mercoledì 29 maggio 2019

Dalla malinconia di Betty Boop alla malinconia di Haruhi Suzumiya


Betty Boop sta piangendo: un fiore le offre un cucchiaio di minestra ma lei lo rifiuta. Suo padre, con un grammofono al posto della testa, continua a brontolare, mentre la madre la guarda malamente, senza dire nulla. Betty Boop scende le scale e ammette di sentirsi sola. Una volta uscita di casa, la aspetta un mondo di surreale in cui vivono animali parlanti e oggetti animati, oggetti molto simili a quelli che si trovavano nella sua casa. 

Tralasciando il mero fattore estetico, che da Disney passerà di mano fino a Tezuka – i cosiddetti “occhioni dei manga” -, per poi approdare nel lolicon di Azuma fino al moe dei giorni nostri, gli elementi che paiono più ricorrenti sono tre: la casa, gli oggetti, la malinconia. Sicuramente dalla casa si può “uscire” (se tutto va bene) e approdare nell’ambiente al di fuori di essa, la scuola/società. Ma ci si potrebbe annoiare, ci si potrebbe comunque sentire vuoti e soli. Ed allora, stavolta al posto degli animali parlanti potrebbero esserci degli esper, degli alieni, volendo delle corazzate giganti… l’emancipazione dal proprio ego è difficile da ottenere. 

Ma cosa si intende veramente per moe?
Il primo otaku della storia, Hayao Miyazaki, può venirci incontro nel tentativo di trovare una definizione non stereotipata.

«Mi ero innamorato dell’eroina di Hakujaden (La leggenda del Serpente Bianco, 1958). Il mio animo era scosso, e mentre stavo tornando a casa ero inciampato nella neve che aveva appena iniziato a cadere. Paragonando la mia pietosa situazione alla serietà dei personaggi dell’opera, mi vergognavo di me stesso, e piansi tutta la notte.» [Hayao Miyazaki]

Hakujaden era stato il primo film animato a colori della storia in Giappone, uno dei migliori prodotti di consumo dell’epoca. Il borghese Miyazaki, cresciuto negli agi nonostante la durezza del dopoguerra giapponese, intorno al 1960 poteva già permettersi di innamorarsi di un disegno colorato, sentendosi socialmente inetto per questo (non per nulla gli otaku con le foto della Mahou Shoujo Minky Momo nel portafoglio faranno comunque scalpore all’inizio degli anni ‘80, così come tutt’oggi una madre di altri tempi può criticare il figlio otaku che decide di sposare la sua idol virtuale). La differenza tuttavia è che l’ultima generazione di otaku, in particolare quella che si sposa gli ologrammi condannandosi alla masturbazione a vita, non prova più vergogna: «penso che dovremo riconsiderare ogni tipo di amore e di felicità» dice il trentacinquenne giapponese Akihiko Kondo.

Uno degli amori di Miyazaki.

Ma ora ritorniamo all’inizio degli anni sessanta. Sebbene solitamente si associ la nascita del termine otaku a Macross, invero già vent’anni prima i pochi giovani benestanti che passavano il tempo a casa con la madre (i padri raramente tornavano a casa dal lavoro, dacché la ricostruzione postbellica era ancora in atto) venivano indicati come otaku, nome che molto probabilmente unificava in sé gli appellativi di madre (okaasan) e casa ( jitaku).  Non a caso, i membri dello staff di Sailor Moon dichiareranno che oltre a modellare le protagoniste in base al loro ideale di donna, volevano rivedere in loro la figura materna. Ma in fondo anche l’Eva 01 è invero la madre dell’otaku Shinji Ikari. Anzi, è madre e casa allo stesso tempo, e guardacaso ad un certo punto lo assimila facendo svanire la sua corporeità. Il moe  – moeru, “bruciare di passione” - è anche la ricerca di un modo per “congelare”  la propria adolescenza e le emozioni ad essa associate. Non a caso prima di esso, che ufficialmente risale agli anni novanta – Sagisawa Moe, Tokatsu Moe, Hotaru Tomoe… all’epoca nella board del 2ch non si parlava d’altro, e molto probabilmente lì aveva avuto origine il termine - c’era il lolicon (la "convenzione delle lolite"), che pur avendo dei connotati più erotici e meno “platonici”, era stato portato in auge dallo stesso Miyazaki (ma anche dai manga di Hideo Azuma) con la Clarisse del suo Cagliostro no Shiro. La purezza delle fanciulle lolicon à la Clarisse è in quache modo associata ad una condizione di rifiuto dell’impermanenza delle cose, di comodità, di torpore indotto dalle grazie materne. Una ragazza moe non invecchierà mai, dacché è un prodotto di consumo, e a lei si potrà tranquillamente accedere dalla propria stanzetta, senza troppe preoccupazioni, o guardando una VHS o utilizzando dei romanzi-gioco in stile Air, in cui il protagonista “vive” una vera e propria storia d’amore simulata. 

