mercoledì 24 marzo 2021

DEADMAN: Recensione (by AkiraSakura & Shito)

 Titolo originale: DEADMAN
Autore: Egawa Tatsuya
Tipologia: Seinen Manga
Edizione italiana: Dynamic Italia
Volumi totali: 6
Anni di uscita: 1998~2000 (JP), 1999~2003 (IT)

 

«Lo scorrere di un fiume non si arresta mai... e per questo... non è mai uguale a se stesso.
Nell'acqua che ristagna... la schiuma può unirsi ad altra schiuma... ma non resta mai ferma a lungo.
Gli uomini e il dolore che affligge il mondo... non mutano mai.
»

Dopo una laurea ottenuta presso l'antica e prestigiosa università nazionale di educazione di Aichi (una sorta di Scuola Normale), Egawa Tatsuya decide di abbandonate la carriera di insegnante e di dedicarsi al fumetto, diventando un mangaka. Per un brillante giovane giapponese, nato nel 1961, si trattava di una scelta a dir poco controcorrente, considerata l'assai conformistica società della sua patria, soprattutto ai tempi, ma forse – come capirà al volo chi conosce la sua opera – il già intellettuale Egawa aveva in mente una forma di educazione più anticonvenzionale, se non rivoluzionaria. Nelle sue opere, infatti, mai scevre di una esplicita componente erotica, si direbbe ai limiti della pornografia, eppure del tutto assente di quella nota di voyeurismo ozioso che ne è tipico, l'autore innanzitutto critica con feroce intelligenza proprio il sistema educazionale giapponese: debutta con BE FREE!, l'antesignano del più noto, ma ben più frivolo e pecoreccio GTO, e in seguito, raggiunge grande notorietà con GOLDEN BOY, che non è affatto una mera commedia dai toni erotico-demenziali, come lascerebbe pensare la trasposizione animata. Divenuto ormai una contrastata personalità televisiva da salotti intellettuali, Egawa continua a condurre la sua critica del sistema scolastico giapponese, spingendola verso la svalutazione della formazione universitaria e della società nipponica essa tutta. Giunti negli Anni Novanta, sarà poi il turno anche di DEADMAN, che in effetti non è neanche più un manga vero e proprio, quanto una sorta di saggio di misticismo e filosofia politica travestito da storia gotica di vampiri. Dal punto di vista narrativo, DEADMAN è infatti organizzato (e disegnato) pressoché come una mera serie di dialoghi e racconti tra i personaggi, tanto da far pensare alla forma di trattato filosofico tanto amata da Platone, solo con l'aggiunta dei disegni: si tratta di una vera destrutturazione del medium narrativo chiamato "manga". 

Quanto al contenuto, Egawa si mostra qui giunto a un punto della sua speculazione intellettuale in cui la sua la visione del mondo si storicizza per assumere i contorni distaccati di una compassionevole pietas universale per l'umanità, ma anche di un amore delicato e rispettoso per la fragile esistenza umana stessa. Si tratta di un percorso forse molto affine a quello compiuto di Kawamori Shouji, altro vero prodigio intellettuale del mondo degli anime, che dalla ancora giovanile metafora sociale dell'SDF-1 di ChoujikuuYosai Macross (la stessa del successivo Megazone 23, ossia una trasfigurazione della bolla del benessere illusorio del Giappone dell'epoca del boom economico) passa all'interesse protoscientifico-alchemico di Tenkuu no Escaflowne (con la comparsata dello stesso Isaac Newton sotto mentite e dislocate spoglie!), per poi approdare, con Chikyuu Shoujo Arjuna, a una sorta di tentativo di mettere in animazione la Bhagavadgītā indiana. Paradossalmente e probabilmente, non avendo una religione monoteistica rivelata, dacché persino il cristianesimo per i giapponesi deve sempre passare per lo shinto e i suoi kami (come Akutagawa Ryuunosuke ci ricordava nel suo splendido racconto Il sorriso degli dei), l'evoluzione del pensiero di un autore del paese del Sol Levante deve sempre in qualche modo passare per l'analisi del gruppo/società e del suo deterioramento, andando poi divenire soltanto in seguito misticismo individuale e personale (per gli occidentali solitamente avviene un percorso inverso). Ponendosi dinanzi a questa parabola, il lettore occidentale potrebbe forse pensare al contenuto esistenzialista e agli approdi "religiosi" delle filosofie di Schopenhauer e Kierkegaard, ma per una mente giapponese il tutto rimanderebbe forse più schiettamente alla speculazione proposta nella produzione letteraria anziana di Natsume Souseki.


