Intorno a ora di pranzo incontrai mio padre all’ingresso del campeggio: indossava un orologio nuovo, lucente, che non avevo mai visto prima. Sul quadrante c'era scritto "Omega".
«Ciao pa’, fatta la spesa?».
«Sì, adesso andiamo a mangiare».
«Bello l’orologio…».
Mio padre ignorò le mie parole e continuò a insistere per farsi prestare il televisore dal custode, che a un certo punto si rassegnò e glielo andò a prendere controvoglia. Tornati all’MB100, dopo aver messo due bistecche sul fuoco, colui che col suo seme aveva innescato il meccanicismo che mi mise al mondo predispose il piccolo Mivar attaccandosi alla rete elettrica del campeggio. Una volta pranzato ruttò, aprì la sedia sdraio e, armato del suo nuovo orologio, si mise a guardare i suoi soliti telefilm americani, dei rush superomistici intervallati da pubblicità friggi cervello.
Quando aveva a che fare con la gente delle roulotte, inclusi i fratelli di Laura, che passavano spesso davanti alla nostra dimora con i loro sacchi in mano, mio padre si comportava come un agnellino: era amichevole e salutava sempre tutti. Nondimeno, nonostante fosse lampante che gli zingari lo infastidissero, non mi aveva mai espresso alcun divieto di frequentarli: l’importante era che non lo disturbassi quando dormiva o faceva le sue cose.
A un certo punto mi addormentai col Game Boy in mano mentre me ne stavo seduto per terra con la schiena appoggiata a una ruota dell’MB100. Quel breve intervallo di sonno venne poi interrotto da uno strano solletichio al naso: aprii gli occhi ed era proprio lei, Laura, che tutta divertita mi stava accarezzando la faccia con un dente di leone. Per completare l’opera mi soffiò addosso gli acheni del pappo, concludendo il tutto con una risatina dolce e frenetica, che lasciava intravedere i suoi dentini un po’ storti. Mio padre nel frattempo era sempre là dietro a russare fragorosamente, questa volta di fronte a una trasmissione dedicata alle aste di orologi. Laura gli rise alle spalle coprendosi la bocca con la mano filiforme; dopodiché, sussurrando scherzosamente, mi propose: «Oh, giochiamo a gittì?».
«Hai Gran Turismo? Figo!».
«Sì, sì, i miei due fratelli hanno la Play, ma ora non ci sono perché sono tornati a lavorare alle giostre. Via libera!».
«Mi aiuti ad alzarmi? Mi sento tutto incriccato…».
«Eccoci!» disse lei prendendomi per entrambe le mani e tirandomi su con un certo sforzo.
La roulotte in cui viveva Laura era molto pulita e ordinata. C’erano due posti letto separati, in cui probabilmente dormivano lei e Catiuscia; un tavolo ricoperto da una pellicola plastificata color legno, un angolo cottura e un televisore con la famigerata Play Station.
«Quanti libri! Sono tuoi?» le chiesi.
«Sì, sì, mi piace molto leggere… Adoro i romanzi con le signorine dell’Ottocento, quelli tipo Piccole Donne…».
«Devi essere molto brava a scuola!».
«Io non vado più a scuola».
«Sul serio? Io sono obbligato».
«A me il nonno non ha mai obbligato. Sono andata soltanto per imparare a leggere, e ora che so farlo a me va bene così, non serve a niente ripetere a memoria le cose come un pappagallo, no?».
«Sì, sì, hai ragione… Beata te!».
«Io so di essere brava, non ho bisogno che qualcuno mi dia un numero per ogni cosa che faccio, capisci?» osservò lei mentre accendeva la console.
«A me certe volte dicono che sono un asino, altre che sono bravo… Ma ormai queste cose non mi interessano più, tanto il primo a dirmi che non vado mai bene è mio padre, quindi ci sono abituato».
«Che pista scegliamo?» fece Laura dopo aver acceso televisione e console. Poi si accomodò al mio fianco, sul divanetto verde scuro di fronte al televisore.
«Chiudo la porta?» le chiesi.
«No, no, lascia aperto».
«Ah, ok. Che ne dici di questo percorso qui con la foresta?».