«L’ossessione per il lolicon è il provocatorio rifiuto di crescere dell’otaku, il rifuto di entrare nella società adulta.»  [Ejisonta]

 Una bomba atomica americana. Il sentimento di inferorità e stupore degli otaku nei suoi confronti troverà dapprima rappresentazione nella fantascienza (SF) e poi verrà inglobata nelle ragazzine moe, per poi diventare, ai giorni nostri, mera psichedelia decontestualizzata.

Ma prima dell’inizio degli anni ottanta, a parte casi isolati in stile Miyazaki, l’attenzione degli otaku era prevalentemente focalizzata sulla fantascienza, che condensava con un’adeguata simbologia le mirabili sorti progressive dell’umanità sancite dalla mostra di Osaka ‘70. Il sogno otaku per eccellenza qualche anno dopo divenne poi l’Armageddon, quel “reset the world” che i shinjinrui – quelli che Tomino chiamava newtype –, una volta cresciuti, rappresenteranno così bene nelle loro opere degli anni novanta. L’apocalisse è la pulizia di un mondo che non va bene in quanto troppo “sporco” e misarabile (ma anche ormai privo di Storia): per l’Aum Shinrikyo, è necessario far piazza pulita della vecchia umanità per poterne costruire una nuova – ovviamente dotata di superpoteri esp - che non ripeta più gli stessi errori della precedente. Sebbene Genma Wars (1980) sia tutto questo, e cioè l’apice del sogno otaku primigenio (e infatti il film fu molto apprezzato da Shoko Asahara, leader dell’Aum), con Urusei Yatsura ci si accorge che in realtà  l’apocalisse è interiore. In Beautiful Dreamer Mamoru Oshii fornisce la prima analisi del fenomeno, mettendo in scena l’otaku congelato nella sua apocalittica (e quindi desolata), adolescenza, con il suo “eterno” amore bidimensionale Lum.
Da un punto di vista più prettamente storiografico, l’apocalisse è reminiscente delle bombe atomiche americane, ossia delle scienza e della tecnica occidentali. Le bombe atomiche sono il vero punto di partenza della globalizzazione, con gli USA che, blocco sovietico a parte (che comunque sarà destinato a polverizzarsi), stabiliscono la loro egemonia politica e culturale sul resto del globo. L’otaku, consumatore animalizzato (e quindi americanizzato), non può fare altro che introiettare la dimensione sociale nella quale si trova, un po’ per idealismo stupido e rigetto della mancanza di finalità circostante (la prima generazione e la sua epica SF), un po’ per evasione e decontestualizzazione (la seconda generazione) e, infine, per pura assuefazione priva di alcun finalismo (le ultime generazioni, se ancora si possono definire “otaku”).

«Dopo che le loro fantasie apocalittiche sono collassate, gli otaku hanno costantemente virato verso il moe. Prima della loro ossessione per l’Armageddon, c’era la fantascienza, che aveva provvisto gli otaku di un’alternativa all’attuale futuro. Nel senso più ampio del termine, il moe ha rimpiazzato il futuro.» [Kaichiro Morikawa]

 "Voglio che gli spettatori sentano lain" dice Chiaki J. Konaka in un'intervista. Ciò non è un problema, dato che ella invero è un software dai connotati pseudo-mistico-esistenziali, un po' come Aura di Project .hack. Tutto cibo (ma di qualità) per otaku novantini.