Dunque la trama di DEADMAN è del tutto funzionale, anzi realmente strumentale, ai lunghi monologhi e racconti elargiti dal protagonista: Kurosawa Ryuuichi è un misterioso studente trasferito proveniente dall'Inghilterra, che col suo fascino austero porta totale scompiglio in una banale scuola superiore del Giappone nel 1977. Kurosawa si dichiara interessato a "osservare le persone", e mentre i suoi goffi compagni sono tutti affascinati dalla sua eleganza fredda e tagliente, tanto da soprannominarlo subito come "il Conte", il lettore scopre presto la verità: egli è in realtà un vampiro che ha ricevuto il dono dell'immortalità, o per meglio dire la maledizione della morte eterna, più di cinquemila anni prima, rendendosi così testimone oculare di tutta la lunga storia del genere umano. Per di più, la sua sola presenza fisica, o forse l'emanazione della sua personalità, sembra essere in grado di provocare eccitazione sessuale e generico turbamento nelle persone che gli sono vicine, che si riscoprono preda dei loro istinti più atavici e quindi realmente belluini, istinti generalmente sopiti sotto il sostrato del sedimentato di convenzioni sociali. Tuttavia l'indole di Kurosawa non è affatto votata all'edonismo, quanto piuttosto alla compassione generalmente rivolta nei confronti di chi entra in contatto con lui: il vampiro è come un bodhisattva, un illuminato che non si cura delle frivolezze sociali e anzi pretende autodisciplina e rigore spirituale dalle sue succubi del cui sangue fa loro l'onore di nutrirsi. Il contatto con Kurosawa veicola infatti sensazioni di comunione fisica e spirituale assolute, il cui godimento è ben superiore a quello dell'orgasmo, e di cui risulta facile intossicarsi, fino ai più deteriori e mortiferi estremi. E così, se i compagni di classe (e anche gli insegnanti) alla sua presenza o, ancora peggio, al suo morso, si dissolvono in primordiali biomasse orgiastiche costituite da mera Wille/Voglia, le sue prescelte – selezionate per deliberata dedizione e capacità di autocontrollo – si dimostrano in realtà delle donne per nulla animalizzate, ma portatrici di valori, eleganza, dignità e soprattutto grande capacità di autodeterminazione. Questo è subito evidente sia nell'unica compagna di classe del cui sangue Kurosawa provi a cibarsi, ma ancor più con l'unica alunna con cui lui dimostri una certa affinità, ovvero la solare Kamijo Makiko. 

È quindi focale il fatto che, allo stesso modo nel quale Ikari Shinji si dissolveva nel famigerato "Progetto di Completamento dell'Umanità", per poi ritrovare un proprio senso in quanto essere umano alla fine della dissociazione, anche i personaggi di DEADMAN affrontino approssimativamente un percorso simile, altresì caratterizzato da sfaccettature filosofiche in comune. Ad esempio, il fatto che i buchi lasciati dai morsi dei vampiri si trasformino in vagine è un chiaro accenno a Schopenauer, che identificava i genitali come oggettivazione della Wille primigenia:

Le parti del corpo debbono quindi corrisponder perfettamente ai bisogni principali, in cui la voglia si manifesta, debbono essere la visibile espressione di quelli: denti, esofago e canale intestinale sono la fame oggettivata; i genitali, l'istinto sessuale oggettivato; le mani prensili, i piedi veloci corrispondono al già più mediato bisogno della voglia, che mani e piedi rappresentano. Come la general forma umana alla general voglia umana, così alla voglia individualmente modificata, al carattere dell'individuo singolo corrisponde la forma individuale del corpo; la quale è perciò nel suo complesso, come in ciascuna parte, caratteristica ed espressiva. [Arthur Schopenhauer, estratto da Die Welt als Wille und Vorstellung ]

Il desiderio di "diventare tutt'uno" con un'altra persona, onesta metafora dell'unione sessuale, è di fatto lo stesso identico che Ikari Shinji si vede proporre nel suo "mondo interiore" dalle tre femmine (modelli di femminilità) che ha attorno a sé: Katsuragi Misato, Ayanami Rei e Souryuu Asuka Langley.


