Anche in questa seconda parte dell'autunno ho letto e scritto molto. Faccio quindi un post con le recensioni delle mie letture di quest'ultimo mese, ossia un libro di Dazai Osamu, un libro di Anna Foa, un libro di Kawabata Yasunari, un libro di Giovanni Pirelli e un libro di Roberto Alajmo. I voti, come nel mio precedente post di letture autunnali, sono stati dati in scala da uno a cinque. La foto qua sopra è uno scorcio autunnale di un ben noto luogo di Milano.
- Il Sole si Spegne (Shayo, 斜陽, ossia "Tramonto"), di Dazai Osamu (5/5)
Il tempo dato al nostro corpo è limitato, e noi stessi in un certo senso siamo la sedimentazione del tempo che il nostro corpo ha esperito dalla nascita sino al presente in cui viviamo. Il tempo impiegato a pensare viene quindi sottratto al tempo in cui effettivamente si vive, e vale altresì il viceversa. Questo è il motivo per cui solitamente i grandi pensatori sono anche dei reietti sociali. Il poeta poi a parer mio è il più sfortunato tra gli intellettuali: lui pensa, ma è talmente innamorato della vita che vorrebbe farsi divorare da essa, viverla al massimo, cosa ovviamente impossibile. Egli quindi si sente debole, e la sua debolezza, fonte di disagio, è il motore della sua espressione escapistica, piagnona e autoterapica. Tenendo tutto ciò a mente, Dazai Osamu a parer mio è il più grande dei poeti moderni. "Non ho le doti necessarie a vivere, né la forza di lottare per questioni di denaro", sic. Oppure: "La vita che ho condotto non mi ha mai dato alcuna gioia. Forse soffro di impotenza nei confronti del piacere. Ho perseguito follia, depravazione e svaghi soltanto per scrollarmi di dosso questa mia ombra aristocratica".
Quando sento il bisogno di leggere qualcosa di forte, duro e nichilista nel senso più giapponese del termine, bene o male torno sempre su Dazai. Shayo è il libro che ha consacrato il poeta all'immortalità: il successo del romanzo nell'immediato dopoguerra nipponico fu epocale, tant'è che dopo la pubblicazione gli aristocratici che avevano perduto status e ricchezze per via della guerra vennero chiamati "la gente del tramonto". Le vicende narrate, così come la protagonista Kazuko, sono ispirate a Ota Shizuko (un'amante di Dazai) e al suo vissuto (ovviamente in tutto ciò non manca una componente proiettiva e autobiografica dello stesso autore). Il romanzo è redatto nel solito stile confessionale Dazaiano: scoppiata la WW2 Kazuko e sua madre perdono tutte le ricchezze e sono costrette a fuggire in campagna e a vivere di stenti. Estremamente colta, intelligente e sensibile, Kazuko è poi costretta a sporcarsi le mani con le ingiustizie e il nonsenso dello stato di Natura. Le strategie di sopravvivenza che adotta, le medesime impiegate da Dazai nella sua vita, sono la fede cristiana, della quale più che altro subisce il fascino estetico (innumerevoli le citazioni alla Bibbia che rintoccano tra le pagine), e il socialismo di Lenin e Rosa Luxemburg. La metafora del male e della malattia mentale, nonché dell'insensatezza dell'esperienza umana, è altresì biblica: un serpente che più che tentare Kazuko le si manifesta nella sua evanescenza ed ineluttabilità, come a ricordarle l'assoluta contingenza della sua esperienza e dei suoi desideri. La ragazza, d'altro canto, per non soccombere al Male, arriva addirittura a improvvisarsi ragazza rivoluzionaria nelle Wasteland di un Giappone sconfitto: ciò che infine si attuerà della sua Kakumei sarà il diventare madre, una madre solitaria, una donna senza alcun uomo al quale appoggiarsi. Ciò detto, dico a livello personale, l'impressione che ho avuto durante la lettura è stata la seguente: "Perché io, Dazai Osamu, non sono nato donna?". Kazuko, pur essendo modellata sull'amante, infatti ha molto dello scrittore, ma contrariamente a lui (e quindi a Naoji, che alla fin fine è un altro avatar di Dazai, seppur maschile) sceglie di vivere perché essa stessa è portatrice di vita. Trasfigurandosi in Kazuko è come se Dazai si riconciliasse con la sua immoralità, come se raggiungesse un compromesso con la solitudine e l'insensatezza della tanto temuta Vita. Avendo assaggiato "il crepuscolo dell'esistenza, dell'arte, dell'umanità" il nostro Tiresia con gli occhi a mandorla può quindi sublimare il sogno del poeta: non essere più un parassita debole e contingente, ma un androgino portatore di Vita. Ed ecco che infine l'arte si fa riparativa, salvifica come non mai, anche se ciò, nel caso del nostro, si rivelerà del tutto inutile. "Essere vivi... Sì, essere vivi... Un'impresa colossale, scoraggiante, che lascia senza fiato". Eh sì, è proprio così, fratello.
