sabato 4 giugno 2016

Ping Pong the Animation: Recensione

Titolo originale: Ping Pong the Animation
Regia: Masaaki Yuasa
Soggetto: Taiyō Matsumoto
Character design: Nobutake Itō
Direzione delle animazioni: Nobutake Itō
Musiche: Kensuke Ushio
Studio: Tatsunoko Production
Formato: serie televisiva di 11 episodi
Anno di uscita: 2014


«Le persone talentuose che sanno esattamente chi sono non cercano nulla. Quelli che non sanno chi sono... sono loro che lottano più duramente per vincere, in modo da provare qualcosa.» [Jō Koizumi]

"Ping Pong the Animation". Ovvero lo spokon secondo Masaaki Yuasa.
Se vista nell'ottica della flessione di titoli degni di nota che la sta trascinando in questi ultimi anni, l'animazione giapponese può dirsi arrivata a un punto morto. All'interno dell'ondata di produzioni omologate e iper-schematizzate che ci sta investendo in questo periodo, la ricerca stilistica e la coraggiosa innovazione che caratterizzavano l'industria fino agli anni Novanta sono sempre più un eco lontano, un fioco riverbero che riecheggia privo di forza in mezzo alla penuria di originalità; potersi gustare nel 2014 un prodotto come quello che mi accingo a recensire, vera e propria rivisitazione anticonvenzionale di uno dei generi più in voga nell'ultimo decennio, rappresenta dunque una piacevolissima scoperta.
Ma direi di procedere per ordine.


"Ping Pong the Animation" nasce nel 1996 dalla penna – anzi, dal pennino – di Taiyō Matsumoto, mangaka di culto che ha fatto di uno stile graffiante e ipercinetico e dell'estrema cura nella psicologia dei personaggi il proprio marchio di fabbrica. La serie di fumetti originale, che conta cinque volumi serializzati nel corso di due anni sulle pagine di "Big Comic Spirits" di Shogakukan, pur non essendo mai stata pubblicata nel bel paese non ha in alcun modo penalizzato la trasposizione animata, che conta un più che discreto numero di estimatori forse in primis attirati, come il sottoscritto, dal nome del regista: Masaaki Yuasa. Questo personaggio – già visionario autore di opere celebrate dalla critica di tutto il mondo quali "Kaiba", "The Tatami Galaxy" e "Mind Game" – è riuscito nell'ardua impresa di valorizzare pienamente il manga originale e di offrire anche qualcosa in più, intessendo una trama che in undici episodi, a dispetto di un soggetto tutt'altro che esaltante, colpisce al cuore lo spettatore grazie anche alla cura registica e all'estro creativo dello staff nel realizzare partite al cardiopalma alternate con somma maestria a momenti invece più riflessivi, che tratteggiano la psicologia dei personaggi in maniera a dir poco superba.


La serie, che a prima vista si definirebbe uno spokon ma che in realtà ha più i caratteri di un racconto di formazione dallo sviluppo non canonico, narra la storia di due amici d'infanzia, Yutaka Hoshino detto "Peco" e Makoto Tsukimoto detto "Smile", uniti dalla comune passione per il tennis tavolo. Il primo, dotato di un indubbio talento e di un carattere solare e alquanto spaccone, crogiolandosi nei suoi numerosi successi sta iniziando a prendere lo sport sottogamba; il secondo, dal carattere tanto introverso e laconico da sembrare quasi privo di sentimenti (da cui il soprannome "Smile", ovviamente sarcastico), ha sempre vissuto il ping pong all'ombra dell'amico, tanto da ritrovarsi oramai a giocare in modo del tutto disinteressato. Le cose tuttavia cambiano quando Peco si ritrova a sfidare Kong Wenge, giocatore cinese giunto in Giappone per ristabilire la propria immagine dopo essere stato escluso dalla squadra in patria: la totale disfatta subita lo riporterà immediatamente con i piedi per terra, e il successivo torneo scolastico delle superiori, al quale partecipano le migliori scuole del Giappone, sarà per i numerosi giocatori l'occasione per conoscere se stessi, i propri limiti, le proprie aspirazioni per il futuro e soprattutto le vere ragioni che li spingono giorno dopo giorno a impugnare la racchetta.