Nel caso di DEADMAN, trattandosi di un'opera giapponese, il traguardo nei confronti del desiderio/Wille (che chi scrive ritiene di tradurre come "voglia" anziché "volontà" perché il filosofo si riferiva appunto al desiderio, che contrariamente alla volontà, non è cosciente) è quello di conviverci (sarebbe impossibile non farlo) con consapevolezza del proprio Io, che nel caso di una ragazza giapponese (paese con forte calo delle nascite e alienazione post-consumistica di massa), ossia Kamijo, è quello di invecchiare serenamente dando alla luce dei bambini sani ai quali non rinfacciare nulla, ma anzi, incoraggiandoli a perseverare nella vita. Kamijo infatti a differenza degli altri (e ancor più in perfetto antitesi rispetto alla "figlia adottiva", vampirizzata e poi rinnegata, di Kurosawa) è moderata in un modo "del tutto giapponese": resta sempre con i piedi ben piantati nella sua terra, ricorda e segue gli insegnamenti degli avi, soprattutto del nonno aviatore di guerra a sua volta discendente da un samurai, non cede a solipsismi di vario tipo ma si cura della comunicazione col gruppo, pratica uno sport marziale e vive una vita sana senza fronzoli. E ancor più, Kamijo "è giapponese" in quanto persona semplice, che non si oppone al corso della natura pur essendo refrattaria all'ipersessualizzazione: mentre tutti sono in pieno e disinibito calore, lei irrompe e infrange l'atmosfera delirante quasi surreale chiedendo con candida franchezza: "oh, voi non avete fame?". Un estratto dell'insegnamento del nonno di Kamijo che ci sentiamo in dovere di riportare è il seguente: «Un incontro non si combatte allo scopo di vincere contro un avversario! Dobbiamo vincere contro noi stessi! Solo riconoscendo e vincendo i tuoi difetti conquisterai la coscienza del tuo "Io".»  Il che è senz'altro emblematico di dove l'autore voglia andare a parare.

Egawa sceglie per altro di mettere in scena gli Anni Settanta, ossia gli anni della sua stessa adolescenza, per poi tornare sul finale ai giorni nostri, ovvero i tempi contemporanei della pubblicazione originale dell'opera, in cui le sue protagoniste ormai adulte e madri si meravigliano della precocità dei loro figli (all'epoca essere vergini a 15 anni era la norma, e infatti la giovane Kamijo accetta di consumare un rapporto sessuale soltanto dopo aver ricevuto una – seppur goffa – promessa di matrimonio). Il presente della fine degli anni novanta viene così palesato come un'epoca già intrisa di grandi solipsismi ed egoismi individuali, ben lontana da quella del nonno della protagonista pronto a dare la vita per la patria nella WWII. Torna sempre il tema della pratica di temperanza come grande virtù umana, vera pratica dell'esercizio spirituale. La stessa Kamijo potrebbe infatti apparire come una sorta di Sant'Agostina nata: la misura delle cose, l'assenza di illusioni. Ed è per noi affascinante rilevare questa nettissima somiglianza tra uno dei padri della filosofia cristiana e un personaggio (o l'autore?) di un manga giapponese che vuole rappresentare il "vero" sangue (modo di essere) giapponese. Lungo tutto il corso delle vicende (se vicende sono delle sfilze di dialoghi filosofici), questi estratti dei lunghi monologhi del "conte" Kurosawa ci paiono eloquenti: 

«Gli uomini credono solo... a ciò in cui vogliono credere. Preferiscono credere a ciò che la fantasia suggerisce loro... piuttosto che alla realtà.» 

«In questa epoca, in questa società... ognuno cerca di imporre agli altri il proprio punto di vista, non è vero? Il paese dei bambini... queste terre sono un paese di bambini.»

A quei tempi, la gente era più generosa... viveva e si concedeva secondo il corso della natura...  seguiva il proprio istinto...»

«Non essere egoista! Non esistere in funzione dei tuoi desideri! Non si vive solo di sogni! Guardati intorno! Fa' qualcosa che sia utile al tuo prossimo!»