- Il Suicidio di Israele, di Anna Foa (3/5)
Trattasi di una breve storia del sionismo scritta da un'anziana intellettuale ebrea, che si ricollega all'attualità e quindi, senza girarci troppo attorno, allo sterminio di Gaza operato dal governo Netanyahu. Il libro è per l'appunto breve, scritto in tutta fretta per cavalcare l'attualità, ma per fortuna privo di qualsivoglia forma di paraculismo e quindi utile a imparare qualcosa sull'identità degli ebrei (per quanto riguarda la questione palestinese rimando il lettore al mio articolo su Yoram Binur). Si scopre quindi che Yeshayahu Leibowitz, ebreo ortodosso molto influente nella sua epoca, già nel 1956 si era opposto all'occupazione della Palestina, sostenendo che essa avrebbe trasformato i giudei in (parole letterali sue) giudei-nazisti; che Netanyahu è il prodotto finale del Gush Emonim, un'organizzazione di fanatici religiosi di stampo messianico fondata nel 1974 dal rabbino Tzvi Jehuda-qualcosa. Poi c'è l'èlite aschenazita della diaspora, che secondo l'autrice ha chiuso gli occhi di fronte al massacro peccando di snobismo. Lo stesso Israele viene descritto come uno Stato culturalmente non omogeneo: ci sono zone in cui prevalgono gli ebrei ortodossi, altre in cui comandano i fanatici (gli amici di Bibi, quelli che vorrebbero ricostruire il tempio distrutto nel 70 D.C. spianando le moschee palestinesi), altre ancora, tipo Tel Aviv, più progressiste e liberali. Insomma, al caos, l'essenza dell'umanità tutta, non può fuggire nemmeno il popolo ebraico, un popolo che essendo stato vittima di una catastrofe mi sarei aspettato ben più compatto. Peccato davvero per la frettolosità del libro, comunque, che tutto sommato rimane molto interessante.
- Il Paese delle Nevi, di Kawabata Yasunari (4/5)
Questo libro è un classico della letteratura giapponese moderna e fu vincitore del Premio Nobel nel sessantotto. Fu inizialmente pubblicato nelle riviste letterarie intorno agli anni trenta e in seguito continuamente rielaborato dall'autore, anche dopo la vincita del Nobel. Kawabata poi si suicidò nel settantadue, incurante di fama e gloria personale (tra l'altro il suo migliore amico Mishima Yukio, altro scrittore fondamentale per la letteratura giapponese, si era suicidato due anni prima, come a segnare la fine di un'epoca). Ciò premesso, Il Paese delle Nevi è un breve romanzo dallo stile poetico ed evanescente che narra dell'incontro tra Shimamura, un poeta/intellettuale di Tokyo benestante e sposato, e una Geisha di umili origini molto più giovane di lui, Komako, che lavora nell'albergo in mezzo alle montagne innevate di Yuzawa, il luogo in cui Shimamura ogni inverno si reca in vacanza. La stesura iniziale del libro è avvenuta proprio durante un soggiorno di Kawabata a Yuzawa, e la storia di per sé, tanto per cambiare, ha molto il sapore di una rielaborazione autoriparativa di esperienze personali dell'autore. D'altro canto l'ossessione che Kawabata ebbe in vita per lo scritto parla da sola.