«Figo!» rispose lei sorridendo. «È il mio preferito».
Laura profumava di lavanda e tabacco. Per un attimo desiderai accarezzarle i capelli, ma il rumore del campanello di una bicicletta mi distrasse da quel mio strano torpore sentimentale. In poco tempo un paffuto ragazzino della nostra età, col gel sui capelli e i pantaloncini bucati in mezzo alle gambe, rivendicò l’utilizzo della Play Station.
«Ciao Shon» lo salutò Laura. «Non dovresti essere a scuola?».
«Mi hanno sospeso, non ho più voglia di tornarci. Chi è 'sto qui?».
«È il mio vicino di casa. I miei fratelli sanno già di lui».
Shon mi guardò di traverso e tagliò corto: «Dai, La’, voglio giocare da solo».
«Va bene, Shon... Dai, andiamo via, Nobo... prendo il mazzo di carte di Uno» disse Laura cercando di mascherare il proprio disagio. Poi si mise a frugare in mezzo alle sue cose, tra le quali vi erano alcuni romanzetti rosa e libri di fiabe simili a quelli che leggeva mia nonna. Trovato ciò che stava cercando, prendemmo posto al tavolino rotondo appena fuori la roulotte.
«Ma chi è?» le chiesi a bassa voce mentre mescolavo il mazzo.
«Te lo dico dopo» sussurrò lei, facendomi venire in mente una volta in cui nel bel mezzo di un discorso dissi la stessa identica cosa a mio padre: «Te lo dico dopo, pa’», e quello, dato che non sapeva aspettare né reggere il peso del non detto, tanto per cambiare si mise a fare il pazzo.
Laura sorrise e aggiunse: «Dai qua, ti insegno io a mischiare! Devi fare così, così e così! Capito?».
Feci cenno di sì con la testa e provai a imitare il suo disinvolto shuffle da pokerista.
«Non ci riesco, Laura…».
«Ci riuscirai. Esercitati, no?».
Passò qualche minuto e la ragazzina si alzò leggermente spingendo i palmi delle mani sui manici della sedia. Per un attimo guardò altrove, in lontananza verso il lago racchiuso dalla conca; i suoi occhi vispi ma intimamente rassegnati mi diedero la sensazione di essere una cosa sola col verde pulsante tutt’intorno.
«Toh, guarda, c’è mio fratello».
Riconobbi uno dei due adulti che spesso passavano per la roulotte di Laura: un volto duro e tagliente, il pizzetto, gli occhi scuri, un sorrisetto a metà.
«Roby dov’è?» gli chiese Laura. «Vuoi giocare con noi a Uno?».
«Oggi non c’è» rispose lui. Poi mi diede la mano e disse: «Piacere, sono Sandor».
«Piacere, Nobo».
«Non stai scomodo a dormire in quel furgone, Nobo?».
«Sì, abbastanza... ma pazienza…» e feci spallucce, stupendomi del fatto che quel tizio così minaccioso non mi facesse per niente paura.
Sandor si accese una sigaretta. Mi chiese se ne volessi una, ma rifiutai. Poi si mise a fissare me e Laura dritto negli occhi; nel momento in cui ricambiammo il suo sorriso, si convinse a giocare insieme a noi.
Dopo un po’ di tempo arrivò anche Catiuscia, e rimasi stupito dal fatto che pure lei, nonostante la sua giovane età, fumasse. Shon, dal canto suo, se ne stava sempre solo, chiuso nella roulotte a giocare ai videogiochi.
Quando si fece ora di cena arrivarono delle auto della polizia e Sandor ci salutò dicendo che doveva andare a parlare con gli xarnìserò (o qualcosa del genere).
«Che vuol dire xarnicazzonesò?» chiesi a Laura.
Lei rise e disse: «Teste… ehm... d’asino».
«Ah...».
«Vengono sempre qui da noi, che siamo brava gente. Non vanno mai dai veri cattivi».
«Mia madre li odia i poliziotti» dissi io. «Una volta mi ha detto che non l’hanno mai aiutata quando prendeva mazzate da mio padre».
