giovedì 9 novembre 2017

Fate/Zero: Recensione

  Titolo originale: Fate/Zero
Regia: Ei Aoki
Soggetto: Gen Urobuchi
Sceneggiatura: Akira Hiyama, Kazeharu Satou, Gen Urobuchi
Character Design: Takashi Takeuchi (originale)
Musiche: Yuki Kajiura
Studio: Ufotable
Formato: serie televisiva di 13 +13 episodi
Anni di trasmissione: 2011-2012


Presso gli animefan (prevalentemente otaku) di tutto il mondo, il franchise Type Moon è cosa ben nota. Il tutto nasce verso la fine degli anni novanta con la light novel Kara no Kyoukai di Kinoku Nasu, che grazie al successo del suo successivo lavoro di inizio anni duemila, il bel Tsukihime (altra novel prodotta in casa, inizialmente venduta nelle bancherelle dei Comiket), riesce a trovare i soldi per fondare la Type Moon con il compagno “illustratore” Takeshi Takeuchi. Il successo internazionale e la ricchezza tuttavia arrivano soltanto con Fate/stay night, che riprende l'idea di base di una delle serie di JoJo (personaggi che combattono invocando guerrieri che se le danno a loro volta), idea tra l'altro squisitamente shounen e ben lontana dai toni adulti delle due opere precedenti. Fate/stay night può essere definito come una sorta di “Battle Royale” all'ultimo sangue tra maghi che lottano per ottenere il Sacro Graal, oggetto magico in grado di esaudire ogni desiderio (forse). Al di là del fanservice, dei momenti slice-of-life noiosissimi (assenti nelle glorie passate), dell'imbarazzo che si prova nel vedere un Re Artù in versione ragazzina moe che si prende la prima cotta adolescenziale per un rosso malpelo cliché (tirando le somme Shirou è il tipico protagonista harem imbranato ma di buon cuore), il messaggio che vuole (dichiaratamente) trasmettere Nasu con la sua novel è quello della “conquista di sé stessi”, e questo tema viene riproposto in modo diverso in ognuna delle tre route dell'opera (ovvero le tre storie alternative che si sbloccano in base alle scelte del giocatore). In merito alla prima Nasu parla di un “sé come ideale”, in merito alla seconda “dei sacrifici che si compiono a causa di questo sé ideale” e in merito alla terza “dell'attrito tra ideale e reale” - tematica molto cara agli otaku di tutte le ere, ossia quei bambini che non riescono a far coincidere la loro dimensione idealistico-infantile con la grigia banalità della realtà adulta.
Il qui presente Fate/Zero è l'adattamento animato dei quattro romanzi scritti da Gen Urobuchi (sceneggiatore di Madoka Magica e Psycho-Pass) sotto la “supervisione” dell'autore originale, che fanno da prequel a Fate/stay night. Lo studio scelto da Type Moon per la realizzazione di questa serie, dopo la delusione J. C. Staff (“There is no Tsukihime anime”, scrivevano all'epoca gli otaku nelle board online), ricade nuovamente su Ufotable, che aveva già realizzato – con successo - i film di Kara no Kyoukai nel duemilatredici. 