Molto Sousekiano, e quindi modernamente "classico" nella forma e nei contenuti (sembra quasi di leggere Kasamakura), Il Paese delle Nevi narra della (solita) cosa più bella che possa mai capitare a un essere umano: l'incontro salvifico con un'altra anima. Shimamura tuttavia è ormai vecchio, non è capace di amare ma soltanto di contemplare, e Komako, ragazza ferita nonché simbolo della vita in se stessa, reclamerà tutto il tempo dal poeta una presa di posizione che mai avverrà. Il risultato di ciò è la follia e disperazione di lei, con conseguente presa di coscienza del poeta che, tramite suggestioni narrative da Nobel, sembra quasi affermare "avrei voluto salvarmi con l'amore: lo so che l'amore è l'unica cosa in grado di salvare veramente le persone. Ma io non sono stato capace di amare, e perciò provo una grande vergogna". Insomma, a mio parere il senso de Il Paese delle Nevi è molto simile a quello del Piccolo Principe – "Les fleurs sont si contradictoires! Mais j'étais trop jeune pour savoir l'aimer..." –, con buona pace di chi in questo tipo di narrativa ci vede il Mono no Aware e altre simili cavolate.
Belli, e molto giapponesi, i paragoni tra dramma umano e fenomeni naturali: l'incendio che divampa nell'albergo che ricorda il fuoco immobile e imperscrutabile della Via Lattea, che viene citata a più riprese nei momenti contemplativi del romanzo; la geisha non rappresentata tanto come "bambola immobile" ma come minuscolo frutto pieno di vitalità in contrasto con le nevi e le montagne immobili e gli spazi che si disperdono all'orizzonte. La banale accettazione del fatto che rifuggire dalla vita contemplandola è tanto letale quanto farsi assorbire e distruggere da essa. Per il resto l'edizione Oscar Mondadori è ottima, la copertina azzeccata nel comunicare il senso di solitudine imperante che caratterizza la narrazione. La traduzione poi è di Giorgio Amitrano, che completa il libretto con un'ottima postfazione. Non metto il massimo perché il libro non è stato in grado di coinvolgermi emotivamente: Il Paese delle Nevi è troppo fragile ed etereo per potermi graffiare come un Dazai o impressionarmi come un Akutagawa.
- Luca ed Io, di Giovanni Pirelli (4/5)
Il cognome è proprio quello: i Pirelli, quelli delle gomme per automobili. Giovanni Pirelli, primogenito di Alberto Pirelli, durante la WW2, animato tanto di arditismo quanto di ingenuità, decide di lasciare famiglia e agi per andare a combattere in Russia. Lì scopre che i tedeschi trattano gli italiani come bestie, che i russi non si possono sconfiggere (questo bisognerebbe ricordarlo anche ai nostri governanti), che l'Italia e gli italiani sono irrilevanti nello scontro tra grandi potenze. Scopre gli orrori della guerra e atrocità inimmaginabili (Pirelli partecipa in prima persona alla ritirata del Don). Deve inoltre fare i conti col senso di colpa derivante dal suo status di privilegiato, una condizione di cui in un modo o nell'altro continua a beneficiare anche in guerra, una condizione alla quale non può rinunciare perché ciò comporterebbe la morte. Ritornato in Italia Pirelli, con grande disapprovazione del padre, diventerà poi un esponente del partito socialista italiano. Tuttavia l'Orrore intravisto in Russia non lo abbandonerà mai; da qui questo piccolo gioiello che è "Luca ed Io".
"Certo, Luca è un amico difficile. Passano giorni, settimane intere, senza che dia segno di vita. Poi ti manda un biglietto, dice che ha urgente bisogno di parlare con te. Subito parti, attraversi mezza città, sali sei piani di scale, percorri un corridoio lungo e stretto, bussi ad una porta e senza aspettare risposta, che tanto non viene, entri e vedi, in fondo alla stanza, le spalle di Luca. Se ti dice "ciao" dice molto. Se volge la testa a guardarti, ha l'aria di chiederti perché sei venuto".