Hotaru Tomoe è una ragazzina di dodici anni cupa e sola, che a parte la piccola Chibiusa non ha uno straccio di amico ed è posseduta da un’entità aliena ignota. Ergo soffre di una sorta di disturbo bipolare che le causa un’inaudita sofferenza psicologica, rendendola di fatto una disadattata. Si veste prevalentemente di nero e nella sua stanzetta piena di lampade ama fantasticare sul suo atleta preferito, ma non riesce comunque a trovare la forza di dichiararsi. Il padre di Hotaru è uno scienziato a capo dell’istituto più prestigioso della città, e a parte i fatto che sia posseduto pure lui, non passa quasi mai del tempo con lei. Nonostante tutto ciò, Hotaru è la guerriera Sailor più potente di tutte, e incarna il temibile potere di Saturno, che simboleggia la morte e la rinascita. Hotaru da sola è in grado di scatenare l’apocalisse.
Negli anni ‘90 una piccola asociale vestita di nero, alla pari delle sue colleghe lain, Shiina Tamai, Chise l’arma finale ecc. può replicare Genma Wars senza l’apporto di alcuna infrastruttura SF.

La pucciosa Chise è sia moe che un'arma finale in grado di distruggere la Terra. La bomba atomica è poco in confronto a lei.

Con il clima di distruzione sociale culminato nell’attentato dell’Aum del ‘95, i buoni propositi di Osaka ‘70 vengono archiviati, e l’SDF1 può inglobarsi direttamente all’interno dell'idol Minmei, senza che vi sia alcuna separazione tra il  “dentro” e il “fuori”. L’animo di Hotaru è esso stesso il palazzo del Dio drago, e le lampade nella sua stanzetta illuminano tiepidamente una generale mancanza di senso del vivere. La grande narrazione SF ha ceduto il passo al disagio nevrotico per eccellenza – tutte le “ragazzine apocalittiche” in fin dei conti sono bipolari (Hiroki Azuma parlerà di dissociazione interiore dovuta all'assenza di grandi narrazioni legittimanti da consumare). La bellezza illusoria dell’adolescenza “congelata” mostra quindi i primi segni di cedimento. Tale cedimento invero è la crisi apocalittica  di chi è solo, senza futuro, senza radici, di chi è stato svuotato interamente della propria umanità e che soltanto riottenedola temporaneamente, giusto il tempo di un lieto fine, riesce a stoppare la distruzione. A prescindere da ciò che effettivamente accade nel finale delle rispettive opere, Chibiusa fa rinsavire Hotaru, Arisu fa rinsavire lain, Shuji interagisce fino alla fine con Chise… differente invece il discorso per Narutaru, dacché Kitoh fa cedere completamente i suoi personaggi al nichilismo, rievocando il vero dramma dell’inconscio collettivo giapponese: la perdita del contatto con la Natura, con la tradizione Shinto (infatti Shiina Tamai fa uccidere l’insensata umanità postmoderna dallo stesso pianeta Terra). 

La malinconia di Hotaru Tomoe, capostipite delle ragazzine apocalittiche degli anni novanta/inizio duemila.

«Col passare del tempo il gusto otaku è passato dalla fantascienza agli eroge (i giochi erotici), dacché i ragazzi che da giovani avevano abbracciato  il brillante ideale di futuro promesso dalla scienza, col passare degli anni hanno visto questo ideale sporcarsi sempre più a causa della truce realtà attorno a loro. Penso che avessero bisogno di un’alternativa.»  [Kaichiro Morikawa]