Il "paese dei bambini" invero è un'arcipelago nel quale dei guerrieri vivevano a contatto con la natura, idealizzandola e adorandola nella sua intrinseca malinconia legata alla cognizione dell'essenza caduca, effimera delle cose. Ci si accoppiava quasi per caso, così come si moriva spesso per caso; il punto fondamentale che vuole far notare l'autore è che ciononostante comunque si viveva, cosa ormai perduta in una modernità che aliena dal corpo/terra/natura. Questo discorso, che davvero sembra proprio lo stesso che Takahata Isao metteva in scena in Ponpoko paragonando il modello di vita tradizionale giapponese a quello dei tanuki, oppure con quella Principessa Splendente venuta al mondo (letteralmente) per vivere tanto quanto "gli uccelli, gli insetti, le bestie", viene in DEADMAN  infarcito altresì da diagrammi piramidali di stampo scientifico-esoterico, nei quali il corpo, un po' come faceva notare Nietzsche, è il fondamento di tutte le umane cose, da cui poi si astraggono le percezioni (la coscienza), che si fanno pensiero/Spirito. Il distacco dal corpo/natura, che equivale altresì al distacco da sé stessi – fluttuazione, alienazione, solipsismi di vario tipo – è un po' ciò che condanna anche l'Arjuna di kawamoriana memoria. Dunque un popolo di bambini (definizione specialmente chiara anche ad Anno Hideaki)  non può staccarsi dalla madre/natura, altrimenti andrà in profonda crisi d'identità. Che poi si parli di bambini o di tanuki, poco cambia.


Sempre da un punto di vista storico-sociologico, persino più schiettamente "politico", tramite un lungo flashback del protagonista l'autore dedica spazio alla figura di Oda Nobunaga, che viene presentato come esempio supremo di ragion di Stato. Oda Nobunaga è senz'altro un personaggio storico molto amato in Giappone, tant'è che ne vediamo pressoché "abusata" la figura in numerosissime opere di finzione, persino svariati videogiochi, e in effetti l'archetipo del capitano  carismatico in grado di riassumere nella sua persona un'intera ideologia di conquista unificatrice è presente in una vastissima pletora di manga e anime, dai più ingenui ai più profondi, dai più classici ai più recenti. Si direbbe che proprio questa idea di un condottiero guidato da una bruciante ambizione di unificazione sociale, che il pensiero occidentale potrebbe forse facilmente definire di stampo "totalitaria massimalista", sia destinata ad affascinare il pubblico nipponico. Ciò non stupisce dacché l'idea di ordine gerarchico è uno dei valori fondanti della società giapponese, come si vede anche nella filosofia nota come "la via del guerriero" (cioè bushido, il tradizionale codice etico della casta dei samurai), anzi proprio questa rigore verticale è forse la chiave per comprendere il contrasto solo apparente tra la forte coesione comunitaria e la grande dedizione verso le individualità di spicco che pure è caratteristica del popolo del Sol Levante.  Nel caso di DEADMAN, Egawa introduce poi un ulteriore, cruciale elemento di fantasia che risulta terribilmente affascinante ma in effetti è sempre funzionale all'esposizione della sua propria speculazione intellettuale messa nei baloon del protagonista: così come il Kurosawa è un vampiro non-morto che ha calcato più di cinque millenni di storia, vagando per il mondo e assumendo mille nomi, allo stesso modo sulla faccia della Terra ci sono tanti altri "immortali" che hanno nei secoli vestito i panni di varie figure storiche apicali e apparentemente tra loro scollegate, ma in realtà riconducibili a gli stessi individui imperituri ciascuno portatore di una sua propria idea di vita e umanità. Ad esempio, nel caso di Nobunaga, la sua identità nasconderebbe anche quella di Giulio Cesare e Gengis Khan; ma anche altri importanti personaggi storici quali Platone, il Cristo e Shakamuni Buddha sarebbero in realtà le mentite spoglie di pochi immortali che attraversano la storia ricomparendo periodicamente per portare avanti la loro personale visione dell'umanità, trascinando con il loro carisma intere masse, o fazioni, dell'umanità.
 