Il romanzo breve di Pirelli non è la solita poltiglia di retorica antifà: è un romanzo complesso, ben scritto, psicologico, frutto di uno strazio interiore a mio avviso mai veramente metabolizzato. L'autore si sdoppia in sé stesso e Luca, quest'ultimo il nome affibbiato alla personalità che ha vissuto l'Orrore, e i ricordi talvolta prendono forma di dialogo, talvolta di domande senza risposta, talvolta scorrono in flussi di coscienza dai particolari agghiaccianti. L'autore, dapprima animato da grandi ideali, in guerra capisce che niente ha senso, che tutto avviene a caso, che l'unica cosa che desidera veramente è rimanere vivo e tornarsene a casa: l'idealismo giovanile ha quindi lasciato spazio alla triste rassegnazione dell'adulto; il principio del piacere ha ceduto il passo al principio di realtà. Pirelli tuttavia non fugge da se stesso: lui dialoga con Luca, la personalità che ha affrontato l'Orrore in piena solitudine. Si odierà e come tutte le psicologie post traumatiche continuerà a cercare di darsi un senso, anche mettendosi contro il padre, non di certo avvezzo al socialismo, e continuando a complicarsi la vita senza mai darsi pace. "Le ipotesi che Luca prospetta non hanno riferimento alcuno, per quanto io possa rendermi conto, con la sua esistenza. Certo con la mia non ne hanno. Appartengono a un mondo di immaginazioni in cui egli si trasferisce quando l'insoddisfazione per la vita che conduce o il senso di inutilità che lo assale superano i limiti della tollerabilità. Questa è la sola spiegazione che io mi sappia dare su quel suo chiamarmi all'improvviso, parlarmi per ore, prospettarmi ipotesi strane, che non hanno nulla a che fare con la mia vita o la sua. A meno che...".
Il piano inclinato, di Roberto Alajmo (1/5)
Premetto che il libro – trattasi dell'epopea di un immigrato di colore scritta da un giornalista italiano di punta – non l'ho pagato: mi è stato donato da un'associazione culturale per la quale ho svolto dell'attività di volontariato. Molto probabilmente, dopo averne sfogliate alcune pagine, in libreria lo avrei lasciato sullo scaffale, avendo intuito fin da subito in esso una certa manfrina affine all'attuale narrativa da borghesi da salotto, centri sociali e pugni chiusi. Non che questa narrativa sia giusta o sbagliata, per carità, ognuno ha diritto di pensare e di fare ciò che vuole. Il problema a mio parere è che una narrativa rimane pur sempre una narrativa, e che la realtà (o Madre Natura, utilizzando un soprannome simbolico utilizzato nel libro) se ne va sempre per i fattacci suoi, non curandosi di nessuno (creando quindi sofferenza, ingiustizie e patimenti, in ultima sintesi il solito dramma umano che si consuma fin dalla nascita della tragedia). Con tutta la bontà dei borghesi, quindi, certe narrative, che nell'oggidì si sono fatte a mio avviso abbastanza puerili (vedasi la reinfantilizzazione sociale di cui Kojève, in cui le grandi narrazioni con la postmodernità si trasformano in "piccole narrazioni" subordinate al principio di piacere, alle voglie infantili dei singoli), potrebbero addirittura non trovare una completa corrispondenza con la realtà; o quantomeno, sicché il dramma dei disgraziati morti in mare è reale, rappresentarla in modo contingente all'ideologia (esempio: tutti i maschi sono violenti e cattivi, tutte le donne sono buone e portatrici di conforto – "Senza nessuna donna all'orizzonte il mondo gli sembrava molto più brutale": si vede che Ousma non ha mai conosciuto certe mie parenti, sic. – , tutti i gay sono buoni, tutti gli immigrati sono vittime ingenue e così via). Preferisco quindi narrative realmente utili, ossia quelle che aiutano le persone a soffrire di meno perché in fondo, modulo la fortuna, vivere=soffrire, e la regola vale per tutti. A parer mio il socialismo, quando ancora esisteva, era una narrativa utile, in fin dei conti certi privilegi che tutt'ora abbiamo sul posto di lavoro li dobbiamo a lui. Ma a cosa serve la narrativa della sinistra contemporanea? Faccio un esempio di vita reale. Siamo a Bologna, 2021 circa. Sto passeggiando per il centro e in pieno giorno, in un vicolo vicino alla torre, un immigrato di colore sta tentando di rapinare una ragazza rasata dagli abiti sciatti, una di quelle che frequentano i centri sociali. Lui, visibilmente fatto, le grida addosso e cerca di strapparle la borsa dalle mani, minacciando di tirare fuori un coltello. Io, essendomi da poco lasciato con la ex e sentendo di non avere più niente da perdere, mi butto nella mischia, recupero la borsa della ragazza e allontano l'immigrato rischiando di venire accoltellato. Sulla macchina della polizia la ragazza mi dice "questi erano quelli che proteggevo". Io le rispondo "la vita è così", una frase che da