«Mmh…» fece Laura. «Ma se tuo padre è così cattivo, perché tua madre ti lascia venire qui con lui? È proprio strano, sai? È la madre che comanda a casa, no?».
«Boh, a me la vita sembra tutto un casino in cui nessuno comanda niente… Io sono soltanto un pacco postale, questo sono… un po’ da lei, un po’ da lui… un po’ da lei, un po’ da lui...».
Laura mi scrutò con imbarazzo e pena al tempo stesso. «Oh, ora devo andare. Ci becchiamo al parco giochi alle nove di sera, davanti allo scivolo, che ne dici?».
A quelle parole il mio cuore si scaldò e i miei pensieri assunsero i colori della gioia più pura: viola come la sua maglia, nero come la sua gonna, castano come i suoi lunghi capelli mossi dal vento.
Il fatto che una ragazza come Laura provasse dell’interesse nei miei confronti mi fece sentire per la prima volta nella mia vita potente, sicuro di me stesso, capace di fare grandi cose. Non ero più un peso, un oggetto indesiderato.
Eppure, nonostante tutte queste sensazioni e questi buoni propositi, nel momento in cui al furgone mio padre mi accolse freddamente, senza salutare e con la faccia deformata da un miscuglio di paura e frustrazione, il mio cuore piombò nel gelo.
«Quelli sono zingari, sono ladri» sussurrò digrignando i denti. Aprì una scatoletta di tonno e aggiunse: «Toh, mangia questo. Prenditi i grissini, sono vicino al materasso».
Le macchine della polizia, accompagnate dal cinguettio metallico delle ricetrasmittenti, non se n’erano ancora andate.
«E tu non mangi?» chiesi a mio padre.
«Ho già mangiato al ristorante».
«Ah, va bene…».
Mentre ingurgitavo il tonno, scoppiai a piangere. «Non potrò più vedere Laura? Io voglio bene a Laura!».
«Tu puoi fare il cazzo che ti pare, sei mio figlio e sei anche un uomo, non un frocetto come vorrebbe tua madre. Ma sappi che quelli sono zingari, che rubano, che sono dei poco di buono».
«E allora perché sei così gentile con loro?».
«Vabbè, tu non capisci proprio un cazzo, Nobo» e mio padre, preso da un’insolita pietà nei miei confronti, buttò sul tavolo un pacchetto di fazzoletti. «Asciugati, dai. Poi fa’ il cazzo che ti pare». E se ne andò via.
Rimasi solo fino a quando calò il buio, un gelido vespro che insieme a un soffitto di stelle mi portò anche il buon Itti, che mi venne incontro con tre mele verdi nelle mani.
«Tieni Nobo, mangia: le ho prese dall’albero».
«Grazie…».
«Sorridi, su!».
«Senti, Itti, ma che ore sono?».
«Quasi le nove!».
«Devo andare da Laura!».
Itti fece un sorriso perverso, chiudendo il discorso con un «limonatela di nascosto, eh!».
Un pezzo di mela mi andò di traverso; iniziai a tossire e il mio amico mi prese a manate sulla schiena fino a quando la trachea non smise di fare le bizze. «Oh, mi hai spaccato la schiena in due! Diamine, Itti!».
«Dai, dai, vai a limonare, Nobo!» aggiunse lui con gli occhi di fuori. «Limonatela anche per me!».
«Vado!» e corsi via con una mela in mano.
La luna piena stazionava poco più in alto delle punte ondeggianti degli abeti. Laura troneggiava in cima allo scivolo, tronfia del suo piumino nero dalle tasche larghe. Senza accorgermene, mi misi a gridare «eccomi, eccomi, ciao La’!».
La regina delle celebrità sorrise, scivolò giù divertita e mi saltò addosso per abbracciarmi. Con il cuore scaldato da quel gesto, le chiesi come stesse suo fratello.
«Bene, bene, dai, non lo hanno arrestato… Sono asini, no?» ridacchiò lei.
«Tuo fratello non ha fatto niente di male secondo me» risposi.
«Certo! Mio fratello è un patatino!».
Il misto di serietà e leggerezza con cui Laura disse “patatino” mi fece sorridere bonariamente, un tipo di sorriso che fino a quel momento non ero mai stato capace di esprimere.