Negli storici studi Tatsunoko Production l'inseparabile Nobutake Itō, alla sua quarta collaborazione con il regista insieme a una task-force di grandi nomi del settore, disegna e anima i personaggi con il suo solito stile dal tratto grezzo, minimalista e a tratti volutamente grottesco, riprendendo molto da vicino l'atmosfera delle tavole originali del maestro Matsumoto. Tuttavia in fase d'animazione si ritrova a dover fare i conti con i limiti di un budget non certo sontuoso, che nelle mani di qualunque altra persona avrebbe potuto essere alquanto instabile; ed è proprio qua che emergono con forza le capacità del regista, consapevole del basso valore artistico intrinseco del soggetto ma nondimeno dotato ormai da anni di una piena – quasi spaventosa, oserei dire – padronanza del mezzo.


Come ho già fatto intendere in precedenza il punto forte di questa serie si trova nei suoi personaggi, tutti magnificamente caratterizzati da una sceneggiatura corale pressoché perfetta. Diviso in tre macro-blocchi che attraverso l'affermazione di Smile ripercorrono il percorso catartico di Peco, l'intreccio dalle prime puntate lascia trasparire inoltre un leggero intento decostruzionista, che vede letteralmente disintegrare la classica storiella che con l'impegno si raggiunge ogni risultato: quello dello sport è un mondo spietato e animalesco, fatto di sacrifici e sofferenze, nel quale vige e governa la legge del più forte; una continua lezione di vita, che si trasforma tuttavia in un pretesto per poter crescere e maturare esperienze. Il racconto sportivo-formativo canonico (seppur decisamente più maturo della norma) nasce dunque da uno svolgimento non canonico, che rispetto a una controparte cartacea piuttosto convenzionale beneficia dell'apporto istrionico del regista: forte della sua perizia estetica e del magnifico lavoro di direzione artistica a cura di Kevin Aymeric, Yuasa sfodera una regia ultradinamica traboccante di sperimentalismo e talento artistico, mettendo in scena un vulcanico amalgama di soluzioni innovative e impercettibilmente surrealiste.


Tra frammentazioni dello schermo in split screen per donare lustro all'animazione limitata e imprimere velocità alle altrimenti eccessivamente statiche partite, violentissimi cambi di ritmo e di tecniche di montaggio, fusioni tra diegetico ed extra-diegetico, fotogrammi infarciti di riferimenti postmodernisti, metafore visive, inquadrature dai risvolti quasi psicanalitici e via discorrendo, il risultato è un esperimento artistico non convenzionale che di fatto non ha precedenti nella storia del racconto spokon; con il suo estro e la sua inventiva, Yuasa conferisce all'opera una maggiore focalizzazione sull'aspetto psicologico e simbolista, che viene così valorizzato esponenzialmente; tutto, a partire proprio dal comparto tecnico-registico, fa parte di un unicum, un congegno armonioso e ben compensato, volto a rendere la massima potenza espressiva possibile, coadiuvata anche da un'evocativa colonna sonora assolutamente perfetta in ogni sua sfumatura, che con le sue sonorità elettroniche e intimiste riesce a toccare ogni corda del cuore.


Emblema di tutto ciò sono infatti le partite, che oltre alla dimensione puramente spettacolare del gioco ne nascondono un'altra più profonda, di sviluppo dei personaggi. Da ogni colpo, da ogni sguardo, da ogni movimento traspaiono le mille sfaccettature dei giocatori, le loro emozioni, i loro pensieri, il loro stato d'animo. Yuasa potenzia le partite trasformandole grazie al suo solito stile psichedelico in vere e proprie sedute psicanalitiche, che vedono così i personaggi "esplodere" in una miriade di colori e sensazioni, liberare la loro energia e rivelare il proprio inconscio: «il mio sangue ha il sapore del ferro», dice Hoshino a Tsukimoto. Il sangue, simbolo di calore e passione (l'eroe), e il ferro, simbolo di freddezza e indifferenza (il robot), nonostante non abbiano nulla in comune sono indissolubilmente legati. Tutti attraverso il ping pong cercano la loro strada, imparano, maturano, cadono e si rialzano, e infine riescono a volare. Perché tutti, dal primo all'ultimo, alla fine spiccano il volo.