La figura del distaccato protagonista del manga e quella dell'efferato guerriero Nobunaga potrebbero dunque apparire espressioni di filosofie pressoché antipodiche, ma così non è per l'autore, che preferisce invece affiancarle: entrambi i personaggi infatti capiscono che il bene del prossimo è la "dominazione" tanto quanto il bene del sé è il "dominarsi". Questo perché secondo Egawa, se si togliesse alla grande maggioranza delle persone comuni la catena sociale sarebbero – essenzialmente – davvero in pochi a non ridursi a pisciare in strada (cosa che ormai fanno in molti, non solo metaforicamente parlando, dacché la società postmoderna si è disgregata nella diffusione del benessere e ha già condotto alla rianimalizzazione di molti, come preannunciava Kojève). Fatto salvo ciò, nel tutto spicca ancora fortissima l'idea di un genere umano, di società civile bisognosi di un ordine, di un controllo sul sé: non essendo in grado di autodeterminarsi, si è quindi destinati a cercare modelli di riferimento nelle figure carismatiche e "superumane" di taluni grandi filosofi, pensatori, intellettuali, condottieri: comunque guide. Si tratta senza dubbio di una visione fortemente imperialista, che sicuramente avrà cozzato soprattutto con i movimenti universitari studenteschi di sinistra che si erano diffusi altresì in Giappone (e infatti l'autore nei suoi manga è sempre molto critico nei confronti degli ambienti accademici). Al contrario degli ideali propugnati in quei moti, in DEADMAN il "Conte" prende semplicemente atto del crollo dell'Unione Sovietica, per liquidare socialismo e comunismo come mere illusioni e palesi fallimenti (il vuoto ideologico post '89 era stato molto forte nel paese del Sol Levante: non per nulla da lì in poi sarebbe iniziata la corsa agli armamenti dell'Aum Shinrikyo). Ma anche il passaggio  da capitalismo a turbocapitalismo (la famigerata "globalizzazione") fu, con la caduta del Muro di Berlino,  motivo di forte riflessione per molti intellettuali giapponesi: si pensi a Oshii Mamoru, che in Patlabor 2 dipingeva la medesima precognizione della "guerra dell'informazione" che veniva anticipata in GOLDEN BOY e pienamente descritta in DEADMAN, dove verrà  dichiarata come già in corso dalla nuova, contemporanea "incarnazione" dello stesso Nobunaga (ma in effetti alla fine dei '90 si era appena agli inizi, e si sta forse toccando l'apice proprio ora con il Web 2.1 iper-socializzato).


In questa sua opera Egawa tuttavia si spinge ancora più in là, e sempre per bocca del "moderno" Nobunaga profetizza l'imminente fine della "guerra dell'informazione" come una sorta di disgusto ovvero nausea da sovrinformazione che farebbe da preludio della fase successiva. Guardando il mondo vent'anni dopo la scrittura di questo intelligente manga, non resta che chiedersi con rinnovata angoscia: ma dopo che cosa viene? Proseguendo nella profezia, Egawa ci presenta la sconcertante prospettiva della "guerra per il controllo mentale", intesa non come un classico scenario da  fantascienza distopica e dominazione sociale delle masse, ma come la del tutto opposta landa desolata dell'individualismo più sfrenato, dove le persone devono affrontare il baratro e la vertigine della solitudine spirituale del singolo rimasto nudo dinanzi alla realtà sempre più virtualizzata, con la sua debolezza eventualmente assistita da psicofarmaci religiosi (il fenomeno del settarismo) e realmente medici (psichiatria farmacologica). Ancora una volta, la previsione di questo "semplice mangaka" ci pare oggi agghiacciante quanto anatemica e tristemente concreta. E benché il fatto che la storia sia ciclica, e che la postmodernità/postindustrialità sia come la decadenza dell'impero romano, siano ovvietà che comunque il "Conte" rimarca senza alcuna ambiguità di sorta, è altrettanto vero che ciascun essere umano è destinato a percepire e patire la crisi del proprio tempo come quella definitiva.

Dinanzi al caos del gruppo e ancor più del singolo, poiché l'evoluzione sociologica tende sempre e sempre più all'individualismo, rimane quindi sempre soltanto la disciplina, proprio come l'omonimo album dei King Crimson (che guardacaso si ispiravano a Gurdjieff, proprio come l'ancora giovane Battiato e il suo "Centro di Gravità Permanente", che poi, per sincretismo, è la stessa cosa). Il "Conte", infatti, riprendendo la metafora del fiume che fa da leit motiv all'opera, dice: «Nuotare controcorrente... sostenuti solo dalla forza di un desiderio, non sempre ci conduce dove vorremmo. Al contrario, conoscere la direzione della corrente e cavalcare l'onda può renderci felici... Shakyamuni e Cristo... Nobunaga... Socrate... Sun Zi e Lao Zi... ognuno di loro, anche se in modi differenti... non ha fatto altro che mostrarci come tenerci a galla.» 