«Mi piacerebbe tanto essere forte come i tuoi fratelli... Mi piacerebbe un casino, ma purtroppo sono una mezza sega…».
«Tu sei già un patatino… Sei già forte, non parlare male di te stesso. Quando avrai l’età di Roby e Sandor, sarai ancora più forte di loro».
«Perché?».
«Perché noi abbiamo avuto un bravo papà, tu no».
«Tuo padre è morto?».
Senza alcuna reazione inconsulta, come se avesse già perfettamente assimilato e superato il dolore, Laura mi rispose: «Sì, mio padre e mia madre sono morti».
«Mi spiace, Laura…».
«Fa niente, così voleva il destino».
«La tua gente crede alla vita nell’aldilà?».
«No, Nobo. Per noi non c’è niente dopo la morte».
«A me al catechismo hanno insegnato che ci sono Dio o il Diavolo a seconda di come ti comporti in vita, ma mi sembrano tutte delle cavolate».
«La morte è morte, è come dormire ma non ti risvegli più» sussurrò Laura.
Avendola lì vicina e inerte, mi feci coraggio e le presi la mano. Non sapendo cosa dire, borbottai: «Che… che… b... belli questi anelli! Ma sono d’oro?».
«Sì, l’oro tiene lontane le cose cattive» rispose lei con la massima serietà.
«Sei la mia principessa! La mia regina delle celebrità!».
Alle mie parole Laura si mise a ridere e iniziò a giocherellare con i suoi capelli. Decisi di dichiararmi.
«Senti… ehm… io ti amo».
Laura si mise a ridere, una risata più fragorosa delle precedenti.
«Oh, non ci credi? Guarda che sono serio!».
Lo sguardo di Laura, da frizzante qual era, si fece subito malinconico.
«Andiamo, Nobo, sediamoci sull’altalena».
Mentre dondolavamo in silenzio, le lucciole iniziarono ad apparire timidamente intorno a noi, come se per palesarsi avessero aspettato il calare del vento. Il laghetto che riposava di fronte al parco giochi, incorniciato dal bosco di abeti, mi sembrò tingersi di varie chiazze di nero.
Fermai l’altalena, mi voltai verso Laura e dissi: «Oh, scappiamo via insieme? Così quando torniamo saremo sposati, no?».
Ma Laura non rispondeva, e continuava a fissare il suolo senza sorridere, senza dire niente, tutta pensierosa.
«Non possiamo scappare, quindi?» insistetti. «Mio padre se ne andrà affanculo e io verrò a vivere con voi! Lavorerò alle giostre, farò ciò che vorrete!».
«Non lo so» rispose lei. «Dammi del tempo per pensarci».
«Ma tu sei libera! Tu puoi fare quello che vuoi!».
«Non è proprio così» sussurrò Laura fissandomi dritto negli occhi. Quello non era più lo sguardo di una tredicenne, ma di una ragazza diventata improvvisamente adulta.
«Va bene, come vuoi! Ma sappi che ti amo tantissimo!».
Laura sorrise tiepidamente e ruotò il polso in modo da avere il palmo della mano rivolto verso l’alto.
«Sta iniziando a piovere, Nobo. Andiamo sotto la veranda del bar».
«Posso tenerti per mano, La'?».
«Ora sì, ma al campeggio no».
Con un miscuglio di sensazioni contrastanti nella mia testa, dall’infatuazione più profonda alla paura più angosciosa, passando in mezzo a tutte le varie sfumature di questi due estremi, brontolai un tiepido «ok».
Quando arrivammo nei pressi dell’entrata del campeggio, come presagito dal cielo che si oscurò sopra le nostre teste, scoppiò un acquazzone. Incuranti della cosa, io e Laura prendemmo posto all’interno del bar ristorante e iniziammo a giocare a Merda scambiandoci ogni tanto qualche effusione, con lei tutta preoccupata di dare troppo nell’occhio. Quella fugace intimità venne interrotta da un gocciolante Shon, che entrò nella sala portandosi appresso un ragazzino della nostra età che gli somigliava, sebbene fosse molto più magro di lui.