ragazzino mi disse il mio insegnante di chitarra (un bluesman delle strade col cappello da cowboy) quando gli morì la madre. "La vita è così" è una frase che per me ha un senso di rassegnazione mistica alla sventura dell'esistenza, una sorta di monito di cui ho cercato di fare tesoro nei momenti più duri. La ragazza poi mi abbracciò, ringraziò e tutto ("siete grandi" disse a me e a chi mi aveva accompagnato). Ma decisi di sparire e di non darle i miei contatti. La polizia due settimane dopo mi chiamò al telefono per il riconoscimento di un eventuale colpevole: risposi che non ricordavo nulla e loro, con molta gentilezza, capirono le mie motivazioni. Ovviamente una storia del genere non posso raccontarla in giro, sicché c'è sempre il rischio di beccare l'idiota che crede che io sia fascista o che magari dica "eh, ma l'immigrato l'ha fatto perché non trovava lavoro" o giustificazioni simili (queste cose le ho sentite dire sul serio da certi borghesi di Milano). Ecco, Il Piano Inclinato mi è parso tutto su questa falsariga qui: se Ousma, il protagonista del libro, diventa un potenziale tagliagole, la colpa è nostra, di noi italiani che pisciamo fuori dai cessi che lui pulisce, di noi italiani che non lo includiamo abbastanza, delle nostre donne che decidono di non dargli la figa e così via. Non è che, fortuna a parte, semplicemente ci sono persone meritevoli, capaci e buone e persone che invece non lo sono, a prescindere dal colore della pelle, dalla religione, dal luogo di nascita, dall'etnia ecc.? Oppure che la società, ormai ridotta a un colabrodo, isoli e discrimini un po' tutti, guardando più i portafogli e i follower su Instagram che il colore della pelle? "A me piace Giorgia Meloni, è una donna forte e in grado di gestire situazioni complicate" mi disse una volta un'immigrata marocchina (origini umilissime eppure una laurea in economia ottenuta grazie a borse di studio e campus universitari, quattro lingue conosciute ecc.). "Votiamo piDio", d'altro canto, l'ho sentito dire soltanto a Bello Figo, non di certo ai ragazzi di colore che ho incrociato nella mia vita. D'altronde le elezioni americane chi le ha vinte? Trump, ovvio, votato anche dalla comunità afro. Contrariamente al passato, in cui il socialismo era realmente utile e in grado di arrivare a tutti, considerata altresì la spocchia di certi signori e signore dichiaratamente "di sinistra" che ho avuto modo di conoscere, ho come l'impressione che attualmente la retorica a pugno chiuso sia rimasta confinata nei suoi salotti e nei suoi centri sociali: la gente delle strade vuole fatti, sicurezze, non favolette. E il dramma è che poi i vari Giorgia Meloni e Trump della situazione fanno i loro interessi e non quelli del popolo, sicché devono pur sempre rendere conto a qualche lobby o potentato industriale. E ciononostante gli operai votano sempre a destra, inclusi quelli italiani di colore, ossia gli "Ousma" che, vuoi per fortuna vuoi per resilienza e capacità, ce l'hanno infine fatta. Votano così perché non c'è alternativa, perché la sinistra è diventata insignificante e del tutto reinfantilizzata. Ciò detto, la cosa veramente certa, e che in un certo senso mi fa un po' soffrire, è che comunque la letteratura non arriva più alle strade, al cosiddetto "popolo". Leggere ormai è una cosa di cui vantarsi, un bene da ostentare, un motivo di spocchia e superiorità morale, o ancora peggio di maniacalità pseudo-otaku (le influencer che fanno storie tutte uguali tra loro in cui dicono di volersi comprare 9999 libri che mai leggeranno; l'idolatria di massa verso intellettuali del calibro di Fabio Volo ecc.). D'altro canto gli indigenti e la classe medio bassa sono fin troppo impegnati a tirare la carretta per paghe da fame, con Instagram e TikTok a fottergli quel che gli rimane di tempo libero e cervello. Pertanto questo libro, anche supponendo che io mi stia sbagliando e che esso sia un qualcosa di realmente utile per sensibilizzare il proletariato e la classe media (che ormai si potrebbe anche chiamare neo-proletariato), non arriverà mai a chi di dovere. Rimarrà un qualcosa di circoscritto a salotti e centri sociali, ossia al proprio "frattale" di riferimento (tra l'altro Zerocalcare, massimo rappresentante della sinistra contemporanea, è letto da milioni di persone perché fa i disegnini e tra le citazioni colte mette battutine, senso di colpa e giocattolini pop: se le sue opere fossero soltanto ideologia, tipo l'ultima roba che ha fatto sulla Salis, non lo leggerebbe nessuno). Insomma, in fin dei conti è sempre il solito discorso della postmodernità che uccide le grandi narrazioni (in questo caso il socialismo reale). Un intellettuale come Gramsci, ad esempio, al giorno d'oggi non potrebbe neanche esistere.