Se viene a mancare la percezione dell’esterno, della realtà (che è troppo dolorosa, o forse troppo banale, o forse priva di vera considerazione per un ego cannibale che si nutre di sé stesso), è normale per l’otaku, cresciuto in mezzo alle macchine, interlocutore privilegiato di un computer, rifiutare la propria fisicità. Allo stesso modo di lain, l’otaku è il dio del (suo) mondo digitale, e pertanto l’infatuazione moe può discostarsi da una sessualità surrogato, assumendo più i connotati propri di un archivio di dati. Infatti con l’avvento di internet ogni otaku può crearsi, grazie ad appositi database, la sua Di Gi Charat preferita, combinando vari elementi moe in pucciose bimbette-feticcio che una volta passata la moda di Hotaru Tomoe (che comunque era ancora un personaggio con una sua narrazione personale)  diventeranno, fino a oggi, lo standard dell’animazione giapponese puramente moe. Questa “ricerca del feticcio”, tuttavia, non è superficiale come può sembrare. In essa rieccheggia ancora una volta ciò che Kitoh aveva analizzato in Narutaru, ossia la crisi d’identità del giapponese postmoderno. Il moe è Wabi-Sabi, un modo giapponese di indicare una certa estetica decadente e barocca allo stesso tempo. E’ un qualcosa che indirettamente rimanda all’estetica “pucciosa” degli Yuru-Chara (le mascotte che in Giappone, per tradizione, promuovono luoghi o regioni), e ancor prima alle forme animistiche degli atavici Yokai shinto,  che, una volta mescolatosi con certe suggestioni del kawaii, del lolicon e della cultura consumistica di massa, diventano l’oggettivazione di un senso di auto-inaccettazione inconscia dovuta al fatto di aver rinnegato le proprie origini e lo stesso mondo-società esterno. Dice di nuovo Morikawa: «quando scelgono questo orientamento [del moe] gli otaku intendono diventare patetici, sempre più patetici. Allo stesso tempo, godono nel vedere loro stessi diventare sempre più inaccettabili. Se ci pensi bene, questo è Wabi-Sabi.» 

Personaggi moe di Di Gi Charat, strategia multimediale di marketing che dà agli otaku novantini tutto ciò di cui hanno bisogno in termini di sonagli, orecchie pucciose, gonnelline e quant'altro.  Anche le ragazze di Evangelion, anime che denunciava un certo modo di vivere, invero sono state concepite per essere dei meri simulacri moe.

Una volta abbandonati gli anni novanta e i loro ultimi barlumi di coscienza, nel 2002 un anime tratto da una novel scritta da un hikikomori (i.e. un individuo mantenuto dai genitori che si chiude in casa senza fare nulla in modo tale da fuggire dalla società), tale Welcome to the N.H.K., liquida pesantemente il fenomeno del moe, mostrando dei protagonisti che falliscono nel sogno di creare un eroge e che quindi, una volta che i genitori si impongono, sono costretti ad andarsene a lavorare nonostante il loro status di disadattati. Uno accetterà un matrimonio combinato e l’altro non riuscirà nemmeno a mettersi con una ragazza con il suo stesso disagio sociale (e quindi in grado di capirlo, almeno in parte). La cosa che colpisce è che in un episodio, proprio questa ragazza, tale Misaki, farà a Satou, il protagonista,  tutto un affascinante, ma sconclusionato, discorso sull'esistenza di dio, sulla sua innegabile assenza, sulla sua presunta malvagità. Non è tanto una questione di benessere (Satou alla fin fine vive come un barbone, in mezzo alla spazzatura che non ha voglia di andare a buttare), ma una questione che riguarda la non-accettazione della vita data la sua mancanza di finalità. Ed ergo si avverte la mancanza di uno spirito, di una forza interiore in grado di dare un senso a ciò che effettivamente si dimostra insensato. Welcome to the N.H.K. è l'ultima grande presa di coscienza dell'animazione giapponese, e Misaki è l'anti-moe per eccellenza.

Alla fine di ogni puntata di Card Captor Sakura, che è un anime per otaku adulti camuffato da anime per bambine (come lo era ai suoi tempi Minky Momo), il suo animaletto Kero-Chan spiega tutti i dettagli del costumino che ella ha indossato durante il combattimento: questi dettagli non sono altro che gli "elementi moe" che ritroviamo anche, in forma diversa, in Di Gi Charat. Un otaku invaghito di Sakura, come di qualsiasi altra ragazzina moe, comprerà tutto ciò che è annesso al personaggio. La costosa edizione Blue Ray dell'anime non è di certo roba per ragazzine.