Che cosa aspettarsi quindi da Fate/Zero? Chi conosce bene Urobuchi, ovvero un soggetto che dichiara che ogni volta che cerca di scrivere sull'amore riesce soltanto a trasformarlo in orrore, arrivando a chiedersi se esso si tratti di una sorta di “manifestazione della follia” (domanda più che lecita per alcuni), avrà già ben chiare in mente le atmosfere cupe, la mancanza di sentimenti, il cinismo e l'agrodolce alienazione postmoderna che caratterizzano le sue creazioni. Ma essendo Fate/Zero un'opera, appunto, otaku - come lo è anche Madoka Magica d'altronde - per quanto essa cerchi di prendersi sul serio, in alcuni frangenti risulta quasi sgradevole, dacché la sostanza è sempre e comunque quella di un'opera infantile, con personaggi infantili nell'animo, seppur adulti nell'apparenza. E se non è questo a stonare, allora si può parlare dello splatter, di quella violenza estetizzata che non riesce a diventare secca e realistica in quanto trattasi pur sempre di mero fanservice. Per non parlare poi delle situazioni raccapriccianti, tipo quella frustrazione nei confronti della figura paterna che da sempre permea le opere di Nasu: quel complesso di Edipo che da Tomino in poi diventerà lo specchio animato di un reale divario/conflitto generazionale mai risolto - nemmeno in occidente. In Fate/Zero, uccidere il padre - o quantomeno soccombere alla sua cattiveria e perversione - è un fatto all'ordine del giorno. A fare da testimonianza al contesto nel quale Fate/Zero viene concepito, coloro i quali uccidono i loro padri (o vi soccombono) non sono poi così migliori di questi ultimi: c'è chi uccide addirittura i propri cari ergendosi a paladino dell'umanità, convinto che ottenendo il Graal riuscirà a fermare tutte le guerre; chi è talmente vuoto dentro che uccide per darsi delle risposte su sé stesso che mai arriveranno; chi combatte per salvare una bambina che lo considera una nullità, rendendosi ridicolo, odiando sé stesso e infamando il suo stesso corpo, oltretutto lasciando che venga divorato dagli insetti... ecco, proprio come fanno notare gli autori dell'opera, in questo ultimo caso si può parlare addirittura di chunibyo:

«I personaggi di Fate/Zero sono tutti abbastanza vecchi, quindi combattono per i loro fermi ideali. Tuttavia, tra di essi, Matou Kariya, che combatte per la libertà di Sakura, è un'anomalia. Lui, e solo lui, combatte per un ideale veramente da manga shounen, ovvero “salvare una ragazza”. […]
Kariya è una sorta di eroe Chunibyo della storia. [...]»
«E' un disagio che invoca la morte. Dato che ha il disagio del Chunibyo, lui lascia che i vermi entrino nel suo corpo, fino a quando gli rimane soltanto un mese di vita.» [Nasu, Takeuchi e Urobochi su Fate/Zero]

«La maggiorparte degli otaku giapponesi si ripugnano, e questo li induce a ripugnare anche i loro simili. Pertanto, quando gli otaku giapponesi si incontrano, non necessariamente si piacciono a vicenda, e non necessariamente si trattano bene.» [Urobuchi]


La “ripugnanza” otaku/chunibyo di Matou Kariya è la stessa ripugnanza che trasmette il serial killer di bambini (anche lui avrà la stessa età di Matou, pertanto non è ancora “vecchio”) che a sua insaputa invoca nientepopodimenoche Gilles des Rais partecipando così alla “Grail War” senza manco sapere cosa essa sia (tanto il suo intento primario è quello di uccidere bambini, ovviamente senza mai tradire, allo stesso modo di chi è frustrato dalla presenza di una figura paterna in carne ed ossa, un complesso nei confronti di un Dio padre cattivo che si diverte nel creare il Male). In qualche modo, il “ripugnante” è sempre associato a una dimensione infantile, di gioco macabro, proprio come accadeva altresì in Madoka Magica. L'infanzia portata a forza nell'adultità produce mostri. Inutile dire che la regia non condanna tali fenomeni, ma li mette allo stesso livello della “ripugnanza” di quelli che dovrebbero essere gli adulti, ma che invero rimangono bambini pure loro, seppur in modo “datato”, prigionieri dei loro ingenui ideali preconfezionati (un nome a caso: Kiritsugu).


