mercoledì 1 settembre 2021

Tokyo Monogatari: Recensione

Titolo originale: 東京物語
Regia: Ozu Yasujirō
 Soggetto:  Noda Kōgo,  Ozu Yasujirō
Musiche: Saitō Kōjun
Anno di uscita: 1953
 

"Tokyo Story è stato girato da un regista che ha veramente capito cosa è la vita." [Lindsay Anderson]

 

Il capolavoro di Ozu, opera universale nonostante appartenga ad un determinato periodo storico del dopoguerra giapponese,  è una monumentale riflessione sulla condizione umana del tutto refrattaria a narrazioni superflue, simulacri, filosofie, spettacolarità. In Tokyo Monogatari vi sono soltanto i fatti, e la rassegnazione ad essi (cosa tipica della poetica di un'altro grande regista giappoense, Takahata Isao). La storia narra del viaggio dei vecchi coniugi  Shuukichi  e Tomi, che vivono a Onomichi, prefettura di Hiroshima - città di campagna idilliaca scampata ai bombardamenti -, i quali si recano a Tokyo a trovare i figli. Nella città, che sta attraversando una fase di modernizzazione frenetica, trovano Kouchi, che è diventato un medico di quartiere (e pertanto un fallito) e Shige, che fa la parrucchiera. Noriko, moglie del figlio morto in guerra, è da otto anni che vive da sola, e non vuole rifarsi una vita. Lei, che meglio di tutti ha capito la sofferenza, sarà la persona più gentile e vicina ai due anziani, che verranno tuttavia trattati come un peso dai figli (a parte la più piccola, Kyouko, che vive con loro a Onomichi). Resta poi Keizou, che abita ad Osaka, che si disinteressa completamente della sua famiglia. 


 Ad un certo punto, dopo che i coniugi Hirayama sono stati spediti in un resort alle terme perché i figli non hanno il tempo materiale per prendersi cura di loro, dopo una tremenda esperienza con i giovani del posto, che fanno baldoria durante la notte incuranti degli anziani, l'acquiescente Tomi inizia ad accusare i sintomi di una malattia che, una volta tornata a Onomichi, la porta alla morte. Kaizou, che è il figlio più vicino alla casa dei genitori, arriva sul capezzale della madre troppo tardi, e in ritardo di un giorno rispetto ai figli di Tokyo (lontana svariate ore di treno dalla prefettura di Hiroshima).  Il medico di periferia e la parrucchiera, una volta morta Tomi, se ne vanno via il giorno dopo. In particolare, Shige vuole portarsi via il kimono e altri oggetti della madre. Disgustata da questo atteggiamento, Kyouko, la figlia più giovane, in una scena memorabile si sfoga con Noriko, arrivando a dirle "Iya nee, yononaka'tte...!", ossia "Che schifo, stare al mondo...!". Con il sorriso tipico di una donna giapponese di quegli anni, tanto gentile quanto rassegnato, Noriko le risponde "Sou, iyanakoto bakkari!", i.e. "Sì, nient'altro che schifezze!". Noriko riceve poi da Shuukichi il prezioso orologio di Tomi, e viene incitata a rifarsi una vita. In tutte queste fasi finali, Noriko sembra molto dura con sé stessa: ammette, con il suo solito sorriso, che un giorno pure lei potrebbe diventare come gli altri, perché la vita è quello che è, e indurisce le persone. Non vi è pertanto una vera condanna o un giudizio nei confronti di nessun personaggio: l'uomo è un essere talmente impotente e contingente da essere succube sia di sé stesso che del suo "enviroment" (in questo caso un dopoguerra lacrime e sangue vissuto da un popolo di radicate tradizioni familistiche, coadiuvato dalla transizione verso una società dei consumi di massa basata sull'alienante modello occidentale). E' fondamentale notare che la sospensione del giudizio, una delle virtù umane più difficili da raggiungere, è tipica del cinema di Ozu. Per dirne una, Shuukichi, che da giovane aveva il vizio dell'alcool, ricadrà nello stesso errore e capirà di non essere stato un buon padre per i suoi cinici figli: il vecchio ora è vittima, ma in passato è stato carnefice. Generazione mangia generazione: frammenti di natura umana sparsi nel ciclo delle esistenze.