Ma torniamo al libro. Prendiamo una frase a caso: "I poliziotti sembrano divertiti da queste collutazioni, se la godono finché non decidono di averne abbastanza". In pratica, a Lampedusa, i poliziotti italiani, spesso gente di bassa estrazione sociale con paghe abbastanza ridicole, in molti casi padri di famiglia, si divertono a vedere disperati che si azzuffano. Mamma mia che divertimento, dove sono i pop corn? Nella retorica di sinistra gli sbirri sono sempre fascisti, sono sempre violenti, sempre kattivi. Poi c'è il lager libico, là dove il patriarca della situazione ci dona uno dei dialoghi più stucchevoli del libro: "La vita bisogna meritarsela qui dentro. Bisogna chiedere il permesso di vivere. E tu sai a chi bisogna chiedere? Bisogna chiedere a me. Tu dimmi: vuoi vivere o vuoi morire?". E poi Ousma, invece di chiedergli "ma come mai nei campi libici ci sono i cattivi Disney?", ovviamente si fa inculare ( ci voleva proprio un po' di yaoi, un po' di lgbtq+). In seguito, in Italia, come accennavo, il protagonista si innamora di una ragazza di nome Grazia, va a farle una scenata sotto casa gridando e prendendo a pugni il portone e quella, anzi di chiamare la polizia (sono kattivi, meglio non chiamarli) lo fa salire in casa, con lui che dapprima pensa a farle del male ma poi si trattiene perché mica è kattivo lui. Forse è un incel di colore un po' effemminato, sì, ma non un incel etero cisgender e suprematista bianco come Filippo Turretta, diamine. E così via fino a un finale pessimo come tutto ciò che l'ha preceduto. A questo punto era meglio un pippone retorico tipo Stranieri come Noi di Zucconi, piuttosto che questo tentativo di nascondere i soliti cliché ideologici all'interno di una narrazione che vorrebbe essere accattivante e provocatoria quando invero non lo è e mai lo sarà. Last price: lo stile narrativo, oltre che autocompiaciuto, l'ho trovato molto didascalico, come se il narratore tema che il lettore sia ritardato e abbia bisogno di una spiegazione di tutto ciò che succede. Che cosa incredibile la narrativa contemporanea, davvero.
Di Dazai mi è capitato di leggere "Lo squalificato", e se le date di pubblicazione originale non mentono mi sembra curioso, a giudicare dalla tua recensione, che sia contemporaneo a "Il sole si spegne". Mi pare che "Lo squalificato" avesse un'inquadratura molto ristretta alla personalità del protagonista, e si svolgeva in un ambiente decisamente più protettivo: il tizio poteva sostanzialmente "rovinarsi la vita" nel modo che preferiva, ché tanto ci sarebbe stata la famiglia a tenerlo al riparo di molte delle conseguenze e a trovargli una posizione sociale di ripiego. Insomma pareva "un romanzo di maggiore immaturità" a livello di costruzione e di protagonista (poi magari ripensandoci anni dopo mi dimentico qualche elemento importante). C'è da dire che "Lo squalificato" era ambientato negli anni '30 ed era quindi precedente al momento della decadenza degli aristocratici: era una rievocazione nostalgica, sicuramente dal punto di vista dei lettori giapponesi del 1948 e anche dal punto di vista dell'autore, qualora l'abbia scritto proprio nel periodo de "Il sole si spegne". Magari i due romanzi andrebbero letti in dittico? Boh.
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"... spesso gente di bassa estrazione sociale con paghe abbastanza ridicole, in molti casi padri di famiglia, si divertono a vedere disperati che si azzuffano."
Non mi pare una cosa del tutto assurda, detta così; o perlomeno è solo una generalizzazione :)