Ciò detto, è mirabile che questa volta Saber/Artù diventi, contrariamente alla sua controparte di Fate/stay night, un personaggio ben caratterizzato, dalla psicologia definita e coerente, e non un'algida adolescente alla prima esperienza amorosa. A detta stessa degli autori, in Fate/Zero la realizzazione dei servant (ovvero gli spiriti eroici del passato invocati dai maghi in lotta tra loro) è stata molto più libera e fantasiosa che ispirata alla realtà; ma va bene lo stesso, l'importante è la sostanza. Ciò detto, purtroppo Gilgamesh si rivela un mero bishounen arrogante costruito apposta per fujoshi e otaku (ha l'armatura d'oro stile Saint e una spada che sembra quasi un vibratore), e non il Re/dio dell'omonima epopea- il testo religioso più antico mai pervenuto a noi -, quel Gilgamesh affranto dal volto della morte che si recava da Noè dopo aver pianto per l'amico Enkidu. Invece, tornando ai miti della Britannia, la furia di un lancillotto in “berserk mode” assume un fascino innegabile, così come la vicenda di un redivivo Diarmuid Ua Duibhne che, quasi come s'egli fosse un tragico greco, si ritrova braccato dalle stesse circostanze del passato, quasi come si si trattasse di una punizione divina del karma. Ottimo anche Kiritsugu, che - nonostante quanto detto in precedenza - con le sue tecniche di guerriglia, il suo sguardo spento e il suo cinismo e la sua sigaretta, disintegra il suo “successore” - il trascurabile rosso malpelo di Fate/stay night. Dolcissima Irisviel, la sua moglie-giocattolo-bambola (in fondo lui è la metafora di un otaku, no?), che lo ama ingenuamente e candidamente, nonostante tutto, come se niente fosse, anche nel peggio. Il compito della suddetta, tuttavia, per gli autori rimane quello di fare da interfaccia tra Saber/Artù e Kiritsugu, servant e master che nella novel si rifiutano di parlarsi a vicenda per via delle loro vedute divergenti (si pensi al più importante dialogo – grazie a Irisviel nell'anime si parlano, sebbene poche volte - tra i due, nel quale l'uno sostiene che il campo di battaglia sia una cosa sacra e l'altro, che ne è rimasto traumatizzato, un inferno - ed ergo vorrebbe un mondo senza guerre, come nelle favole. 

 
Molto ambizioso e altezzoso, nonostante qualche sbavatura Fate/Zero è certamente ben realizzato - animazioni superbe, dialoghi prolissi ma curati. Fortunatamente, non si rivela soltanto un giocattolo sul quale costruire tediosi castelli nerd su chi sia il servant più forte o sul fatto che la serie si tratti altresì di un complemento ai fatti di Heaven's Feel, la route della novel di Fate/stay night incentrata su Sakura, insignificante gatta morta che per ovvi motivi piace tanto agli otaku. Ci si può anche fermare a riflettere su di un Alessandro Magno in versione barbuta e bonacciona, che nel suo momento peggiore si accorge di aver seguito, al pari della Saber/Artù che disprezza, un ideale illusorio, un ideale che messo più a fuoco assume i connotati di un desiderio di comprensione di un ignoto da sempre irraggiungibile per l'uomo (la metaforica corsa verso l'Okeanos). Gli spiriti eroici, certamente più interessanti dei loro padroni, rappresentano l'umanità atavica che viene trasportata in un contesto “vuoto” qual è quello postmoderno, per poi ritrovarvisi spiazzata e allo stesso tempo impotente nelle sue ingenuità (anche l'arroganza altezzosa di Gilgamesh fa un po' ridere in un contesto come quello attuale). Perché nonostante tutto il servant è dipendente tanto dal suo padrone - che spesso sarà un individuo insignificante o un bambino-adulto -, quanto dal nuovo contesto in cui si trova. Forse, in modo involontario, Fate/Zero ci mostra la disarmante ineluttabilità della fine delle grandi narrazioni, quali erano quelle di un Artù o di un Alessandro Magno – ma volendo anche di un insensatissimo e folle Gilles des Rais, con la sua adorazione spasmodica per la purezza di Giovanna d'Arco, per quell'ideale di superiorità, grazia e bellezza che gli trasmetteva. Quando di harmonia praestabilita si poteva ancora parlare, ovviamente. 