Ma la società nel frattempo sta cambiando, e una volta dimenticate le tragedie urbane del terremoto di Kobe e della metropolitana di Tokyo, si sta facendo sempre più torbida. Infatti nel 2004 Densha Otoko, dorama estivo di successo in Giappone, spiana la strada dell’accettazione “positiva” del fenomeno: l’hikikomori tutto sommato diventa una brava persona, ed è quantomeno presentabile nella corrente del mainstream (l'autore di Welcome to the N.H.K., dichiarando in televisione che aveva apprezzato il fatto che Shinji si fosse masturbato sul corpo inerte di Asuka nell'End of Evangelion, non aveva di certo dato un buon esempio).  Di lì a poco, la fighetteria de La malinconia di Haruhi Suzumiya (2006) è un vero e proprio boom che arriva fino al pubblico generalista. Ci si chiede quindi se la società non sia diventata essa stessa otaku.
Contrariamente alle ragazzine apocalittiche degli anni novanta, Haruhi non prova amore, nessuno la ama ed ergo non ha nessuno che sia disposto a salvarla da sé stessa. Ma non cede neanche troppo al nichilismo, che ormai è una cosa tacitamente accettata ma mai troppo esplicita. Semplicemente, lei e tutti i suoi amici/cliché otaku rivivono l’apocalisse piatta di Beautiful Dreamer nell’apatia generale, nella noia e nel finto entusiasmo, nonostante il protagonista Kyon abbia ancora un barlume di coscienza umana, che rimane tuttavia senza alcuna reale risoluzione. Da qui in poi il moe si “evolverà” nel gretto moeblob che tutt’ora conosciamo, che con Chuunibyou demo koi ga shitai! (2012) verrà altresì ricostruito su misura dei Chuunibyou, che ormai non sono più degli otaku, ma semplici alienati che, al pari dei pazzi rinchiusi nei manicomi, sono convinti di avere i superpoteri. E qui si ritorna, chiudendo il cerchio, a Betty Boop, che fuggiva nel mondo degli animali fantastici, soltanto che forse la malinconia se n’è andata, assieme alle emozioni, che ormai sono cibo indigesto.  Persone vuote guardano il nulla, scrivono del nulla nelle board online e intanto anche lì fuori c’è il nulla, con la recessione alle stelle e un drastico calo delle nascite, e non solo in Giappone. Insomma, un mondo che finisce

Rei Ayanami è un canone del moe novantino. La versione alternativa del personaggio che appare al ventiseiesimo episodio di Evangelion non è nient'altro che una nuova configurazione di elementi moe appositamente concepita da Anno per essere rivenduta ai comiket. 

 Key la idol metallica, tecnologica e moe allo stesso tempo, ha comunque un'amichetta disposta a farla rinsavire.

 
Puella Magi Madoka Magica è una riproposizione del moe apocalittico novantino con canoni estetici attuali e pretese prive di sostanza.

L'amore "plastico" e disinteressato verso una persona vuota e apatica conosciuta in discoteca o chissà dove non è forse come l'amore per una idol o un disegnino feticcio?


Bibliografia

Takashi Murakami, Little Boy

Francesco Prandoni, Anime al Cinema

Saburo Murakami, Anime in TV

Hiroki Azuma, Generazione Otaku

http://heiseidemocracy.com/2006/12/04/moe-as-commodity/

http://www.pluschan.com/index.php?/blog/16/entry-34-otaku-the-origin/

https://www.pluschan.com/topic/5478-moe-lolicon-kawaii-apocalisse-denti-storti-delle-ragazzine/

http://neojaponisme.com/2011/06/23/i-dont-wanna-grow-up-cause-maybe-if-i-did-id-have-to-date-3d-adults-instead-of-2d-kids/

http://pinkapplejam.livejournal.com/515149.html?thread=4480589

http://www.gwern.net/docs/eva/2004-okada

https://www.japansociety.org/otaku_talk

20 commenti:

  1. Cazzarola, questo articolo è un capolavoro.
    Così come tutti gli altri: apprezzo molto il tuo blogging.
    Dunque, si è passati dalla tendenza distruttiva atomica di Akira, ad avere ragazze atomiche e distruttive. E poi il resto.
    Ma si sa, il Giappone (il Mondo) è questo, la società è questa. Negli anime ci ho sempre visto un elogio alla distruzione, a volte come tappa necessaria per una rinascita.