La ricerca del realismo nelle piccole cose, nei dettagli carichi di significato, fa sì che i tempi della pellicola siano lenti, pachidermici. La telecamera "ad altezza tatami" di Ozu si insinua all'interno delle pareti domestiche a sondare le persone e le loro interazioni (Takahata farà sua questa tecnica in Hōhokekyo Tonari no Yamada-kun, omaggiando Ozu). L'inquadratura delle canne fumarie del quartiere di periferia in cui vivono i figli dei due anziani di provincia rende l'idea degli odori che si respirano in quell'ambiente; le inquadrature dello studio medico vuoto di Kouchi la dicono lunga sulla sua professionalità e così via. Nulla è lasciato al caso e ogni singola parola, ogni singolo sguardo e ogni singolo gesto formano un mosaico perfetto, sia nella rappresentazione che nella sostanza degli eventi. L'inqudratura di Shuukichi  e Tomi che guardano il mare, ad esempio, trasmette una solitudine ontologica: il loro tempo è finito e ora sono esclusi da un mondo che corre troppo velocemente per loro. Soltanto Noriko, immune all'antropofogia umana - i due anziani vengono simbolicamente "sbranati" dagli ipocriti e cinici figli, nonché dai giovani del resort - forse perché forgiata dal dolore per la perdita del marito, saprà costruire un rapporto umano autentico con i due ex suoceri. La riflessione sul dolore e sulla sua capacità di portare alla crescita personale o alla consapevolezza del dolore altrui, ma anche alla stasi (la paura di ulteriore dolore) in Tokyo Monogatari non abbisogna di orpelli esistenzialistici: Noriko riceve l'orologio, che simboleggia lo scorrere del tempo, e viene semplicemente incitata a vivere. "Ikirou!", come gridava Nemo a Nadia.  Perché sì, dopo aver constatato che non ci sono nient'altro che schifezze, vale comunque la pena vivere, perché la vita è tutto e da essa non si può fuggire.






2 commenti:

  1. Ciao, eccomi a commentare come promesso. Non posso fare altro che ripetere quando detto in whattsapp.
    Film magnifico, che fa male ma soprattutto, come le grandi pellicole d'autore, offre utili spunti di riflessione che fanno pensare. Il più grande di tutti: ci accorgiamo sempre troppo tardi di quanto avremmo dovuto trattare meglio le persone a cui vogliamo bene. Che non sono, come nel caso del film, solo i nonni o i genitori, ma anche amici o persone care. È bello come una pellicola possa contribuire, nel suo piccolo, a farti pensare a queste cose e magari a renderti una persona un filo migliore.
    Un'altra morale che mi è piaciuta (ma chissà se non sia solo una mia sovrainterpretazione) è che non sono i legami di sangue a creare una famiglia, ma i sentimenti. È la nuora Noriko la persona che più di tutti prende a cuore e vuole bene a Shuukichi e Tomi, rispetto ai loro figli biologici che sono dei disgraziati cinici e stronzi, inariditi dalla vita. Bella anche questa morale. ^^

    La tirata finale nichilista, cioè quando Noriko dice a Kyoko quella cosa del "non prendertela troppo con l'egoismo dei loro figli, tutti diventiamo o diventeremo così come loro presto o tardi, perché la vita ti rende così", confesso che non mi è piaciuta per nulla. Se Ozu la pensava così rispetto il suo pensiero, ma non lo condivido perché è falso. O almeno non ha di sicuro la valenza universale che Ozu intendeva dargli.
    Personalmente conosco un sacco di casi di persone che sono vicine o sono state vicine ai loro genitori fino alla fine, con affetto e amore. Persone perbene che sono diventate indipendenti pur senza tramutarsi in stronzi egoisti.
    Penso a mio padre ad esempio, che quando mia nonna è andata a vivere in casa di riposo negli ultimi anni della sua vita andava a trovarla quasi ogni giorno per un paio di ore, dopo aver terminato la giornata lavorativa alle 17. Ma appunto, morale nichilista a parte, il film è proprio bello e soprattutto educativo.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao God, con un testo davanti ti posso rispondere più accuratamente.

      Secondo me il punto a livello “umano” del film è che la vita è difficile e che le persone diventano/sono “merda” di conseguenza. Ovviamente ci sono anche i fortunati a cui le cose vanno meglio, e che in qualche modo possono pensare positivo al 100%, sopratutto da giovani o con una mentalità diciamo “fresca”, non corrosa da eccessive brutture. Ci sono anche persone forti di spirito, tipo Noriko, che nonostante le “schifezze” che hanno vissuto (a lei le è comunque morto l’amato marito in guerra) tirano avanti con un nichilismo attivo.

      Mi viene in mente Miyazaki, che diceva di Ozu le stesse cose che hai scritto tu. Secondo lui il nichilismo di Ozu era sbagliato ecc. Ma era un Miyazaki giovane, cresciuto da privilegiato nonostante la guerra. Dico “giovane” perché poi, a suo modo, anche Miyazaki nei 90s andrà incontro ad una visione non proprio rose e fiori della vita (On your Mark, Mononoke Hime, il finale di Nausicaa manga). E’ tutto un fattore di crescita personale credo. Data la mia esperienza di vita, ho amato davvero Ozu, e quando vidi questo film, piansi tutta la serata.

      Detto questo, penso che trattare il prossimo con amore è facile quando si è stati amati a propria volta. La cosa difficile è amare senza essere stati amati, o con qualche punto di rottura nel proprio animo o nella propria considerazione del sé. Per questo Noriko è un personaggio così grandioso a parer mio (infatti è molto autocritica oltre ad essere banalmente ferita).

      Elimina