Il tutto si risolve nel peggiore dei modi, con un finale nichilista, in quanto il nichilismo è l'unico vero passo successivo alla morte delle ideologie. I bambini vengono traditi dai loro giocattoli e i desideri si rivelano chimere, sopratutto se desideri di onore, potere o follia. L'umanità del passato fallisce quanto quella del presente: il problema intrinseco è l'impotenza dell'uomo in quanto tale, e la soverchiante stretta della natura e del fato – sempre se ne esista uno. A poco servono magie, maghi, fantasie, armi, parole, sentimenti, gloria e illusioni. Ciò che resta alla fine è il feroce incendio che dal cielo porta via tutto con sé, incurante delle urla e del pianto. Alle nuove generazioni, annebbiate dal sonno e dalla confusione, spetta portare tale fardello, rievocando il ricordo della catastrofe.

Bibliografia

http://www.animenewsnetwork.com/interview/2011-10-21/interview-fate-zero-screenwriter-gen-urobuchi

http://tsukikan.com/misc/fate-zero-director-aoki-ei-one-on-one-interview.html

http://tsukikan.com/misc/nasu-kinoko-takeuchi-takashi-urobuchi-gen-special-forum.html

http://www.sutoraikuanime.com/2012/04/sutoraikuanime-exclusive-interview-with.html

https://comipress.com/article/2006/06/30/386.html

http://www.studio-shaft.fr/interview-de-gen-urobuchi-a-lepitanime-2013/







15 commenti:

  1. Hai ragione, la serie è ben realizzata e tutto ma il problema è a monte: l'essenza otaku-oriented che alberga nei suoi creatori.
    Per questo ogni scelta tecnica e non è decisamente destinata a piacere tale, enorme, fetta di pubblico, piuttosto che essere utile alla storia.
    Come sempre offri una critica ed analisi a tutto piano, "bentornato", Aki!

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  2. Grazie per il commento Tex! A presto.

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  3. Recensione fantastica e molto curata. Davvero i miei complimenti. Sono un grandissimo fan e amante delle opere type-moon, ma Fate/Zero è stato qualcosa di davvero deludente per me. Al contrario, ho adorato e adoro tutt'oggi Tsukihime e Melty Blood, i quali per me sono connubio perfetto di tutto ciò che Nasu nella sua scrittura vuole portare, o almeno, voleva. Siccome stiamo parlando di opere di più di 15 anni fa...Oramai lui come autore è invecchiato e così il suo stile, basti vedere opere come Fate/Extella, dalla trama intrigante che diviene un connubio triste di steorotipi da Anime per ragazzini con classico happy ending tiratissimo e mega trasformazioni sbrilluccicose. Per tanto, attendo vivamente l'uscita di Tsukihime Remake, sperando possa gettare meritata attenzione ad Arcueid e company, decisamente più caratterizzate e valorizzate delle loro colleghe di Fate/Stay Night. Comunque, evitando divergenze di troppo, mi congratulo di nuovo vivamente con il recensore per la qualità dell'analisi. In bocca al lupo ragazzi, vi siete appena fatti un nuovo lettore.

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  4. Ciao Andrea, grazie per il bel commento. Penso che Tsukihime, proprio come KnK, sia così bello perché venuto fuori in un contesto diverso da quello dell'oggidì, in cui gli otaku facevano ancora "arte", o comunque opere dotate di un certo mood e di una profondità diversa da quella attuale. Sembra proprio che più si vada avanti, più ci si lobotomizzi, se mi concedi il termine. Negli anni novanta/inizio duemila a parer mio c'era più coscienza, più consapevolezza di certe cose, ma anche una certa ambizione, una certa voglia di "sfondare". Infatti Tsukihime dalle bancarelle dei Komiket è diventato a suo modo un classico nel suo genere.

    PS: Stiamo ben lontani dal remake, il chara già mi sa di flop.