    Moz-

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Sei uno dei pochi blogger di qualità.
      Ti terrò in considerazione se dovesse partire un mio progetto ;)

      Moz-

      Elimina
  2. Grande articolo sì.
    Leggendo dell'eterno presente mi è venuto da pensare come sempre più spesso negli anime viene usata la struttura del loop (alcuni nomi sono stati già fatti, Haruhi Suzumiya, Madoka, il Rebuild di Evangelion ma già il Beautiful Dreamer di Oshii più di 30 anni fa).
    Mi pare che ciò nasca dall'influenza di un altro medium e cioè i videogiochi, in special modo le visual novel. Addirittura non si parla più di finali diversi ma dell'impossibilità di raggiungere un finale durante la prima run; il giocatore deve ripartire da capo 2-3 volte per ottenere il vero finale. L'esempio più popolare credo sia Higurashi no naku koro ni, che appunto nasce come visual novel e solo dopo diventa anime.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ottima osservazione. Le VN infatti sono vere e proprie "grandi non-narrazioni", come faceva notare Azuma. Lo splatter e le loli a caso sono soltanto un surplus della facciata del prodotto, così come potevano essere dei surplus le teste mozzate, i sogni e i "Mr. Death Resurrected" di una Dream Hunter Rem a caso negli 80s. La sostanza invece è che percorrendo vari "paths" e/o incarnando personaggi differenti ogni volta, di fatto si può parlare di "bipolarità" postmoderna. E quindi di perdita d'identità/storia personale.

      Elimina
    2. Anche se il capostipite del "fatti un secondo giro per ottenere il vero finalr bello" è forse (la serie di) Makaimura, lol. ^^

      Elimina
    3. Dunno. Ho googlato. Intendi il videogiochino anni '80? Almeno questa non-narrazione suppongo non avesse una componente erotica/di identificazione forte come quella degli eroge. All'epoca per dissociarsi per bene c'erano gli OVA.

      Elimina
  3. Sempre un piacere leggere i tuoi articoli.

    RispondiElimina
  4. Gran bel approfondimento! È sempre un piacere leggere un tuo nuovo articolo :)

    RispondiElimina
  5. I tuoi articoli si fanno aspettare, ma ne vale sempre la pena! A presto! :)

    RispondiElimina
  6. Il 7 luglio dell'anno scorso mi era venuta quasi di getto una poesiola immedesimandomi in parte dei contenuti di questo articolo (e di quelli del dossier sulla postmodernità). Ora che è passato del tempo e mi sono tornati in mente questi grandi esempi di sistematizzazione di contenuti, provo a lasciarla qui (dopo aver pensato di farlo alcune volte in passato), come principale complimento che io possa offrire all'autore. (Credo che questo contributo abbia potenzialmente della sensatezza, anche se la persona che ha lasciato quello "sclero" - mi si passi il termine - sotto l'altro articolo non dovrebbe farsi di questi problemi.)

    [Canto di rivelazione]

    Qualcosa, infine, spunta...! Nel fermento di un istante
    quasi ho vissuto una rivoluzione.
    Ti amerei, ragazzina, se in un modo progressivo
    fiorisse il tuo discorso che ora ho scorto.

    E non piange l'amaro dei libri, e se ancora sogguarda
    il tuo aspetto incapace, ha un anelito in più di speranza.
    Oh, per te non occorrerà più il mio sforzo di edurti!
    - temo solo che il mio equilibrio mi occluda ogni passo.
    Calasse l'intuizione del tuo animo
    senz'altri urti sul mondo, saresti inumana di certo;
    ma invece a un mezz'uomo offri fede confusa ed euforica.