In questo si rivela anche il senso profondamente umanista della morale "distaccata" del protagonista del manga, e presumibilmente del suo autore: la vita umana nel suo totale e nel suo particolare può essere forse indirizzata, ma mai forzosamente osteggiata, arrestata, bloccata. Opporsi vanamente al fluire della vita  alla vita è non solo futile, ma altresì indebito e indecoroso, così come sarebbe l'opporsi allo scorrere dell'acqua. "Tutto scorre con la corrente", diceva solo pochi anni prima la giovane madre Ikari Yui, vero deus in-machina  dell'altrettanto filosofico finale di Evangelion, tenendo in braccio il suo ancora del tutto ignaro bambino. La stagnazione dell'acqua del fiume della vita si rivela quindi un torto e un danno sia sociale (calo delle nascite, disoccupazione, terrorismo, volendo aggiornarsi anche pandemie globali) che individuale, ed è mossa dal desiderio smodato e incontrollato che è necessario infrangere mediante la disciplina e che è anche l'amore – amore non solo carnale, dacché nel manga il protagonista ne è incapace, ma è ricco d'amore patetico e rispettoso per l'umanità, nonché di profondo affetto per tutta la discendenza del suo antico amico Kichinosuke, di cui Kamijo è una perfetta esponente: l'unica a essere destinata a divenire a sua volta immortale come sua erede spirituale. In seguito, la comparsata di Gesù Cristo a mille anni nel futuro, posta in parallelo con gli antichi segreti delle piramidi egizie, sembra mettere il punto ad una decostruzione totale di ciò che sembrava un trito cliché a base di vampiri come tanti (da notare anche come l'estetica gotica sia spesso usata come una sorta di antitesi immaginifico-narrativa rispetto al cristianesimo/sincretismo/misticismo più ortodosso).


In conclusione di questo articolo, scrivere un giudizio anche solo personale su DEADMAN risulta forse la cosa più difficile. Data la natura particolarissima dell'opera, che spicca per sperimentalismo e destrutturazione del suo medium, nonché in considerazione della forma e del contenuto espositivo del tutto, questo strano manga potrebbe forse essere assimilabile ai due discussi episodi finali della serie televisiva originale del qui già pluricitato ShinSeiki Evangelion, pertanto è estremamente arduo formularne una valutazione che si avvicini a una qualche linea di oggettività. Non si tratta di una narrazione che possa realmente attrarre per le sue rappresentazioni scollacciate, che sono anzi messe in scena con un punto di vista quasi da etologia umana, senza tuttavia mai sfociare nel banale esistenzialismo erotico d'essai. Non si tratta di una storia horror compiaciuta del suo stile. Non si tratta di un thriller, né di un giallo, né di una storia d'azione con protagonisti e antagonisti in lotta fra loro. A lettura conclusa, in effetti ci si chiede se quello che si è letto sia veramente un manga, ma forse è sempre stato così per tutte le opere di Egawa Tatsuya, che in coerenza con la sua biografia personale si riconferma sempre e comunque come un grande intellettuale mosso da una volontà educativa genuina quanto anticornformista, nonché furbesca e un po' sorniona. Uno strano miscuglio dinanzi al quale chi scrive no riesce mai a restare indifferente.

7 commenti:

  1. Vorrei ringraziarvi molto per questo articolo, che in parte conferma le mie impressioni e le connessioni metadisciplinari che mi erano venute spontanee alla lettura di questo manga (che è davvero notevole per le sue evidenti finalità neanche troppo nascoste di richiamo ad una grande attenzione verso le tendenze pericolose della contemporaneità), ma in gran parte anche mi illumina di tantisseima altre indicazioni e suggerimenti esplicativi. Mi auguro davvero che se ne parli ancora e che questo vostro articolo abbia la maggior diffusione possibile, sempre nella (remota ?) speranza che suscitii anche ulteriore commenti e discussioni. Sono argomenti molto seri e basilari per la lettura della realtà cui stiamo andando incontro.

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    1. Grazie mille a te, mi fa davvero piacere avere dei lettori così sensibili a quello che scrivo.