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    1. Ciao Francesco, grazie per la risposta. Il tuo accennare al character design mi ha fatto tornare in mente la realtà: Ovvero il voler rendere da parte della Type-Moon tutte le eroine di Tsukihime delle blande Waifu Material noiose e prive di mordente...Le hanno anche disegnate tutte con la famosa ''Saber Face''. Non ti voglio dire il mio avvilimento quando, vedendo gli artwork del remake, diedi uno sguardo al nuovo look di Ciel. Il mio personaggio preferito di Tsukihime, di tutto il Nasu-verse e in generale degli anime rovinato così malamente, con un aspetto decisamente inappropiato per lei e quella odiosa Saber-Face monotona priva di vita. Rimpiango i bellissimi e unici design presenti sul buon vecchio Melty Blood, dove lì ogni personaggio era veramente unico in tutto!
      Sempre su Tsukihime, per me come titolo avrà sempre un posto nel mio cuore in quanto, oltre al suo stile incredibile, risulta esser stato per me un incredibile aiuto in un periodo abbastanza triste della mia vita relativamente di poco tempo fa. Nei suoi vari personaggi infatti ho trovato dei veri e propri amici, che interagivano in maniera perfetta col protagonista Shiki, che era afflitto anche da problemi e pensieri non tanto lontani dai miei di quel periodo. Insomma, per me è stato un fulmine a ciel sereno e una vera svolta nella mia vita.

      Speriamo comunque che la TM si dia una svegliata, anche se la vedo veramente dura: Oramai concentra tutta se stessa su Fate/Grand Order e su altri progetti minori abbastanza scialbi, come la serie Extella, che ora detesto. Dove sono i buon vecchi Fate/EXTRA ed EXTRA CCC, quei due piccoli capolavori per PSP che sono riusciti a divertirmi per ore e ore? Per non parlare di Fate/Unlimited Codes, ne servirebbe veramente un secondo capitolo, in quanto è per me un gioiellino dei fighting game e un bellissimo tributo a Fate.

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  5. "Shiki, che era afflitto anche da problemi e pensieri non tanto lontani dai miei di quel periodo."

    La cosa, sebbene nel male, è altamente positiva. Tu avevi una vita che ti faceva soffrire e Shiki era un personaggio credibile. C'era qualcosa di vero, sia nella tua vita che nell'opera che te l'ha cambiata (se leggi la mia recensione di Tsukihime capirai che anche nel mio caso fa un po' parte della mia vita, del mio "mood" interiore, fin dall'adolescenza).

    Il problema è che adesso le vite sono diventate finte, il dolore è stato soppresso dalla lobotomizzazione collettiva (vedi dossier sul postmoderno) turbo liberista ecc. E le opere rispecchiano tutto ciò, senza lasciare nulla. Ancora peggio quando le opere del passato, con tutta la loro dose di "verità nella finzione", vengono piegate a questa regola. Ecco perché i remake sono sbagliati. E decontestualizzanti.

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  6. Cosa ne pensi del " Fate/stay night UBW" 2014?

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    1. Non mi sono dispiaciuti, ma il Fate animato migliore per me rimane Zero.