L'anime stesso in ogni sua parte è un inno alla vitalità, al desiderio di riscatto e di traguardi, che trova la sua forza nella condizione reale dei personaggi, delineati con un'umanità sconcertante; un'umanità che traspare da ogni metafora, da ogni espressione, da ogni parola, capace di sprigionare un calore che arriva al cuore. Artistico ed emozionante, profondo e irriverente, capace di regalare momenti esaltanti e altri commoventi, "Ping Pong the Animation" è un piccolo affresco che rappresenta la vita in modo toccante e diretto, un'opera poetica che ancora una volta conferma il genio sregolato ed eclettico di un autore dal talento fuori dal comune che riesce a estrapolare il massimo da ogni dimensione, sia essa la più complessa e visionaria o – come in questo caso – la più canonica e abituale.













2 commenti:

  1. Anche a mio avviso il comparto personaggi è la parte più forte di quest'opera.
    Il cast è piuttosto vasto per un opera di 11 episodi, eppure ogni personaggio riceve la giusta dose di caratterizzazione e si inserisce alla perfezione nel ruolo assegnatogli.
    Su questo frangente moltissimi studi giapponesi dovrebbero imparare come si caratterizza in poco tempo (specialmente oggi, visto che le produzioni sono sempre più brevi).

    Altra nota estremamente apprezzabile è la natura di Smile, ovvero la "macchina". Non sono rari negli spokon gli individui freddi, calcolatori e completamente assorbiti dal gioco (ma Smile è pure atipico, lo si nota dalla sua svogliatezza iniziale e nella partita con Kong Wenge), mentre in quest'opera a tale personaggio viene assegnata la piazza principale.
    Di soluto questo non succede, e spesso tali figure sono avversari da battere o personaggi che affiancano il protagonista (come Rukawa in Slam Dunk o Kageyama nel più recente Haikyuu).

    E infine vi è da plaudere alla costruzione: di solito uno spokon richiede tempo, in quanto servono minuti per l'allenamento, minuti per la maturazione e minuti per le partite.
    La regia nelle partite è ottima, e gli split screen danno dinamismo permettendo di non prolungare troppo l'azione, e il tempo guadagnato viene investito sui personaggi e sugli altri aspetti (come spokon è abbastanza minimale, visto che le parti "classiche" sono ridotte al minimo indispensabile, ma c'è davvero tutto ciò che serve).

    C'è solo un pochino di rammarico nella parte finale, dove di fatto l'esito è decisamente più classico (con soltanto il punto di vista cambiato, visto che Smile nell'opera ottiene più spazio di Peco), ma a parte questo è un'opera estremamente godibile.

    Il più grosso errore sarebbe non vederla per via del peculiare stile grafico.

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    1. D'accordissimo con quanto dici ;)
      Ping Pong è una lezione di character development, riuscire a caratterizzare un cast di questa ampiezza all'interno di uno spokon di soli 11 episodi non è cosa da poco, soprattutto considerando lo spazio necessario per lo sport in sé, che in una serie di tale genere si mangia per ovvie ragioni una bella fetta di tempo.
      A mio parere infatti ha influito parecchio il tipo di regia messa in atto da Yuasa: la focalizzazione sull'aspetto psicologico non si spegneva mai neanche durante le partite, che anzi erano una vera e propria lente d'ingrandimento sui personaggi.

      Il finale devo dire che, nonostante sia forse un tantino troppo canonico, mi ha pienamente soddisfatto: a parte per Peco non c'è stata alcuna forzatura sul campo sportivo, e l'epilogo è rimasto fino all'ultimo secondo fedele a quanto aveva tracciato fino a quel momento. L'undicesimo episodio poi è un capolavoro di poetica e sensibilità: uno "scontro finale" rappresentato (metaforicamente) a quel modo non l'avevo ancora visto in un anime sportivo.

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