    Credevo nel tuo zelo, meno nell'ordine intero
    che si svolge ora in ombra di chiarezza.
    Ti odierei, ragazzina, se oltre un'ossessione incerta
    fiorisse il tuo discorso che ora ho scorto.

    RispondiElimina
  7. Mi unisco ai complimenti per la completezza dell'articolo, anche se ammetto di aver più volte perso il filo del discorso, non conoscendo il 90% delle opere citate. Se posso, vorrei porre una domanda scontata: quali sono gli elementi di un anime che, ad un occhio esperto, rimandano immediatamente alla sfera moe? In modo forse superficiale e ingenuo, credevo rientrassero nella categoria tutte le imbarazzanti fantasie da giapponesi tipo orecchie da gatta, costumi da coniglietta, maid cafè ecc., oppure la sessualizzazione delle figure femminili (es. inquadrature ripetute su petto e lato b). Personaggi come Rei o le maghette di Madoka, però, in quali aspetti fisici/psicologici sono tipicamente moe, al di là di caratteristiche più genericamente "da anime" tipo l'età adolescenziale e i capelli colorati? Grazie in anticipo per l'eventuale chiarimento.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Ciao, grazie per il complimento. Il moe è un simulacro di giovinezza immacolata e idealizzata, a uso e consumo di maschi insicuri e socialmente emarginati. Quando ci sono ragazzine sessualizzate è lolicon. Spesso le due cose convivono, ma non è sempre detto. La sessualizzazione storicamente è arrivata quando gli adulti hanno iniziato a fare anime per altri adulti. In Miyazaki ad esempio, che è un autore per bambini, il moe è presente soltanto come idealizzazione della fanciulla kawaii/kawaiso.

      Elimina
    2. Ora comprendo meglio, grazie. Acquisterò il saggio di Hiroki Azuma che qui è spesso citato per avere un quadro più completo della situazione: nonostante la loro stranezza per un occhio esterno, sono discorsi a loro modo affascinanti, quantomeno se indagati con occhio critico e un taglio quasi accademico come in questo articolo. Certo che, intendendo così il moe, faccio davvero una grande fatica a immaginare anime che ne siano del tutto privi: qualche ragazza "pucciosa" c'è praticamente sempre, ad eccezione di pochissime serie di nicchia alla Texhnolyze.

      Elimina
    3. In Texhnolyze se non ricordo male c'era Ran.
      In "Generazione Otaku" Azuma parla anche delle Visual Novel che trovo particolarmente interessanti per capire ancora di più il discorso dei simulacri e gli utilizzatori.

      Elimina
    4. "faccio davvero una grande fatica a immaginare anime che ne siano del tutto privi: qualche ragazza "pucciosa" c'è praticamente sempre"

      L'inconscio collettivo giapponese contiene in sé una sorta di adorazione verso le cose della natura, di cui la vergine è una delle massime espressioni (come ebbe a scrivere anche Kierkegaard in occidente). Con la postmodernità l'adorazione della "ninfetta" o "fanciulla in fiore" diventa un simulacro, un prodotto di consumo: un dato, come ogni cosa.

      Elimina
    5. @IlManichino hai ragione, l’avevo completamente scordata, forse perché tutta la serie è fortemente allegorizzata e, mentre la guardavo, ho ritenuto Ran un simbolo di qualcos’altro come molti degli altri personaggi ivi presenti, senza considerarla in quest’ottica. Me tapino, non resta proprio nulla allora.
      @Francesco Messina molto interessante anche questo piccolo approfondimento. Avevo dato per scontato che la frequente presenza di simili aspetti nell’animazione, così come l’età media dei protagonisti o il culto acritico del kawaii tipico del Giappone in generale (non soltanto nei cartoni), fosse da ricondurre all’adorazione che il popolo nipponico ha per l’adolescenza tout court, dato che lì l’ingresso nell’età adulta segna sostanzialmente la fine di ogni libertà personale.

      Elimina