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  7. Mi sono imbattuto solo ora in questa recensione di un anime che ho visto mesi fa e ne sono rimasto colpito: oltre alla proprietà di linguaggio del redattore e all’ampia documentazione consultata prima della stesura, quello che mi sorprende è l’enorme conoscenza della cultura popolare nipponica che traspare anche da uno scritto non eccessivamente lungo come questo. Al contempo, però, non posso negare di avere difficoltà a comprendere pienamente una recensione dal taglio otaku-centrico, a causa della mia preparazione in materia, che di certo è notevolmente inferiore rispetto a quella di chi ha scritto quanto sto commentando (e di altri appassionati qui sotto, a quanto pare). In primo luogo, lo stesso concetto di otaku non mi è del tutto chiaro: si fa riferimento a giapponesi che spendono una quantità eccessiva del proprio tempo fruendo di anime e manga, a qualunque persona nel mondo ne sia dipendente o genericamente a chi, tra le varie attività quotidiane, spesso legge/guarda fumetti e/o serie giapponesi? In secondo luogo, di conseguenza ho ovviamente difficoltà anche a comprendere alcune delle critiche mossa all’opera in questione: i problemi generazionali e l’incapacità di maturare pienamente ed entrare nella dimensione adulta mi sembrano infatti criticità così diffuse al giorno d’oggi, tanto in Oriente quanto in Occidente, da non essere legate al mondo otaku più che ad altre realtà contemporanee. Anche la “violenza estetizzata” vista come mero fanservice (termine che mi sorprende, dato che finora, in questo tipo di prodotti, lo avevo letto solamente in riferimento alla sessualizzazione di personaggi femminili) non mi è del tutto chiara, ma forse questo è un mio limite a prescindere: trattandosi pur sempre di disegni, non riesco a percepire un fumetto o un anime come davvero crudo e violento in nessun caso, neppure quando il realismo e la dimensione orrorifica rasentano la perfezione (es. le tavole di Miura). Mi sfugge altresì il motivo per cui Kiritsugu dovrebbe essere la metafora dell’otaku, se non genericamente per il suo essere “vuoto dentro”, condizione in realtà propria di qualsiasi uomo in qualsiasi tempo. Al di là di questo, comunque, la mia opinione sul finale è leggermente differente: nonostante sia evidente il pessimismo di fondo, in Urobuchi non si arriva mai ad un nichilismo totale, c’è sempre una fiammella che resta accesa nell’oscurità: Madoka che riscrive la storia e impedisce che le maghe cadute in disperazione si trasformino in streghe, Akane che resta a capo del dipartimento di polizia pur in aperta opposizione al Sibyl system, Kiritsugu che salva il bambino (e il Master di Alessandro Magno che si sopravvive). “E a chi mi dice che è sbagliato continuare a nutrire speranze potrei rispondere che si sbaglia. Potrei farlo, potrei farlo davvero!” (Madoka). Onestamente trovo questa scelta narrativa molto più accattivante di una generica risoluzione totalmente negativa, banale tanto quanto i finali all’acqua di rose; uno sforzo non da poco per un autore che asserisce di provare disprezzo “per l’ingannevole concetto che gli uomini chiamano felicità” e di sentirsi obbligato a far sprofondare i propri personaggi “nell’abisso della tragedia”. Non credo, inoltre, che i disvalori di Urobuchi –anche se forse sarebbe più corretto parlare di a-valorialità– siano meno autentici dei valori di quelle che l’autore della recensione chiama “grandi narrazioni”, né sono certo che derivino in toto dal periodo storico attuale e non anche dalla predisposizione e dal vissuto dello sceneggiatore (una volta lessi che da giovane rischiò di morire e ne rimase segnato a vita). In ogni caso, bell'articolo!

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    1. Oh, bellissimo commento il tuo. Sono onorato. Mi ha prevalentemente colpito questa asserzione: "per il suo essere “vuoto dentro”, condizione in realtà propria di qualsiasi uomo in qualsiasi tempo". Quanta verità. Ma Kiritsugu è macchiettistico e questo è un anime, una roba creata da otaku per altri otaku, e non un romanzo di Céline (mi sta quasi venendo voglia di "recensire" Le Voyage, quasi quasi...)