Facendo come se non esistessi, Shon tirò fuori un fiore mezzo appassito dalla tasca dei pantaloni e lo porse a Laura. Il ragazzino che lo accompagnava fissò quell’atto con i suoi occhi azzurri e profondi, il viso lungo solcato da un’espressione forzatamente dura e seriosa.
«Grazie» fece Laura. «Sandor è tornato? E Roby?».
«Ti stanno aspettando» rispose Shon. E dopo avermi lanciato un’occhiata di sfida, se ne andò via. Quando fu abbastanza distante, Laura si rivolse al ragazzino che lo aveva accompagnato, che era rimasto lì a fissarci come una statua.
«Braian, saluta Nobo, il ragazzo che è qui con me».
Lui mi porse la mano e con una stretta molto forte si presentò: «Piacere, Braian».
Quel ragazzino rimase per un po’ di tempo immobile a fissare Laura, come se volesse dirle qualcosa ma si sentisse in qualche modo frenato dalla mia presenza. Quando io e Laura riprendemmo a giocare a carte per i fattacci nostri, Braian decise infine di intervenire: «Oh, devo far vedere una cosa a Sandor, subito».
«Andiamo, allora» rispose Laura. «Viene anche Nobo».
«Sicura? Sandor è d’accordo?» chiese Braian guardandomi di traverso.
«Sandor non avrà niente in contrario. Andiamo».
Vidi chiaramente Laura buttare il fiore di Shon nella spazzatura. Poi posò le carte sul bancone in legno d’abete del bar, un gesto ormai familiare. Uscimmo fuori incuranti della pioggia che scrosciava con violenza e ci dirigemmo verso la famosa roulotte di rimpetto a casa MB100. Laura mi disse “aspetta qui” e ci entrò insieme a Brain e Sandor, che venne richiamato mentre fumava un sigaro sotto il gazebo. Dopo qualche minuto di attesa provai a bussare per capire se potessi entrare o meno nella loro dimora, ma non ricevetti alcuna risposta. A giudicare dai loro brusii, quei tre stavano parlando una lingua a me sconosciuta. Quando infine uscirono, Sandor e Braian se ne andarono via in due direzioni differenti, come se non si conoscessero; Laura mi prese sottobraccio e mi condusse fino al parco giochi.
“Che è successo?” chiesi io.
“Niente di che, Braian ha preso l’orologio di un ricco gagé giù al casinò e voleva renderci partecipi della cosa”.
“Per preso intendi rubato?”.
“Che brutta parola che hai usato, Nobo. In fondo tutti nel loro piccolo rubano. È una cosa naturale: il quadrifoglio che ho strappato alla terra l’altro giorno non mi apparteneva, eppure te l’ho donato e ciò ti ha reso felice”.
“Mio padre una volta mi ha fatto comprare un trenino con i soldi della paghetta di mia madre, e poi me l’ha portato via!” dissi ad alta voce, lasciando che la rabbia parlasse al mio posto.
Ci fu del silenzio. Laura salì sull’altalena e iniziò a dondolarsi. La imitai.
«Senti, La’, mio padre si è comprato un Omega. Perché non glielo rubate? Mi fareste un favore».
«Non sta bene odiare i propri genitori» disse la regina delle celebrità prima di andarsene via, dopo un lungo silenzio che non seppi interpretare.
Il giorno dopo incontrai nei pressi dell’entrata del campeggio Braian, il piccolo ladro di orologi. Quel ragazzino mi faceva paura, ma mi feci coraggio e gli chiesi se Sandor avesse qualcosa in contrario in merito alla mia frequentazione con Laura, dato che io alla fin fine ero un gagé, un alieno che di fatto non apparteneva al loro mondo. Per tutta risposta Braian fece una smorfia, mosse la testa come per dire “no” e tirò dritto verso il bar ristorante. Io lo seguii: lui prese una lattina di Coca Cola al bancone e mi fece cenno di sedermi con lui sugli scalini della veranda. Sentii della musica provenire dalla sala: era Voyage Voyage dei Desireless, una canzone che piaceva molto a mia madre. Senza temere che Braian mi considerasse un effeminato, cosa che mio padre mi avrebbe sicuramente fatto pesare, intonai:
“Au-dessus des vieux volcans
Glissent des ailes sous le tapis du vent
Voyage, voyage
Éternellement
De nuages en marécages
De vent d'Espagne en pluie d'Équateur
Voyage, voyage…”.
