliamo immaginare che se amiamo i nostri oggetti
abbastanza fortemente, essi ci ameranno a loro volta. Ci
terranno compagnia.» Oppure, alcuni eventi fittizi
assumono lo stesso valore di eventi reali (ed ecco che scatta
l'isteria collettiva e la conseguente censura di molteplici scene di
“Digimon Tamers” da parte delle televisioni americane ed
occidentali). Insomma, a suo modo, “Digimon Tamers” ha –
involontariamente – centrato il bersaglio in un contesto ben più
esteso di quello giapponese, stimolando riflessioni e prese di
coscienza sul nostro modo di vivere. Molto probabilmente, la
Schwartz, così come molti altri occidentali, avrà inconsciamente
visto sé stessa in quella Juri in preda alla solitudine e al dolore,
rinchiusa all'interno di quella sorta di bolla violacea tra le due
torri gemelle di Shinjuku, all'interno del corpo del D-Reaper, che in
questo caso assume la valenza simbolica di quel mostro figlio della
tecnica fine a sé stessa che isola le persone e impedisce loro di interfacciarsi,
lasciandole lì, da sole, ad affrontare dei fantasmi interiori
impossibili da sedare senza l'ausilio di comprensione e amore.
Eppure, è proprio Culumon che tenta di comunicare con Juri nella
suddetta – bellissima e commovente – scena. Un digimon.
«Al giorno d'oggi noi scappiamo in un mondo dove i freddi,
intangibili dati sono diventati dei graziosi digimon, che sono sempre
buoni. Soltanto la curruzione del maligno può renderli rabbiosi od
odiosi. Mentre i digiprescelti lottano con i problemi legati al
lavoro di squadra, all'autostima e al senso di colpa, i loro compagni
digitali si dimostrano insegnanti preparati, anche tolleranti e
saggi. Ammetto mi sono commossa più di una volta ascoltando le
semplici prediche dei digimon: volevo disperatamente credere in
loro.»
Se uno degli intenti di Konaka era di mostrare la
fusione animistica tra uomo e digimon, basandosi sull'unità nella
molteplicità tipica della filosofia orientale, sembra quasi che ciò
che percepiscono gli occidentali, che separano il bene dal male, lo
spirito dalla materia ecc. in categorie ben distinte ed
inconciliabili tra loro, sia un riflesso indotto dalla depressione
caratteristica del loro modo di vivere, nel quale la consapevolezza,
l'interiorità, l'umanità e la sintesi degli opposti hanno lasciato
spazio al ghigno malefico del D-Reaper, il quale, ben lungi
dall'essere stato sconfitto nella nostra dimensione, ancora oggi ci
dice: «Che cos'è questo
mondo caotico? Ognuno vive secondo le proprie egoistiche azioni. C'è
qualche valore in ciò?»
Note
Tutti i retroscena contenuti nella recensione sono
stati attinti dal sito ufficiale di Chiaki J. Konaka.
Lo share delle varie serie dei digimon è consultabile in questa pagina web.
Esiste un drama cd di
“Digimon Tamers”, che gli interessati possono consultare liberamente qui.
Penso di averci speso una buona trentina di minuti per leggerla, maledetto!
RispondiEliminaPerò almeno mi sono deciso ad inserire l'anime nella lista da guardare e forse anche a breve.
La cosa negativa è che quando lo vedrò, ritornerò a leggere la recensione xD
Ahahahaha
RispondiEliminaQuesta è stata una recensione molto impegnativa da scrivere, sia perché avevo un sacco di fonti da cui attingere, sia perché ho voluto rendere omaggio all'anime che più mi ha fatto appassionare in questa difficile estate fatta di fitti dolori post operatori e riflessioni mistico-esistenziali di vario tipo. XD
Certamente non è al livello di lain, però è l'anime che mi ha fatto veramente amare Konaka come autore. Forse gli anime più complessi e carichi di significato sono proprio quelli che nell'apparenza si rivelano semplici ed ingenui.
Ah, mentre scrivevo sul D-Reaper di solito ascoltavo "Angel of Death" dei Thin Lizzy. La canzone giusta, insomma. :)
hahaha
RispondiEliminaBisogna scegliere sempre le canzoni giuste.
Molti dovrebbero prendere esempio da Konaka per il suo spirito e l'approccio che ha avuto anche in una serie come Digimon.
Buona convalescenza, la mia è finita da un po' xD