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    2. Parte 1/2 (sì, lo so, purtroppo sono logorroico…) Sicuramente nessun prodotto della culturale popolare giapponese può raggiungere la profondità e la complessità concettuale delle più grandi opere della letteratura mondiale novecentesca, sia perché il libro resta il medium di gran lunga più efficace da quel punto di vista sia per le specifiche modalità produttive e il pubblico di destinazione di anime e manga. Premesso questo, comunque, non ritengo che Kiritsugu sia macchiettistico: già Sofocle aveva capito che uno dei modi più immediati per creare un’opera di successo è realizzare personaggi monodimensionali, che fanno della diversità dei propri valori e dell’incomunicabilità con il mondo esterno il loro punto di forza, per poi farli sprofondare nella tragedia. Credo che questo sia dovuto a qualche intrinseca caratteristica della natura umana, più incline al tragico che al comico anche solo a livello inconscio, come se l’uomo intimamente comprendesse dell’inanità della sua esistenza: tuttora tutti conoscono (sia pure solo per fama) “le tragedie greche”, delle povere commedie non si ricorda quasi più nessuno, perché evidentemente per la loro stessa natura non toccano in egual misura le corde del nostro animo. Kiritsugu, seppur con una storia più contorta e arricchita da elementi fantastici tipici dell’animazione giapponese (talora anche eccessivi e fastidiosi, questo sì), è fondamentalmente un personaggio monolitico dello stesso tipo, che tra l’altro racchiude in sé tante delle idee proprie di Urobuchi. È una versione cinica e disillusa di Sayaka, uno che crede di poter diventare un eroe e salvare il mondo, finendo per rimanere schiacciato da quegli stessi ideali che precedentemente lo avevano guidato; non so se Urobuchi abbia letto Camus (suppongo di sì, vista la mole di riferimenti alla cultura dell’Europa occidentale presente nei suoi prodotti), ma di certo risulta evidente l’analogia tra le sue idee e la famosa frase presente ne La peste, in cui il genio francese affermava la sua stanchezza nei confronti dell’eroismo e di chi muore per un’idea. D’altronde “Fa un po’ rabbia a pensarci, ma non è detto che fare sempre la cosa giusta sia la strada migliore per arrivare alla felicità. Anzi, a volte siamo così convinti di essere nel giusto che ci ostiniamo nelle nostre posizioni, precludendoci qualsiasi possibilità di lieto fine” (madre di Madoka). Come Sayaka, Kiritsugu crede di non meritare la felicità (parola di Irisviel), ed è incapace di cambiare la realtà circostante fondamentalmente perché incapace di cambiare prima sé stesso. Quasi sempre in Urobuchi i personaggi sono fissi, rigidi, non mutano neppure quando si modifica il contesto attorno a loro (non è un caso che Sayaka muoia nuovamente anche dopo il sacrificio di Madoka), nemmeno se si rendono conto di essere nel torto e che sarebbe preferibile scendere a patti con il proprio io: “Akane Tsunemori, senza dubbio il tuo modo di vivere è corretto: non devi perdere di vista ciò che sei solo perché io ti ho tradita. Se ho scelto una strada diversa dalla tua, è stato solo per assecondare il mio egoismo e la mia testardaggine. So benissimo che probabilmente è uno sbaglio, però io non conosco altro modo di scendere a compromessi con ciò che sono se non percorrendo una strada sbagliata” (lettera di addio di Kogami ad Akane). È un personaggio di cui non si rappresenta uno sviluppo, dunque, ma si ricostruisce il processo evolutivo mediante lunghi flashback a poche puntate dalla fine, utilizzando lo stesso principio già adoperato con Homura.

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    3. Parte 2/2 Alla fine cambiano le storie e le ambientazioni, ma i temi trattati sono sempre quelli: forse Joyce non aveva tutti i torti quando sosteneva che nel cuore di un uomo non c’è posto che per un solo romanzo, e che quando se ne scrivono parecchi si tratta sempre del medesimo artificiosamente mascherato di altre parole. Credo che Urobuchi abbia amato molto Kiritsugu, dandogli anche dei tratti tipici del suo essere, come le armi da fuoco utilizzate per combattere, grande passione dello sceneggiatore giapponese. Non so quanto lui stesso si riveda nel suo personaggio, ma a naso mi sembra uno di quelli che scrivono per esprimere nella propria arte ciò che non potrebbero nella realtà, quasi una forma di catarsi, e che uccidono le proprie creature per non uccidere sé stessi (non saprei dire se metaforicamente o letteralmente). In definitiva, non posso negare che a me Kiritsugu sia piaciuto molto, perché mi è parso di intravedere attraverso di lui qualcosa dell’uomo che lo ha realizzato. Ma forse sono solo io che, pur avendo avuto la fortuna di ricevere un’istruzione di base, nell’animo non sono poi troppo dissimile dal pescatore analfabeta del Pireo che una volta all’anno andava a urlare il più possibile alle Grandi Dionisie per influenzare la giuria e spingerla ad assegnare il primo posto all’Antigone, perché il tragico è sempre cool :D