Braian fissava impassibile le macchine che entravano e uscivano dal cancello, come una sorta di piccolo giaguaro in attesa della propria preda. I miei pensieri invece erano pieni di Laura, che già mi mancava. A un certo punto sentii una voce familiare: «Eccolo qua, il signorino…».
Mio padre era venuto a prendermi. Mentre mi rimproverava per la mia sparizione, i miei mancati avvisi eccetera eccetera, Braian gli fece i raggi X con la sua solita espressione fredda e incurante delle cose. Il suo sguardo si posò infine sull’Omega Speedmaster che indossava. Subito dopo, il mio nuovo amico, se così lo si poteva chiamare, fece una nuova smorfia, si alzò in piedi e se ne andò via senza salutare.
«E quello chi è, eh? Chi è?».
«Nessuno, pa’…».
Mentre mio padre continuava a parlare e a redarguirmi, dando anche del poco di buono a Braian (il tutto ovviamente sottovoce per non farsi sentire), intravidi nuovamente Laura. Ma appena mi vide insieme a mio padre se ne tornò subito indietro verso la sua roulotte, senza salutare.
«A me piacerebbe viaggiare» dissi a mio padre dopo che ci mettemmo a letto negli interni umidi e sporchi dell’MB100.
«Ti ho portato qui in vacanza, che cazzo vuoi ancora? Andare alle Bahamas? Non sei una figa come tua madre, tu! Le cose te le devi guadagnare lavorando!».
«Vorrei essere libero come loro».
«Come chi, come gli zingari? Tu fai già il cazzo che ti pare, sei già libero. Non mi avvisi, non mi caghi mai, non ti fai mai sentire. Quando sei da tua madre sparisci. Non sei mai contento di niente. Colpa sua che ti ha viziato, ecco di chi è la colpa! Fosse per me ti manderei a fare il muratore, subito! Altro che studiare! Sono tutti soldi sprecati con te!».
Soltanto per contraddirlo, anche se odiavo la scuola con tutto me stesso, gli risposi: «Io voglio studiare, io non voglio lavorare!».
«Tu non hai la testa per capire le cose! Tu devi fare il manovale, neanche la patente per il muletto riusciresti a prendere, capito?».
Dopo che il mio cervello elaborò quelle parole, sentii una forte rabbia dentro di me: desiderai ucciderlo. Ma uccidere una persona è inutile, è brutto. Cercai allora di dissociarmi, di far scorrere dentro di me le parole uscite da quella bocca con i denti gialli e l'alito pesante giocando con l'immaginazione, come se fossi stato altrove sia col corpo che con la mente. Era una strategia ben nota, che avevo perfezionato nel corso del tempo. Mi misi quindi a pensare a Laura e a Voyage Voyage dei Desireless, una fuga romantica in paesi lontani e bellissimi. Piansi di nascosto, ma dopo un po’ mi addormentai. Erano successe tante cose, dopotutto.
Dopo qualche giorno passato a correre dietro a una Laura che si faceva sempre più fredda e disinteressata alla mia persona, Shon decise di fare ciò che molto probabilmente aveva a lungo premeditato. Mentre me ne stavo tornando all’MB100 per pranzare, mi tagliò la strada frenando bruscamente con la bicicletta, in modo da farmi arrivare addosso la polvere del sentiero che divideva due file di roulotte tutte attaccate tra loro. Poi brontolò con finta sicurezza: «Laura è mia. Tu devi smettere di infastidirla».
Il sorrisino paffutello di Shon fece tornare in me il vuoto e la rabbia che Laura aveva placato con la sua gentilezza. Quel ragazzotto dalla faccia stupida me la voleva portare via e io non ero disposto ad accettarlo.
«No, Laura è mia» gli risposi guardandolo bene in faccia, pieno di odio nei suoi confronti.