      Purtroppo per il discorso della diffusione dello scritto le piattaforme video come Twitch e Youtube hanno soppiantato i blog. Io continuo comunque a fare il blogger un po' per abitudine e un po' perché mi piace scrivere e rimanere allenato nella scrittura (e per di più non sono un buon oratore). Il blog comunque è ben indicizzato su Google, essendo i commenti moderati in modo tempestivo e l'ambiente molto pacato (a parte un solo anonimo che ogni tanto va un po' fuori dalle righe, ma essendo lui un caso particolare può fare da eccezione).

      Ciò detto, il passo successivo potrebbe essere la scrittura di un libro, ma i libri sono davvero poco letti in Italia. Il mio amico/collega Jacopo Mistè comunque ce l'ha fatta (senza autoprodursi ovviamente), ma è lapalissiano che il tutto resterà comunque confinato in una nicchia di appassionati. :(

      Ma in fondo a me va bene così :)

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  2. hahah, grazie per l'eccezione.

    Invece nella notte mentre studio/lavoro stavo ascoltando una canzone dei cure. Sotto mi è capitato un commento con22mila mi piace.

    Alla fine anche in epoca postmoderna ci sono ferite vere, e ferite da stordito. Per riallacciarmi a un discorso di shito che diceva che era da maestrino questionare sul tipo di entità dei drammi:

    https://www.youtube.com/watch?v=UmFFTkjs-O0

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    1. Sì, le ferite vere sono sempre esistite. A me ha colpito di più quello del signore che ha perso la donna della sua vita per malattia dopo 19 anni insieme. Ma la sostanza è la stessa.

      Il dolore degl altri va compreso comunque, e non usato come esempio. Va compreso in silenzio credo. La vita è una cosa molto difficile e un giorno ci siamo e l'altro non ci siamo più. Così come le persone che abbiamo amato di più al mondo e che vorremmo di nuovo indietro (questo è il motivo per cui ti tollero, ti vedo sempre molto angosciato dalla perdita, che per di più hai causato tu stesso, il che è la cosa più terribile).

      Certe volte spero che tutto questo abbia un senso, ma ahimé la Natura un senso non ce l'ha. Ma questo discorso va fatto nel post più recente.

      Tocca a noi dare un senso alla vita e ai suoi drammi, e senza alcuna vanità (quindi stai attento Cristiano). Ovviamente il tutto è molto, ma molto più faticoso in quest'epoca perché rende gli individui deboli, diffidenti, impauriti e incapaci di rischiare. Per non parlare poi di pandemie e possibili futuri cataclismi dovuti all'inquinamento causato sempre da questo industrialismo privo di spirito.

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  3. La verità dei traumi, delle ferite, è solo soggettiva. Una scala obiettiva non esiste. Anche l'empatia tra esseri umani è limitata alla possibilità di assonanza esperienziale. La fantasia non crea nulla, rievoca soltanto. La comunicazione interpersonale dell'esperienza emotiva è impossibile. Si tratta solo di un solleticarsi vicendevolmente senza poter sapere cosa provi, o abbia provato, l'altro. Oltre a ciò solo presunzione inganno. Nessuno sa com'è fatto un altro. Nessuno può comprendere la sofferenza altrui.

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    1. Proprio per questo parlo di tentativi silenziosi di comprensione. O quantomeno di pietas e misericordia, sempre silenziosa ("la mano destra non deve guardare cosa fa la sinistra..."). Ed ecco che nacquero le religioni... Siddartha che usciva dal suo palazzo e vedeva la miseria del mondo, Cristo ecc.

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  4. Si ho assodato da molti anni, almeno 5-6, che l'esperienza emotiva si muove per moto rievocativo per lo più.

    E anche evidente come alcune cose commuovono, perché in quanto umani esistono comunque dei valori e desideri quasi basilari.

    Anche negare, se non una scala stringentemente obiettiva, comunque una certa gradazione di importanza e significatività delle cose è reanimalizzazione e soggettivismo spinto e infantile, nel senso si può scrivere quel che si pare baloccandosi con la mente...poi la realtà resta li. Le istanze principali umane restano li.

    Mi veniva in mente ieri sera il finale di orizzonti di gloria, quello di kubrick.


    E il motivo per cui alla fine i romanzi sono vettori comunicativi più violenti della filosofia... La filosofia e un concetto, il romanzo al meglio e comunicazione esperienzale che però ha comunque alta capacità di risonanza in chi legge (=siamo tutti umani, con diverse sensibilità), col vantaggio di essere scevra da una sovraelaborazione logotica che nulla aggiunge.

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