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    4. "In primo luogo, lo stesso concetto di otaku non mi è del tutto chiaro: si fa riferimento a giapponesi che spendono una quantità eccessiva del proprio tempo fruendo di anime e manga, a qualunque persona nel mondo ne sia dipendente o genericamente a chi, tra le varie attività quotidiane, spesso legge/guarda fumetti e/o serie giapponesi? "
      Da quel che ho capito l'otaku ha un'ossessione compulsiva riguardante una passione/hobby e consuma (sia comprando che visionando) prodotti collegati a quella passione/ossessione

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    5. Grazie per la risposta, ma anche questa lettura mi convince poco. Vista così, sarebbe un otaku anche un appassionato di musica che passasse tante ore al giorno su Youtube o Spotify, oppure un appassionato di tennis che a mezzanotte si mettesse a vedere la sfida tra il numero 300 e 500 del mondo in qualche sperduto torneo ATP250. Addirittura l’accezione negativa del termine si ripercuoterebbe su un amante della letteratura che non si lasciasse mai sfuggire l’occasione per comprare e consumare voracemente libri (a meno che non acquistasse solo prodotti facenti parte di quella che Montale, nella sua prolusione al Nobel, ha chiamato “belletristica”, ossia letteratura di consumo formata essenzialmente da romanzi rosa e gialli). Oltretutto questo spiegherebbe ancora meno come mai Kiritsugu sia un otaku, dato che chiaramente salvare il mondo non è un hobby. Anche accettando l’estremizzazione del concetto e considerandolo genericamente come un’ossessione, ci troveremmo di fronte agli stessi ostacoli espressi in precedenza, rischiando di cadere anche in strani o buffi anacronismi (Balzac era un otaku perché dipendente dal gioco d’azzardo?). Mi spiace, mi rendo conto di essere pesante, ma la risemantizzazione del vocabolo non mi pare vada di pari passo con una definizione precipua di caratteristiche peculiari di particolari individui, trattandosi in realtà di concetti che fanno parte della più vasta gamma della complessità umana.

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    6. Concordo che leggendo le discussioni sull'"otakuismo" in questo blog e altrove viene facilmente di fare paragoni con tendenze più vaste e persone vissute in tutt'altre epoche.
      Forse un elemento che è emerso e manca nella definizione di IlManichino è la questione dell'accumulo d'informazione: un otaku è una persona che da un lato consuma una gran quantità di materiale relativo alla sua passione, ma si dedica anche ad analizzarlo per sapere sempre di più su di esso e comprenderne le logiche sottostanti. Questa ricerca può essere dello studio vero e proprio, ma anche solo l'accumulo di un sapere enciclopedico fine a sé stesso e non contestualizzato.
      Nel caso del tennis, si potrebbe magari chiamare "otaku" una persona che vorrebbe seguire la partita con lo stesso occhio tecnico dell'arbitro e saper identificare e analizzare all'istante tutte le azioni e situazioni che capitano. Nella musica, potrebbe essere qualcuno che è estremamente attento ai dettagli delle basi, riconosce e caratterizza il singolo musicista o arrangiatore da piccoli dettagli (esempio per quanto riguarda la pubblicazione di sigle italiane di serie animate su CD: "Io so che quell'arrangiatore mette sempre nel mix stereo le trombe prevalentemente a destra e le tastiere a sinistra: se non è così, il brano in questo CD è stato remixato invertendo i canali! È un problema grave!"); o sa elencare la composizione storica e le discografie intere di gruppi sconosciutissimi (presente certe puntate dei programmi di Richard Benson? :) ).
      Queste caratteristiche appunto riportano alla mente l'immagine di un cultore portato all'estremo, e può darsi che si senta o no il bisogno di un termine a parte.

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