«Tu sei un cazzo di gagé. Sei un barbone. Ti abbiamo già sopportato abbastanza, noi».
Sulla parola “barbone” mi venne da gridare come una bestia e iniziai a picchiarlo. Lui si coprì goffamente il viso ma le mie botte, anche se tutte scoordinate, erano fin troppo rabbiose per lui. Una manata data di taglio sul collo, una roba che avevo visto fare in qualche episodio di Dragonball, lo fece infine capitombolare. Si rialzò e se ne scappò via piangendo, con un ginocchio sbucciato.
Mio padre a pranzo non badò ai taglietti che avevo sulla faccia e sulle gambe: in mattinata era stato in paese e si era comprato una radiolina della Philips che leggeva pure le cassette, e nella sua testa non c'era nient'altro.
Quel pomeriggio mi recai sotto la veranda del bar ristorante, sperando che Laura venisse a cercarmi. Ma al suo posto arrivarono Sandor e suo fratelllo Roby. I due si appoggiarono alla ringhiera, di fronte a me, e si misero a guardarmi in faccia senza dire niente. Il primo minaccioso e il secondo apatico, come se fosse stato portato lì controvoglia.
«Cosa diavolo hai combinato?» disse Sandor rompendo un silenzio pesante come il piombo.
«È stato Shon a iniziare».
«Non c’entra chi ha iniziato o chi no, lui fa comunque parte del nostro gruppo. Ti abbiamo accolto come uno di noi, e tu per ricambiarci lo hai picchiato?».
«Shon voleva mettersi tra me e Laura. E ha iniziato lui. È sempre stato geloso».
Sandor mi guardò dritto negli occhi, senza battere ciglio. Ebbi paura.
«Fai le valige e vattene, Nobo. Tu e tuo padre».
«No, io non me vado!» sbraitai con lo stomaco congelato dal terrore e dalla rabbia.
«E invece sì».
«Prendo la catena di mio padre e vi strangolo tutti! Shon per primo!».
«E io prendo la pistola» ribatté Sandor col suo solito sorriso beffardo.
«Calmo, calmo…» disse Roby al fratello. «È pur sempre un bambino».
Io me ne stavo lì immobile, in stato confusionale. Avrei voluto piangere e gridare, ma avevo troppa paura.
«Hai capito di aver sbagliato?» aggiunse Roby cercando di fare una faccia comprensiva.
«Ma… ma… è stato Shon a iniziare!».
«Shon può anche aver sbagliato, ma tu ti sei abbassato al suo stesso livello» osservò Roby distrattamente, dopo aver guardato l’ora sul suo Rolex in acciaio e oro.
«Ma è colpa sua! Di Shon! Cosa c’entro io! Io voglio bene a Laura! Io e Laura ci amiamo!».
A quelle parole, i due scoppiarono a ridere e se ne andarono via.
La sera mio padre venne convocato dal nonno di Laura, il vecchio con i capelli grigi tirati all’indietro, l’oro e gli abiti disgiunti. Mi appostai sotto la veranda del bar ristorante cercando di origliare cosa dicevano seduti a un tavolo là fuori: a un certo punto, mentre il vecchio parlava e parlava, vidi chiaramente mio padre sbiancare dalla paura.
Una volta terminato il colloquio, il mio genitore tirò via tutto nel più completo silenzio: il gazebo, la televisione, il fornello, le sedie sdraio… alle due di notte eravamo già in autostrada. Non mi disse mai nulla in merito a quella vicenda, né mai mi rimproverò. Niente di niente. Prese la sua radiolina della Philips, mise su una cassetta dei Matia Bazar, appoggiò il gingillo sul cruscotto ed ecco la vocina della Ruggiero che faceva “Solo tu col calore…”.
Iniziai a pensare intensamente a Laura, mentre il paesaggio di montagna che ci apprestavamo a lasciare scorreva via fuori dal finestrino nel buio che tutto ingoiava, noi inclusi.
“Risvegliarsi ormai per me… non ha senso senza te”.
Scoppiai a piangere e a gridare. Mio padre mi ignorò e schiacciò l’acceleratore, portando l’MB100 ai novanta all’ora. [Fine]







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